«Di cosa volete parlare?». È la mattina del 27 maggio e, dopo due ore di interventi di giovani attori, registi, performer sulla propria condizione lavorativa, la domanda di Lucia Medri, redattrice di Teatro e Critica, ci riporta al tema centrale della tavola rotonda all’interno di “Tutta la vita davanti”, festival di teatro Under 30 organizzato al Fuori Luogo di La Spezia. L’apertura della discussione, infatti, vede Alessandro Iachino, redattore di Stratagemmi e moderatore dell’incontro, invitare gli artisti presenti nel foyer del Dialma a ragionare attorno alle proprie estetiche e tematiche, considerando la difficoltà critica e storiografica di tracciare l’identità della nuova generazione del teatro italiano. Ma una certa insofferenza percorre la sala: sembra che la richiesta di definire se stessi, il proprio linguaggio, i propri interessi di ricerca, sia recepita come accademica, costringente, quasi oziosa: «È così necessario che io sappia chi sono e cosa voglio fare, a 27 anni?», risponde Alice Sinigaglia, regista e curatrice del festival. Ed è dopo il suo intervento che la discussione vira significativamente sul tema del lavoro.
La regista Giulia Odetto illumina l’angosciante corsa ai bandi e la necessità di farvi corrispondere i propri progetti e le proprie idee. Benedetta Parisi, attrice e drammaturga, racconta di quando ha impiegato due anni e mezzo per scrivere, con Alice Sinigaglia, Funerale all’italiana: «Avrò ancora l’età per poterlo fare? Si tratta di un privilegio o di una posizione da difendere?». Giorgia Favoti e Giorgia Barsotti, entrambe della compagnia FunniBanni’s, parlano dello spazio esiguo che lo spettacolo di una compagnia giovane e indipendente può trovare all’interno delle programmazioni dei grandi teatri, nonostante i contatti più o meno solidi forniti dalla scuola alle loro spalle (in questo caso, ERT). «Siamo la generazione del rubinetto chiuso: non è il momento storico adatto a essere indipendenti», sentenzia Giovanni Ortoleva, programmaticamente legato, fin dai suoi esordi, a importanti istituzioni come il Teatro della Tosse e da sempre intenzionato a collaborare con attori e artisti della scena in maniera fluida, senza legami stabili o imprescindibili.
Iachino chiama “solipsismo” la difficoltà generazionale a riconoscersi come gruppo, già avvertita durante la giornata di studio organizzata dal LAC di Lugano nel marzo scorso, in cui presenziavano le nuove leve della drammaturgia e della regia italiane, da Federica Rosellini a Emanuele Aldrovandi allo stesso Ortoleva. Tuttavia, con il prosieguo della mattinata, sembra che la difficoltà di autoanalisi sia, piuttosto, una ritrosia alla categorizzazione. «Si tende a guardare il girino con l’occhio della balena», afferma Alessandro Paschitto di Ctrl+Alt+Canc, sottolineando l’ossessione della critica per le nuove etichette e la sua caccia implacabile a capolavori emergenti, capaci di agglutinare forzatamente poetiche e individualità distinte. Ma è Andrea Dante Benazzo, portando avanti e radicalizzando il ragionamento di Paschitto, a porre una pietra tombale sul tema della mattinata: «Un contesto che si storicizza e si dà un nome, come quello Under 30, è un contesto che nasce già morto».
«Di cosa volete parlare?», chiede a questo punto Lucia Medri, tentando di rilanciare al pomeriggio una discussione che, nonostante alcune notazioni interessanti, finirà presto per ingarbugliarsi in discettazioni estetiche, linguistiche, metodologiche, sul come piuttosto che sul cosa.
All’interno di una delle sue Lezioni americane, Italo Calvino cita due modelli per il processo di formazione degli esseri viventi: da un lato il cristallo, modulare e invariante, dall’altro la fiamma, aggrovigliata e asistematica. A La Spezia, la critica e gli artisti sembrano, forse senza troppe sorprese, essersi schierati rispettivamente in questi due partiti: all’esigenza di definire una prospettiva è seguita la moltiplicazione dei punti di vista, alla ricerca di una postura si è sostituito uno scrollare di spalle. D’altronde è vero che se gli artisti del teatro, soprattutto agli esordi, potessero spiegare in parole chiare e concise i risultati e gli obiettivi del loro lavoro, lavorerebbero con le parole in un’altra maniera e non avrebbero bisogno di salire su un palcoscenico per esprimersi. È compito della critica leggerli e interpretarli, considerando che la ricerca dell’esattezza, sempre per riprendere Calvino, possiede una natura biforcuta: «Da una parte la riduzione degli avvenimenti contingenti a schemi astratti con cui si possano compiere operazioni e dimostrare teoremi; e dall’altra parte lo sforzo delle parole per rendere conto con la maggior precisione possibile dell’aspetto sensibile delle cose».
«Sul palco voglio portare la gioia, la festa, l’assenza delle regole, lo spodestamento del senso comune»: nella discussione pomeridiana, Alice Sinigaglia è la prima a far riferimento per il suo teatro a uno spazio da opporre al mondo reale .Lo spettacolo, scritto in forma di studio con Elena Patacchini, Gargantua e Pantagruele. Cronache di uno spettacolo gigantesco, si sviluppa intorno al concetto di carnevale, mettendo in scena un impostato convegno sull’opera di François Rabelais che, mano a mano, prende le forme del suo proprio oggetto di discussione. Ai pedanti e livorosi accademici si sostituiscono, infatti, i giganti, i mostri, gli anormali, che immergono lo spazio del Dialma in un bagno di afasia schizofrenica. E sul finale, con le luci che si affievoliscono e i corpi che agonizzano a terra, ormai disumani, lo schermo che campeggia sullo sfondo è eletto a unico portatore di senso, ma, ancora, di un senso straniante, tra il ridicolo e il triviale: sia d’esempio un corrucciato Umberto Galmiberti presentato come Umberto Eco, il quale peraltro era stato da poco sentito apostrofare come “troie” le madri di Gargantua e Pantagruele. Nello schermo viene riassunto l’approccio dadaista e anti-drammaturgico seguito da Sinigaglia e Patacchini; qui, come giustapposti, si raccolgono i rivoli di nonsense e grottesco in cui è stato squagliato lo spettacolo, senza sintesi, con lo spettatore naufrago nell’alluvione provocata dai giganti.
Anche Giulia Odetto, nel corso della tavola rotonda, parla della volontà di presentare sul palcoscenico uno spazio utopico, un altrove alternativo. Ne Il mio corpo è come un monte, spettacolo costruito assieme al Collettivo EFFE, la regista siede a una consolle e pronuncia queste parole: «Il mio è un desiderio semplice: voglio essere una montagna, non come una montagna. Una montagna. Io voglio essere una montagna». Sembra, così, iniziare un percorso alla ricerca di un’essenza, contro la similitudine, la metafora, l’analogia. Vediamo scorrere sullo schermo foto in bianco e nero di scorci di montagna, dirupi, gruppi di rocce, tronchi caduti, in cui si fonde il corpo di Lidia Luciani, unica danzatrice in scena: nelle immagini digitali il processo di avvicinamento alla montagna procede per via mimetica. Il fotografo Daniele Giacometti - presente anche in scena come videomaker - ha camuffato la performer all’interno dell’ambiente circostante e lo spettatore si diletta a svelare il trucco. Le luci tenuamente illuminano il palco. Compare il corpo fisico di Lidia Luciani. Al suo fianco, una pietra - metonimicamente, una montagna. Siamo ben all’interno dei territori del linguaggio poetico, del “come se”. E lo siamo ancora nella danza compiuta sopra e intorno alla pietra: la ricerca di un vertice, con le mani a toccare il suolo; la scoperta e la messa in mostra, attraverso il video, di tendini, articolazioni e giunture così vivide, arcaiche e astratte da sembrare calanchi, cime, burroni. Le raffiche di vento, gli scrosci di pioggia campionati da Odetto e il cozzare di Luciani su e con la striscia sassosa disposta su un lato del palco aguzzano l’immaginazione dello spettatore, la accompagnano in questo movimento di approssimazione verso l’oggetto. L’impressione sullo schermo dell’ultima coreografia, ottenuta da Daniele Giacometti grazie all’otturatore aperto e alla lunga esposizione del suo dispositivo di ripresa, restituisce un’immagine in cui il corpo della performer si è finalmente dissolto. Al suo posto, una linea ondulata, mossa, elettrica annuncia la compiutezza del processo e mostra come, in realtà, lo spettacolo non tendesse a un sorpassato rinnegamento dell’arte in favore della vita, a un attentato alla retorica, ma a un’esaltazione della presentazione di sé attraverso la finzione, il palco e lo schermo. Non sembra esistere, per Odetto, un’essenza da recuperare, una natura primordiale a cui conformarsi, ma un orizzonte, un’immagine di sé da raggiungere attraverso il processo performativo e i dispositivi di ripresa.
Sulla natura e sulle prerogative della rappresentazione ragiona anche Alessandro Paschitto, autore di Opera didascalica, benché in misura diversa da Odetto: l’attore e drammaturgo campano, assieme a Raimonda Maraviglia e Francesco Roccasecca, sfronda tutto ciò che può frapporsi fra il pubblico e la struttura drammaturgica di uno spettacolo, mostrandosi mentre lotta concettualmente contro il personaggio invisibile di una pièce indeterminata: «Io sto qua. Sto qua. Non è che stessi andando da qualche parte e ho fatto una sosta. Né provengo da chissà dove e sono arrivato. No. Io sto qua. E non c’è un retropensiero. Non c’è un messaggio in codice, significati nascosti. Sto qua. Eccomi. Ciao». Come in Odetto, l’obiettivo non è tanto quello di uscire dalla rappresentazione, nonostante si verifichino più fughe dalla scena, ma di tentare di presentare se stessi. L’impossibilità di farlo, per Paschitto, spinge a diverse riflessioni, di carattere teatrale prima, ed esistenziale poi: «Quando c’è il niente. L’aria che pullula. Là ci può ancora essere una cosa, un’altra, un’altra ancora. E qua torno al punto. Ma tra tutte le cose che ci potevano essere: ma proprio io? Io che me ne sto. Così, qua. Buttato». La posizione di “buttato”, ricorrente in Opera didascalica, così come il tarlo della rappresentabilità del reale, l’ossessione per l’incomunicabilità tra artista e platea, l’andamento spiraliforme della drammaturgia, richiamano senz’altro gli snodi di certi spettacoli di Deflorian/Tagliarini, ma riprendono anche quell’estremo solipsismo che Iachino attribuisce alla generazione di artisti presente in Tutta la vita davanti. Di cosa vuole parlare, allora, questa generazione? Del proprio lavoro, senza dubbio, di sopravvivenza elementare, ma anche di problemi sistemici, di sofferenza, lotta e, quindi, di politica; di metodi per rappresentare se stessi, prima ancora che il mondo circostante, ossia di poetica e di linguaggio; di spazi sovversivi, utopici, proprio per sparigliare questo mondo circostante, spazzarlo via, darsi l’impressione di superarlo per un po’.
Spettacoli visti tra il 27 e il 28 maggio presso il Dialma di La Spezia.
Gargantua e Pantagruele. Cronache di uno spettacolo gigantesco
regia Alice Sinigaglia
testo Elena C. Patacchini e Alice Sinigaglia
in scena Emma Bolcato, Lorena Nacchia, Giorgio Pesenti, Caterina Rosaia, Davide Sinigaglia
costumi Margherita Platè
illustrazione Davide Faggiani
Il mio corpo è come un monte
di Giulia Odetto
con Daniele Giacometti, Lidia Luciani, Giulia Odetto
aiuto regia e drammaturgia Antonio Careddu
ambientazione sonora Lorenzo Abattoir
disegno luci Daniele Giacometti e Elena Vastano
con il tutoraggio di Filippo Andreatta
coprodotto da Romaeuropa Festival e Mirabilia – International Circus & Performing Arts Festival in partnership con Romaeuropa Festival nell’ambito di ANNI LUCE osservatorio di futuri possibili in collaborazione con Carrozzerie | n.o.t. co-realizzazione residenze Periferie Artistiche – Centro di Residenza Multidisciplinare della Regione Lazio in network con ATCL – Circuito Multidisciplinare del Lazio per Spazio Rossellini con il supporto di KOMM TANZ/PASSO NORD progetto residenze Compagnia Abbondanza/Bertoni in collaborazione con Comune di Rovereto ospitato in residenza da Officine CAOS, Residenza ArteTransitiva con il sostegno di TRAC Centro di Residenza Pugliese – Coop. Crest Taranto in collaborazione con OHT – Office for a Human Theatre
Opera didascalica
testo e regia Alessandro Paschitto
con Raimonda Maraviglia, Alessandro Paschitto, Francesco Roccasecca
un progetto di Ctrl+Alt+Canc
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale in coproduzione con Theatron Produzioni
foto di scena Marco Ghidelli
video Alessandro Papa
realizzato con il sostegno di Theatron Produzioni, C.U.R.A. Centro Umbro di Residenze Artistiche, Micro Teatro Terra Marique, Corsia Of-Centro di Creazione Contemporanea
si ringrazia Mario Autore, Giulia Sangiorgio, Chiara Cucca, l’Asilo – Ex Asilo Filangieri
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