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Massimo Milella

Intransito 2019 | Da un punto di vista drammaturgico


Poche settimane dopo Testimonianze Ricerca Azioni, il Teatro Akropolis torna protagonista della scena contemporanea italiana in terra genovese, proponendo al suo pubblico un'edizione di Intransito – la quarta – particolarmente interessante, per varietà e qualità dei lavori presentati.

La fruttuosa collaborazione con Officine Papage, La Chascona, unitamente al sostegno del Comune di Genova e allo sponsor Conad, consentono allo staff del gruppo sestrese di ospitare una intensa tre giorni a ingresso libero, con relativo sforzo tecnico e organizzativo non da poco, e un premio di produzione di 1500 euro ai vincitori del concorso, scelti da una giuria composita e qualificata, nella rosa dei sei finalisti in gara.

Ha vinto Pan Domu Teatro – ovvero Luca Oldani con la collaborazione di Jacopo Bottani – con Assenza Sparsa, ma non sono mancate le meritatissime menzioni speciali, ben due ed è la prima volta, a Stand still you ever-moving spheres of heaven di Chiara Taviani e Henrique Furtado Vieira e Anche i cori russi mi consolano. Ode a un padre militante della compagnia Alluma.

Noi dell'O.C.A. abbiamo seguito due delle tre serate e ci siamo confrontati con molte colleghe e colleghi in sala, leggendone poi le relative ed accurate recensioni. In questa sede vorremmo proporre però uno sguardo particolarmente centrato su uno degli elementi più significativi che, secondo noi, è emerso da quest'edizione di Intransito, ovvero l'approccio specifico alla drammaturgia. Ne approfittiamo per scusarci sin d'ora con Archipelagos Teatro per non aver visto – e quindi per non poterlo inserire nella nostra analisi – Aspide Gomorra in Veneto, confidando di trovare altre occasioni per non farcelo sfuggire.

Iniziamo con due nomi: Laura Nardinocchi che ha scritto e diretto Pezzi – Si vive per imparare a restare morti tanto tempo e Maria Giulia Colace autrice e regista di Anche i cori russi mi consolano. Ode a un padre militante.

Differenti modalità di scrittura, ma entrambe aderenti ad una scuola particolarmente riconoscibile di un testo pensato, scritto, messo in scena, lavorato, costituito da dialoghi che evocano relazioni, lacune eloquenti, esitazioni, declinazioni del dire e dell'agire, care a una voglia di fare drammaturgia più vicina alla tradizione, quella della costruzione di una trama a partire da uno sviluppo logico e dialogico.

Nardinocchi mette al centro della scena una famiglia tutta al femminile, composta da una madre e due figlie, una ancora bambina e l'altra in piena e sofferta adolescenza: il tema principale ruota intorno al Natale, alle tensioni non risolte che vincolano questa famiglia al ricordo di un padre morto, un lutto rispetto al quale evidentemente nessuno ha fatto pienamente i conti.

La drammaturgia di Nardinocchi ha il pregio di seguire una via decisamente inconsueta nei testi contemporanei, quella del flashback. Lo sviluppo dei quadri cioè, pur osservando una sostanziale unità di spazio e di tempo, viene interrotto da squarci del passato che, attraverso un elegante riutilizzo degli oggetti scenici che vanno a comporre ambientazioni diverse - gli scatoloni disseminati nella sala dove le protagoniste stanno decorando il loro tradizionale albero di Natale, rimontati in modo differente, evocano la scenografia di un cimitero - arricchiscono la vicenda di episodi che aiutano a ricostruirne meglio le tensioni attuali.

Le fragilità di questo sistema drammaturgico, certo, sono duplici: sul piano narrativo, prestano il fianco al rischio di una sorta di giustificazione della scena, per cui alcune direzioni della trama, certi tagli dei personaggi, arrivano più dalla conoscenza dei loro antefatti che dall'efficacia dei loro dialoghi – o dei loro silenzi, quindi più dal passato che dal presente, alterando l'equilibrio narrativo; su quello tecnico, invece, esiste concretamente la possibilità di un'assuefazione del pubblico al meccanismo del flashback, se reiterato, e di un'eccessiva artificiosità.

Ma Nardinocchi riesce a lavorare con coraggio per evitare questi rischi, occupandosi in prima persona della regia e aiutando il più possibile la propria scena a funzionare. Alla fine in un certo senso ci riesce, il flashback si rivela il pezzo pregiato del suo testo, drammaturgicamente curato e visivamente reso con intelligenza, probabilmente uno dei motivi principali del valore riconosciuto al lavoro di Rueda Teatro, artiste premiate con la vittoria del Roma Fringe Festival 2019.

La sensazione generale, tuttavia, è di un lavoro che non decolla e il sospetto è che questo accorgimento finisca per lasciare alle dinamiche della scena principale, ovvero al presente che si apre ai nostri occhi - la dolorosa preparazione dell'albero di Natale -, una serie poco interessante di conflitti ripetitivi, un ritmo ridondante di rabbia compressa ed esplosa che alla lunga perde la sua ferocia.

Si intravede la necessità di una maggiore concretezza che alleggerisca e renda più naturali gli sviluppi del testo, all'interno del quale i tre personaggi – molto caricate le caratterizzazioni Ilaria Fantozzi e Ilaria Giorgi, più libera di creare Claudia Guidi – sembrano quasi intrappolati.

Maria Giulia Colace, autrice, regista e interprete di Anche i cori russi mi consolano. Ode a un padre militante ha davvero un altro ritmo: il suo testo pulsa in scena, vive di vita propria, respira in modo semplice eppure articolato, facendosi largo tra i suoi numerosi slanci autoironici, tra le maglie strette di sentimenti intimi, privati, autentici, aperti al mondo con delicatezza.

Qui si parla di un padre molto malato, in bilico tra l'entusiasmo dei suoi ideali sociali e politici perseguiti per tutta la vita, e la sensazione amara della loro inutilità di fronte non solo alla propria situazione personale ma a quella della realtà circostante. Le due figlie, la stessa Colace e Maria Silvia Greco – quest'ultima la più “in parte” del cast – mettono in scena le loro differenze, compensandosi, detestandosi e amandosi.

Il problema che sembrerebbe però emergere in questo lavoro è la resa registica. Colace opta per un'operazione opposta rispetto a quanto fa Nardinocchi, scegliendo di lasciare il testo scorrere su uno spazio espanso, privo di limiti, se non il fuori scena, il non visibile. In particolare nelle scene con le due attrici da sole, si legge un uso dello spazio che non tiene conto della sua grandezza. Idealmente minimale, in realtà finisce con l'apparire appena abbozzato, lasciando i corpi sempre o troppo lontani o troppo vicini, mai chimicamente in empatia. A questo si aggiunge la scenografia che si presenta forse solo come un'idea di scenografia: la scrivania dietro la quale il padre/Alessandro Cosentini idealizza petizioni da far firmare alle figlie e al mondo intero, ne rappresenta idealmente una gabbia, un limite che il padre militante si porta sempre dietro, entrando e uscendo dalla scena grazie alle rotelle di cui è dotato.

La macchina scenica qui, però, azionata più volte, finisce per ostacolare non tanto il percorso del personaggio, quanto le stesse possibilità espressive del corpo dell'attore che chiude, esausto, lo spettacolo con un monologo in sé talmente intenso e ben scritto da volare poeticamente al di sopra dei limiti scenici.

Non è un caso che la drammaturgia di Colace, che lavora in modo del tutto autonomo e personale sul solco di Paravidino e Calamaro, sia uno dei motivi principali addotti dalla giuria di Intransito per la menzione speciale.

Tra le autrici che mettono in scena (e nel caso della Colace "si" mettono in scena anche fisicamente), inseriamo anche la potente drammaturgia danzata di Chiara Taviani e Henrique Furtado Vieira, coreografi di riconosciuto valore internazionale, che con Stand still you ever-moving spheres of heaven – struggente verso di uno storico drammaturgo elisabettiano, Marlowe, urlato dal suo Dottor Faustus alla notte stellata prima di consegnare l'anima al diavolo, forse un omaggio al paradosso di uno spazio fuori dal tempo – regalano, a mio avviso, il lavoro più elegante, compiuto e ambizioso tra quelli in concorso.

Qui il testo non preesiste alla sua messa in scena, come nelle due drammaturgie precedenti. Il pastiche linguistico in cui si intravede un inglese masticato, disegnato, contraddetto, sottinteso anche nelle coreografie è anzi il cuore di una piéce sperimentale e convincente che gioca con un elemento fertilissimo nel campo d’indagine della danza contemporanea: l'ironia del nonsense.

Ovvero una distanza dalla comprensione razionale colmata con un esercizio di intelligenza umoristica, aristocratico e infantile insieme. Taviani e Furtado lavorano in modo inconsueto, prestando a un surrealismo da Monty Python's Flying Circus la precisione della propria efficacissima misura di coreografi.

La drammaturgia qui è azione detta, non costruisce sensi, ma fraintendimenti e su essi basa il proprio punto di vista per uscire dal meccanismo teatrale – e dal dualismo – liberando i corpi nella quotidianità: una proiezione che improvvisamente mostra Furtado a Lisbona, in metropolitana, immobile e in movimento, paradosso del reale.

La famiglia del gesto che sprigiona una drammaturgia agita è quella in cui si identificano anche Zoé Bernabéu e Lorenzo Covello, versatili artisti del corpo, danzatori, mimi, giocolieri, instancabili costruttori – e distruttori, s'intende – d'equilibri, capaci di vincere con merito il Minimo Teatro Festival 2017 con Un po' di più, il lavoro con il quale conquistano la finale a Intransito.

Cinquantacinque minuti di scavo nell'intimo di una relazione: qui il lavoro con gli oggetti è analogo a quello con le parole, non ci sono monologhi, né dialoghi, ma parole lanciate, scandite, interrotte, accumulate, dilatate nei sensi suggeriti dalle – ben leggibili – fasi della storia d'amore messa in scena. E hanno lo stesso peso dei piatti e dei bicchieri scagliati metodicamente da un'estremità all'altra della precaria tavola apparecchiata, epicentro della scena.

Le luci, lo spazio, la consapevolezza del gioco teatrale: tutto è studiato nel dettaglio, il comico – agito, anzi detto, quasi confessato, al pubblico in alcuni momenti di divertimento drammaturgico – diventa uno spazio liberatorio in cui gli acrobati rilasciano concessioni di umanità alla perfezione che pretendono dai loro corpi.

L'autoironia, del tutto assente, per scelta, nel testo di Nordinocchi, cifra carismatica e autoriale in quello di Colace, feroce e ribelle nel lavoro di Taviani e Furtado, qui diventa un rifugio rassicurante in cui lasciar riposare le tensioni di un gioco acrobatico portato sempre al limite.

E così, appunto, il limite si mostra con evidenza: corrisponde al difficile equilibrio tra una poesia scaturita da ciò che semplicemente accade e quel bisogno di stupire attraverso l'estrema disciplina del corpo, così insito nella forma di teatro/danza/circo che propongono Covello e Bernabéu.

L'analisi drammaturgica di questa tre giorni si conclude con il vincitore del concorso, Assenza sparsa di Pan Domu Teatro, compagnia costituita da due diplomati della Nico Pepe di Udine, Luca Oldani, che ha scritto e messo in scena il monologo, e Jacopo Bottani che ha agito da dramaturgo.

La trama di Oldani e Bottani si avvolge intorno alla storia di un'amicizia interrotta. Un amico finisce in coma. Ciò che accade da questo momento è uno scorrere incerto del tempo, a volte ingannandolo, a volte indagandolo. La drammaturgia messa in scena è principalmente il racconto di un'attesa costituita da tanti modi di attendere, attraversata da illuminanti squarci di riflessione sulla condizione di un essere umano in coma, diffusi da audio fuori scena di tre medici che se ne occupano specificamente in prima persona.

La verità della storia personale lascia ben presto la priorità all'autenticità universale del dolore e la chiave di questo successo drammaturgico sta nel ritmo irregolare e divagante che Oldani impone al suo dire che è un fare e un essere nello stesso tempo.

La grande qualità di questo progetto sta non tanto – o non solo – nell'accurata ricerca scientifica o nella profondità del tema trattato, né in fondo nell'approccio apparentemente leggero, scelta quasi obbligata per un argomento del genere, ma nella trasformazione dello stato del coma stesso in una struttura teatrale, circolare, inesprimibile, inconcepibile e sfuggente, al punto da porre Assenza sparsa potentemente in mezzo tra uno spettacolo di narrazione e un monologo di un personaggio beckettiano, impalpabile, un condizionale che mette in dubbio l'affermare della vita e il negare della morte, un gerundio scandito con grazia, così semplicemente aspettando.

Chiara Taviani e Henrique Furtado Vieira

Stand still you ever-moving spheres of heaven

coreografia e performance Chiara Taviani e Henrique Furtado Vieira

light design Eduardo Abdala

Alluma

Anche i cori russi mi consolano

Ode ad un padre militante

scritto e diretto da Mariagiulia Colace

con Alessandro Cosentini, Mariagiulia Colace e Mariasilvia Greco

Pan Domu Teatro

Assenza Sparsa

di e con Luca Oldani

dramaturg Jacopo Bottani

con la partecipazione audio di Dottor Paolo Malacarne, responsabile del reparto di rianimazione dell’ospedale di Pisa, Dottor Ugo Faraguna, professore e ricercatore di Fisiologia all’Università di Pisa, Dottor Francesco Tani, medico in un centro di Riabilitazione neurologica di Sarzana

Rueda Teatro

Pezzi

Si vive per imparare a restare morti tanto tempo

scritto e diretto da Laura Nardinocchi

con Ilaria Fantozzi, Ilaria Giorgi, Claudia Guidi

musiche originali Francesco Gentile

Bernabéu/Covello

Un po’ di più

di e con Zoé Bernabéu e Lorenzo Covello

luci di Paride Donatelli

musiche di Stefano Grasso

Archipelagos Teatro

Aspide - Gomorra in Veneto

drammaturgia Tommaso Fermariello

con Gioia D’Angelo e Martina Testa

oca, oche, critica teatrale
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