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Marta Cristofanini

Oltre il giardino | Alessandro Serra e Il giardino dei ciliegi





Il giardino dei ciliegi è l’ultima opera di Anton Cechov e ne è in qualche modo il testamento spirituale. I fantasmi che svolazzano nella tenuta dei fratelli Ljuba e Gaiev sono gli archetipi che lo hanno inseguito in tutte le sue opere precedenti e che qui si accalcano affacciandosi ilari e grotteschi dal sipario calante, con gli ultimi scherzi, le ultime giravolte, pronti all’addio.


Il giardino dei ciliegi è un’opera notturna, popolata da albe titubanti, notti incapaci di essere dormite, e pomeriggi che declinano verso tramonti sospesi come orologi senza lancette. Ed è questa l’atmosfera predominante fedelmente soffiata nel vetro dalla regia di Alessandro Serra, capace di ricreare quel carillon nostalgico su cui il medico russo convergeva le ultime visioni nel 1903. La prima rappresentazione si tenne presso il Teatro d’Arte di Mosca nel 1904. Sei mesi più tardi, il drammaturgo morì stremato dalla tubercolosi, chiedendo un ultimo bicchiere di champagne. La migliore interpretazione del Giardino l’ha recitata proprio il suo autore, in un sacrale ultimo atto dove la morte levita leggera tra le bollicine di spumante.


Il mio personaggio preferito è sempre stata Carlotta, la governante. Carlotta la maga, la vagabonda, la prestigiatrice con in bocca l’eterno ritornello: “Chi sono io? Nessuno lo sa!”. Creatura tra le più fiorite del giardino, insieme al grave frullare d’ali di Anja, ci ipnotizza con quel suo roteare aggraziato intorno al baratro. Me le immagino entrambe al capezzale di Cechov, lei e Anja, che ridono, semplici e benevole, mentre il vecchio servitore Firs lo ricopre con un lenzuolo bianco, nascondendolo insieme al resto del mobilio, e della Storia.


Ciò che rende l’opera quasi intraducibile a livello scenico, è la sua natura dicotomica: da una parte il folle valzer degli spiriti umani sradicati che animano la casa; dall’altra la profondità delle radici che s’appigliano a un terreno prosciugato, brutalizzato, estirpato da sé: il giardino venduto all’asta non è altro che la metafora di una Russia sull’orlo di una rivoluzione storica senza precedenti. Ogni personaggio non rappresenta solo sé stesso ma immortala anche una classe sociale, allegoricamente rappresentativa del passato, presente e futuro della società russa. E Cechov ci piroetta intorno, un po’ come Carlotta, con quel desiderio malizioso di continuare a incantare ed essere incantato.





Il pregio più grande di questa accuratissima messa in scena è il suo divenire essa stessa un classico nell’omaggiare uno dei più grandi classici della drammaturgia mondiale. L’utilizzo dilatato dei tempi sulla scena trattiene nello spettatore una commozione che si realizza nelle lacrime o nella risata: non poteva essere che questo il raccordo più dolce con un’altra duplicità intrinseca del testo cechoviano. L’opera infatti era stata concepita come una commedia, ma Stanislavskij invece – attore e interprete feticcio di Cechov – scelse di dirigerla e interpretarla tragicamente. Eppure l’opera è costellata di momenti farseschi che la regia non si è lasciata sfuggire, senza correre il rischio di appiattire l’opera in una direzione monodimensionale.


Merito anche della bravura degli attori, i quali sono riusciti a stringersi intorno non solo al nocciolo del proprio personaggio, ma all’intero frutteto, preservandone l’ineffabile atmosfera. Questo ha permesso di rendere al meglio la vaporosità di un’opera evanescente, che alterna momenti in cui la scena tende ad assottigliarsi come una flebile cantilena all’orecchio ad altri in cui riconquista una verticalità austera, dostoevskiana.


Oltre ai dodici personaggi canonici, vi è un altro protagonista dello spettacolo, spettro tra gli spettri, il più invisibile di tutti. Il cigolante richiamo del Tempo tamburella le dita contro i vetri delle finestre, dietro gli armadi, le porte, i bauli, stride in lontananza: la casa e il giardino sono circondati di rumori inspiegabili, riempiti dall’onnipresente assenza che, seppur non invitata alla festa, rimane dipinta su ogni volto, riecheggia in ogni “Ta-tà, carambola!”, in ogni brontolio del vecchio servitore Firs, dimenticato nella casa ormai venduta e abbandonata, da cui tutti sono partiti con meno rimpianti di quel che pensassero.


È la rinuncia ai sogni dell’infanzia e al tempo stesso rappresenta il passaggio del potere - scandito a colpi di scure – dalle mani dell’aristocrazia terriera a quelle della nuova, famelica borghesia, condensata nel personaggio dell’ambivalente Lopachin.


E alla fine, poco prima che l’eterno ritorno, o semplicemente il corso della Storia, compia il suo ennesimo giro – la scena finale si sfalda e si ricompone uguale a quella iniziale, con i corpi dei protagonisti (addormentati? Morti?) distesi a terra –, la personificazione stessa del Tempo finalmente prende forma e si innalza, tenendoci il fiato in ostaggio. Un agglomerato miracolosamente compatto di sedie in ferro battuto levita sul palco trattenuto da un gancio, come un sole surreale che, nel suo anomalo albeggiare, rivendichi il proprio tributo: la leggerezza.



Pregi/Limiti (o piccola postilla sulla difficoltà dei classici): L’estrema cura del dettaglio rende questa un’opera d’alto artigianato poetico, densa seppur posseduta da quei respiri ampi, oceanici, che ormai in scena (e non solo!) sono rarissimi; il che è ancora più interessante visto l’uso “chiuso”, a scatola, della scena, in cui ogni personaggio ha le sue direzioni e mosse programmate lungo una scacchiera immaginaria.


Il rischio che lo accompagna quindi è quello di ostacolare l’immersione catartica dello spettatore all’interno del racconto scenico, che può sentirsene escluso e, quindi, coglierne più quegli aspetti anacronistici, manieristici, dediti a una lentezza inusuale. Quando ci si reca a teatro per vedere grandi classici come Cechov o Shakespeare, ci si trova spesso davanti a proposte o rivisitate in modo pop (“per svecchiare”) o infiocchettate con qualche trucco superficiale che non va però oltre la rappresentazione puramente decorativa (in senso scenografico, registico, recitativo), e la drammaturgia rimane così un corpo morto, che tutti vedono ma di cui nessuno parla.


In questa rivisitazione invece ho avvertito una grande libertà interpretativa nonostante l’estrema fedeltà all’originale; un atto sublimativo la cui originalità risiede nel profondo ascolto dell’opera e nel suo fargli spazio, con i corpi, i respiri, le luci. Quanto più si dà spazio a questo ascolto oltre, tanto più la scena si dilata, vibrante, e si fa nuova.


Visto presso il Teatro Nazionale di Genova, il 28 maggio 2021.

Produzione


COMPAGNIA UMBERTO ORSINI, ACCADEMIA PERDUTA ROMAGNA TEATRI, TEATRO STABILE DEL VENETO, TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA in collaborazione con COMPAGNIA TEATROPERSONA, TRIENNALE TEATRO DELL’ARTE DI MILANO

Drammaturgia, regia, scene, luci, costumi

Alessandro Serra

Interpreti

Arianna Aloi, Andrea Bartolomeo, Marta Cortellazzo Wiel, Massimiliano Donato, Chiara Michelini, Felice Montervino, Paolo Musio, Massimiliano Poli, Miriam Russo, Marco Sgrosso, Valentina Sperlì, Bruno Stori



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oca, oche, critica teatrale
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