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Irene Buselli - Marta Cristofanini - Matteo

FuoriFormato - Mercoledì 27 giugno


Nicola Galli in MARS

La seconda serata di FuoriFormato – Festival internazionale di danza contemporanea e videodanza si muove a senso unico verso la compressione di volumi, pesi e distanze: l’ampio spazio abitato dalla prima performance - l’intero giardino di Villa Durazzo Bombrini - si riduce a pochi metri quadrati nella seconda, fino alla danza trasformativa finale che occupa esattamente 45 cm d’altezza. E proprio il dialogo tra il danzatore e le dimensioni in cui gli è concesso muoversi diventa protagonista della scena.

All’interno di Un minimo distacco, il corpo di Caterina Basso e il giardino della villa sono alternativamente soggetto in scena e sfondo, lo sguardo - a tutti gli effetti performativo - dello spettatore sceglie di continuo quale dei diversi elementi davanti a sé mettere a fuoco e quale no, i gracidii delle rane e il fremere degli alberi fluiscono insieme a I’m on Fire di Bruce Springsteen, ai rumori bianchi e alle battute spezzate di vecchi film, emessi da un paio di casse sulle scale della villa. L’audio è discontinuo, gli slanci della danzatrice si interrompono, frustrati, senza risolversi, continui tentativi ginnici a cui mozza il fiato e che vengono sostituiti da una danza d’ascolto interiore, canticchiata a fior di labbra, accennata e goduta in solitudine. E a noi sembra di spiarla dal buco della serratura o di essere lo specchio discreto di questo delicato flusso di coscienza.

L’attenzione del pubblico si concentra così sulla convivenza di leggerezza e peso che sarà in parte protagonista di MARS, seconda performance della serata, dove Nicola Galli esplora la gravità marziana, minore di quella terrestre ma superiore a quella della Luna. L’azione qui si compone di cinque movimenti ben scanditi, cinque stadi evolutivi in cui il corpo del performer e i neon presenti nella sala al primo piano della villa si presentano in stretto dialogo: da luce indistinta, Nicola Galli si fa ombra contro il fondale, corpo astratto e lunare, poi si concretizza, diventa animale, e infine esce di scena, lasciando poche dita d’acqua a evaporare su un fornelletto elettrico - ancora un processo di trasformazione, forse un poco didascalico -, mentre la melodia di O Solitude sovrasta i rumori provenienti dall’esterno – le finestre della sala, infatti, restano spalancate per tutta l’azione - e le parole di Henry Purcell scorrono sul fondale. Il movimento del performer si differenzia di stadio in stadio, facendo intuire al pubblico la differenza tra crateri, pianure e canyon, tracciando una mappa aliena possibile solo grazie a un incredibile controllo del proprio corpo, che a tratti sfiora un virtuosismo al tempo stesso esasperato e commovente. Performer e regista dell’allestimento da lui stesso di volta in volta modificato, Nicola Galli si aggiudica grazie alla meticolosità della messa in scena - che si intuisce essere fedele alla sua forma ideale - un’aura da enfant prodige: ha saputo imprimere nei suoi spettatori un’aspettativa curiosa per le creazioni future.

Per la terza performance gli spettatori scendono al piano terra in una sala chiusa, dove Federica Dauri aspetta distesa dietro la pedana su cui si terrà l’azione. Il suo corpo nudo, costretto tra il piano e un foglio di plexiglas sospeso a meno di mezzo metro, si muove con un’urgenza trattenuta, alla ricerca di esoscheletri da assumere e poi sfaldare. Il controllo del movimento diventa qui quasi claustrofobico e allo stesso tempo perde ogni limite umano, il confine con l’animalità tende a sparire del tutto. La nudità integrale è spiazzante all’inizio della performance, dal momento che il corpo acquista una tridimensionalità ravvicinata quasi violenta nella sua totale esposizione. I contorsionismi che poi questa “creatura” intrappolata è costretta a subire e a mettere in atto comunicano un disagio incandescente, costringendoci a un’apnea simpatetica a cui segue una simbolica emersione attraverso i lunghi, ossigenanti applausi finali.

Kheperer è il nome dello scarabeo egizio, investito anticamente del potere di rinascere e trasformarsi. “Kheper”, il verbo da cui deriva, tiene in sé numerosi significati: manifestarsi, essere in divenire, cominciare un nuovo ciclo, generare se stesso. È, questa, una perfetta ricapitolazione dell’incessante mutamento di mondo a cui abbiamo partecipato durante la serata.

oca, oche, critica teatrale
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