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  • Massimo Milella

LOVE | All'interno ci siamo anche noi




LOVE è la prima occasione per Lisbona di conoscere il talento di Alexander Zeldin, provenienza National Theatre of Great Britain, autore e regista neppure quarantenne ma già acclamato a livello internazionale, legato principalmente alla sua fortunata trilogia dedicata alle “Inequalities”, di cui Love è il secondo episodio (gli altri sono Beyond Caring e Faith, Hope and Charity).


La scena è abitata da oggetti connotati da un quotidiano neutro e impersonale, un lungo tavolo, una cucina essenziale, un piccolo frigorifero, delle porte lungo il fondo della sala, ognuna identificata con un numero. Una porta che segnala l'uscita di emergenza è l'unica luce accesa sulla scena silenziosa, mentre la platea si popola di pubblico, al 75% dei posti consentiti dalle direttive anti-covid.

L'atmosfera è quella malinconica dei neon di una scuola o di un ospedale; la sagoma delle fronde di un albero agitato dal vento si intravede appena, incorniciata in un angolo della scena, dietro l'unica superficie semitrasparente della struttura: è un rettangolo in cui si può immaginare il mondo esterno, ma abbiamo la sensazione che dall'esterno probabilmente non si possa vedere l'interno.

All'interno, quindi, ci siamo anche noi.


Siamo in una sala comune di una residenza per persone senza fissa dimora, dove il bagno diventa luogo per eccellenza delle urgenze - l'anziana incontinente, la bambina che deve andare a fare pipì - in cui si stabiliscono le priorità tra sconosciuti che condividono uno stato di indigenza.

Se la cucina comune diventa a volte territorio di contesa e di scontro (le stoviglie sottratte l'una all'altra famiglia, quelle non lavate e abbandonate nel lavandino, lo spazio del frigorifero negato a un rifugiato siriano, che è arrivato nella struttura per ultimo…) a volte, più raramente in verità, di comprensione, chiarimento, condivisione; il bagno appunto, invece, ricopre un ruolo davvero drammatico, in cui l'intimità stessa rischia di venire violata sistematicamente.


L'intimità minacciata, quindi la stessa identità, è uno dei motori di questo coinvolgente meccanismo drammaturgico. In esso si intrecciano le frustranti dinamiche di una famiglia inglese con padre disoccupato e due figli, una bambina e un adolescente, e una nuova compagna incinta; un giovane adulto cinico e abbruttito dalla situazione che costringe lui e l'anziana madre, di cui si prende cura, a rimanere in questa struttura da oltre un anno, senza più coltivare speranze. Una signora egiziana, una donna isolata dal resto del gruppo, dignitosa e arrabbiata, attende l'arrivo di sua figlia dall'altra parte del mare: troverà inaspettatamente nell'ultimo arrivato, un rifugiato siriano mite e claudicante, un conforto, almeno linguistico, se non altro per qualche minuto, il tempo di condividere un succo di frutta, nel silenzio tetro della struttura.

Il ritmo delle giornate viene scandito dalle kafkiane inefficienze dei servizi sociali che, attraverso un meccanismo crudele e ricattatorio, smantellano le speranze di questi personaggi, che cercano in qualche modo di farsi o rifarsi una vita. La quotidianità vede svuotarsi i rituali (il Natale, il pasto insieme, la scuola), la ripetitività di una situazione che non andrà a migliorare minaccia costantemente l'unica cosa che fa sopravvivere i nuclei di questa struttura: le relazioni. Complesse, articolate, che sfuggono al controllo ma anche al giudizio dei personaggi: lo stesso pubblico sembra essere calato in un contesto di sospensione del giudizio.

Attributo principale della drammaturgia è, infatti, una messa in azione cruda e onesta dell'interno di un girone infernale in cui i dannati non hanno alcun interesse a stabilire delle solidarietà reciproche: ognuno combatte la sua battaglia, senza mai percepire la necessità di costruire una comunità. E se questo episodicamente accade, è a seguito di deflagranti e imprevedibili rotture del proprio disperato tentativo di autocontrollo, che aprono a squarci di contatto violento, toccante, vero.


L'altro grande pregio del lavoro di Zeldin e della sua compagnia è la scelta di costruire una empatia con il pubblico focalizzandosi con totale fiducia sulla solidità dei rapporti costruiti in scena, per cui il pubblico si sente inserito all'interno di un contesto corale, senza un protagonista specifico, in un affresco in cui ognuno può trovare il suo posto, grazie alla capacità dell'autore di non trasformare in farsa le caratteristiche più espressive dei singoli personaggi, di lavorare insomma sui dettagli, sui silenzi, sulle ottusità, sulle imprevedibilità dei rapporti umani in condizioni di emergenza.

La precarietà, l'assenza delle istituzioni, l'abbandono in caso di improvvisa fragilità, sono cose che si muovono dentro di me, durante la visione.

Mi emoziona in modo palpabile la splendida attrice Amelda Brown, che, nel momento in cui il suo personaggio dell'anziana madre muore, attraversa la platea, scendendo con cautela le scale del palco del Culturgest e risalendo quelle che portano all'uscita, facendosi aiutare dal pubblico stesso, sorridendo di gratitudine e guardando negli occhi ognuno dei volenterosi spettatori, fino a scomparire dietro una porta della sala, senza alcun altro rumore, per un lungo tempo, che i suoi passi e il fruscio gentile delle mani delle persone coinvolte che accarezzano e stringono le sue, per sostenerla.

Love possiede il pregio di non trasformare i suoi personaggi in cavie da laboratorio per un'osservazione sociale carica di accuse allo status quo, ma trascina lo spettatore all'interno di una condizione interiore che lo riguarda drammaticamente molto da vicino.

Ciò che accade in Love, forse, succede dentro di noi, tutte le volte che siamo improvvisamente vulnerabili, esposti, fragili, tutte le volte che siamo violati nella nostra intimità e che tentiamo di trovare delle motivazioni per lottare contro qualcosa di invisibile che minaccia la nostra stessa identità.


Elementi di pregio: Love si fa certamente apprezzare per un ritmo avvincente, oltre che per l’accuratezza tecnica dei propri interpreti, una squadra di artisti sensibili che sanno essere sempre corali, lavorando con generosità sui dettagli della loro fisicità, ma per me è la sua intensità performativa a rendere unica l'esperienza di questo spettacolo: il senso di disperazione, di rabbia, di dolore, che riesce ad evocare nell'arco del suo racconto, rispetto al quale gli amori, i legami, i sentimenti, tutto ciò che insomma rientra nella parola Love, diventa quasi un feroce ostacolo a ciò che verrebbe più naturale fare, ovvero abbandonarsi.


Limiti: un certo "packaging" dello spettacolo, sin dalla scelta del titolo, sembrerebbe richiamare l'idea, facile e progressista, che l'amore sia uno dei poli opposti al sistema che soverchia i "poveri" personaggi. In questo posizionamento estetico, lo spettacolo presenta una certa ambiguità o irresolutezza. Inoltre si registrano, in particolare durante lo sviluppo narrativo dei personaggi dei due figli, alcune isolate strizzate d'occhio al pubblico.

La tenerezza che evocano i due -bravissimi- ragazzi in scena mi ha distratto, spostando la mia attenzione su pianeti diversi, come il naturalismo di Dickens, per esempio, o la sociologia indignata di London, o ancora le narrazioni epiche di Ken Loach: tutti modelli culturali interessanti che però rischiano di “addomesticare” l'autonomia dell’intenso meccanismo narrativo di questo lavoro di Zeldin.




LOVE di Alexander Zeldin

Visto il 24 settembre 2021

Durata 90 min


con Amelda Brown, Naby Dakhli, Janet Etuk, Oliver Finnegan, Joel MacCormack, Hind Swareldahab, Daniel York Loh, Amelia Finnegan in alternanza con Grace Willoughby


encenador / regista Alexander Zeldin

cenografia / scenografia Natasha Jenkins

desenho de luz / disegno luci Marc Williams

tradução / traduzione Joana Frazão

desenho de som / design del suono Josh Anio Grigg

movimento / movimento Marcin Rudy

assistente de cena / assistente di scena Elin Schofield

figurinos / costumi Caroline McCall

nuova produzione Odéon-Théâtre de l’Europe

produzione originale National Theatre of Great Britain in coproduzione con il Birmingham Repertory Theatre.

Co-finanziato dal programma Europa Creativa dell'Unione Europea, nell'ambito del progetto ACT - Art, Climate, Transition




oca, oche, critica teatrale
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