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Marco Gandolfi

Mangiafoco | Meravigliosa, straziante bellezza


La peculiare sfida che lo spettacolo di Roberto Latini pone a chi voglia analizzarlo e descriverlo è la proteiforme irriducibilità alla sintesi della sua drammaturgia. In termini molto generici - e quindi votati al fallimento già in partenza -, si potrebbe dire che il suo tentativo di andare oltre il metateatro ha dato origine a una struttura frattale di continua frantumazione narrativa e intersezione tra diversi piani di realtà. Sei attori (più uno, lo stesso Latini) sono in scena per rappresentare, a seconda del momento, sé stessi, alcuni personaggi che hanno incarnato nella loro carriera e i burattini del frammento tratto dal Pinocchio di Collodi a cui lo spettacolo lateralmente si ispira. E questi momenti si mescolano, sgretolando coordinate interpretative, spostando il piano di visione e mettendo in discussione la stessa partecipazione del pubblico, a cui si ammicca più volte esplicitamente in quanto parte in causa teatrale.

Nelle parole di Latini: "[...] il metateatro mi interessa non tanto per il gioco, ormai già obsoleto, del teatro nel teatro, quanto per la capacità che ha di produrre nuovo senso, di evolversi, di portarci in quell’altrove che teniamo come confine e che miro a spostare sempre un poco oltre". Mangiafoco riesce infatti a rendere sé stesso obsoleto nel suo autosuperamento: l'episodio di Pinocchio a cui si ispira, dove il burattino protagonista fa irruzione nel teatro di Mangiafoco, viene superato subito rendendolo uno sfondo presente e assente allo stesso tempo, annegato nella moltitudine drammaturgica dello spettacolo. Prima e dopo - in un resto che si fa corpo centrale -, ci sono finte audizioni degli attori che interpretano loro stessi sul palco, di fronte a un pubblico recitato in scena dai loro colleghi. Il tutto osservato, nello spazio raccolto e prossimo del Teatro Studio Melato, da un pubblico - noi spettatori - che ben presto deve convenire di essere un pubblico che recita se stesso.

Latini prova ad andare oltre il metateatro disgregando gli elementi narrativi per arrivare al cuore del meccanismo di mettersi in scena e contemporaneamente "creando immaginazione" (ancora le sue parole). Paradossalmente, partendo da una cerebrale analisi della macchina teatrale nei suoi elementi più intimi - quelli che costituiscono il "patto" teatrale tra attori e spettatori -, si arriva a creare puro teatro. Come uno specchio andato in frantumi che continua a replicare un'immagine all'infinito svelando al contempo il suo meccanismo di funzionamento. Questo scongiura il rischio per Mangiafoco di trasformarsi in un'algida e cerebrale analisi, priva di anima: il suo soffio vitale sono le performance attoriali, a tratti eccellenti (Marco Sgrosso e Savino Paparella su tutti), che liberate da qualsiasi rigidità programmatica sono in grado di incarnare uno spettro amplissimo di emozioni. Quello che manca - ed è sicuramente un problema strutturale di uno spettacolo di questo tipo - è il meccanismo di identificazione tra spettatore e personaggio. Ma vedendo in scena questa identificazione svilupparsi - letteralmente sotto i nostri occhi - tra attore e personaggio, ne possiamo godere intellettualmente, se non empaticamente.

Il luogo del Teatro Studio Melato annulla per quanto possibile la distinzione tra palcoscenico e platea trasformando lo spazio in una sorta di piazza pubblica. La scenografia dello spettacolo si muove nella stessa direzione: il quadrato di palcoscenico delimitato da toni chiari è una barriera spesso superata dall'azione che si approssima al pubblico, e sposta la cornice all'intero spazio dello Studio. Il sipario (lunghe strisce di carta che cadono dal soffitto) è in fondo alla sala dal lato opposto al pubblico, e si rivela essere il primo di due sipari da cui emergono i personaggi e gli attori. Viene da chiedersi se questo fondale poroso non sia altro che un indizio per fissare noi e la rappresentazione in un ipotetico retroscena da cui emergeremo infine, recitando, nel mondo. La labilità della cornice scenica proietta lo sgretolarsi identitario su un piano architettonico.

Burattini, maschere, sculture di ghiaccio, costumi di carta, fuoco: la mappa mentale dei codici teatrali viene trasferita simbolicamente in immagini e segni. In chiusura dello spettacolo ciascun attore/personaggio porta in scena un blocco di ghiaccio con sopra un naso finto à la Pinocchio: i parallelepipedi brillanti sono lasciati uno accanto all'altro, Latini li prende uno a uno e li sistema con cura in verticale, su due colonne giustapposte e parallele. La struttura sembra sempre sul punto di crollare, possiamo quasi sentire il gelo bruciare sulle nostre mani vedendo i gesti lenti con cui i blocchi sono spostati. Ci chiediamo per quanto i blocchi staranno in piedi: la magia è compiuta, identità disparate si sono congelate in una struttura momentanea e perfetta, appoggiate le une sulle altre stanno in equilibrio, magari per non molto.

Cosa è successo? "È la straziante, meravigliosa bellezza del teatro", parafrasando la risposta che Totò dà alla domanda su cosa siano le nuvole nell'episodio di Capriccio all'italiana di Pier Paolo Pasolini. Il teatro ha sostituito il creato ma nella lucida visione di Latini i due coincidono.

Elementi di pregio: ricchezza e inventiva intellettuale del tentativo di superare il metateatro.

Limiti: una certa freddezza emotiva della materia drammaturgica.

Visto al Teatro Studio Melato mercoledì 11 dicembre 2019

Mangiafoco

drammaturgia e regia Roberto Latini

luci Max Mugnai

musiche e suono Gianluca Misiti

elementi scenici Marco Rossi

costumi Gianluca Sbicca

con Elena Bucci, Roberto Latini, Marco Manchisi, Savino Paparella, Stella Piccioni, Marco Sgrosso, Marco Vergani

coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Compagnia Lombardi-Tiezzi, Fondazione Matera Basilicata 2019, Associazione Basilicata 1799 / Città delle 100 scale Festival

in collaborazione con Consorzio Teatri Uniti di Basilicata

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