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  • Matteo Valentini

La porta sbagliata | Report dal meetup del premio Omissis


 Le sale di Palazzo Pignatelli di Monteleone, nel centro storico di Napoli, conobbero probabilmente una magnificenza diversa da quella che troviamo nel pomeriggio del 29 novembre per l’incontro dedicato alla drammaturgia contemporanea a margine del premio Omissis, ideato da Theatron 2.0 e curato da Ornella Rosato e Cesare D’Arco. In Storia della mia vita, Giacomo Casanova racconta di aver soggiornato in questo palazzo nel 1759, passando le notti nelle stanze del terzo piano al tavolo da gioco, in compagnia del padrone di casa e di alcuni aristocratici napoletani. I passaggi di proprietà, i bombardamenti, le successive ristrutturazioni hanno eroso l’antico lusso del palazzo, lasciandosi dietro l’aria di elegante decadenza che aleggia sul Centro per le Arti della Scena e dell’Audiovisivo (C.A.S.A), sede del convegno.

 

Dalle vecchie poltrone di un cinema disposte a rettangolo, Lorenzo Mango, ordinario di Discipline dello Spettacolo all’Orientale di Napoli, apre i lavori che saranno poi coordinati, su due diversi tavoli, rispettivamente da Alessandro Iachino e Alessandro Toppi: «Di cosa parliamo quando parliamo di drammaturgia?», si chiede.

Non di un testo letterario, o almeno non solo. Una drammaturgia può certamente essere un libro: viene citato Carlo Goldoni, che nelle introduzioni alle sue commedie edite da Bettinelli teneva a distinguere la versione pubblicata da quella scenica. Una drammaturgia può essere considerata una partitura intoccabile, come quelle di Samuel Beckett (si legga, per contrasto, questo articolo di Andrea Porcheddu). Senz’altro, data la commistione tra la scena e il testo sempre più forte nel corso del passato e del presente secolo, per Mango una drammaturgia deve proporre un come al di là del cosa, deve sollecitare il regista, gli attori, il pubblico a concepire una realtà diversa, senza necessariamente innovare i contenuti («Cosa possiamo raccontare che non sia già stato raccontato?»), ma reggendosi su una forte «idea di teatro». Più facile a dirsi che a immaginarsi.


Omissis_Flavia Tartaglia
Introduzione al meetup | Foto di Flavia Tartaglia

L’indagine di cui Alessandro Toppi rende conto subito dopo l’intervento di Mango sembra partire proprio dall’obiettivo di localizzare un’idea di teatro attorno a cui riunire la pletora di drammaturghi e drammaturghe under 35.  Il critico dichiara da subito il proprio fallimento.

Se, per esempio, in un primo momento aveva rilevato, a livello drammaturgico, un generale infantilismo nei personaggi, una condizione di minorità e un’incapacità di esprimersi, era stato costretto a ricredersi di fronte a Sangue tuo di Marta Polidoro, un dialogo impossibile tra Edda e Benito Mussolini dopo la morte di Galeazzo Ciano, dove la figlia mette sotto processo il padre.

Allo stesso modo, l’idea di un generazionale ripiegamento verso il privato era stata sconfessata da Dov’è la vittoria?, spettacolo del Collettivo Bestand dedicato al percorso politico di Giorgia Meloni, mentre Afanisi di Ctrl+Alt+Canc aveva smentito l’impressione di una scarsa concezione dello spazio scenico da parte delle nuove compagnie italiane.

«Siete diversi, non associabili», ammette Toppi, rivolgendosi ai presenti in sala. Tuttavia, se è vero che le condizioni materiali di partenza determinano le forme artistiche, ci sono alcune domande utili a definire il territorio della nuova drammaturgia italiana, nella sua relazione con il testo, il pubblico e le istituzioni, che gravitano intorno al tavolo moderato da Toppi stesso e intitolato significativamente “Noi ora dove stiamo”.  

 

La scrittura come interrogazione politica di sé e della comunità, la scrittura come filtro del passato, come autorappresentazione rispetto al circostante, come indagine sui modelli ermeneutici del pubblico: queste sono alcune delle definizioni che i partecipanti al tavolo hanno proposto rispondendo alla domanda «Perché scrivete?». Marta Polidoro illustra il processo di ricerca che, dalla necessità di elaborare il rapporto col padre, l’ha portata ad analizzare la corrispondenza tra Edda e Benito Mussolini, permettendo alla figura del Padre e a quella del dittatore di permearsi a vicenda. Della differenza tra lo scrivere per comunicare qualcosa e il farlo per compiacere una parte di sé, parla Eleonora Fedeli, autrice di Cnosso e di una futura drammaturgia su Giovanna D’Arco che ha dovuto aspettare un anno prima di essere ripresa. Alessandro Paschitto, di Ctrl+Alt+Canc, spiega l’esigenza di spogliare la rappresentazione da qualunque contenuto predeterminato per arrivare a definire, attraverso il dispositivo scenico, le strategie di immaginazione del pubblico.    


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Il tavolo moderato da Alessandro Toppi | Foto di Flavia Tartaglia

«Di per sé, non c’è un motivo per iniziare a scrivere un testo teatrale, perché non c’è un interlocutore che possa riceverlo. Tutti i testi che ho scritto li ho iniziati grazie a call o bandi, a volte a premi, i quali però sono spesso slegati da una produzione e servono al massimo come coccarde da mostrare ai direttori artistici dei teatri». La risposta di Pier Lorenzo Pisano, il cui Semidei è stato recentemente pubblicato da Einaudi, contribuisce a spostare il discorso dall’officina al sistema teatrale. La solitudine che stringe i drammaturghi e le drammaturghe erompe al tavolo. Non una solitudine esistenziale, beninteso, ma sistemica, di filiera: nella catena che dovrebbe legare la loro scrivania al palcoscenico manca più di un anello.

Innanzitutto, si lamenta l’assenza nei teatri italiani di una figura o di un comitato che si occupi di vagliare tra le nuove proposte drammaturgiche. Il teatro inglese in questo fa scuola, lo conferma la traduttrice Monica Capuani, sua profonda conoscitrice.

La sfiducia nel sistema produttivo italiano emerge chiaramente anche dalle parole di Eleonora Fedeli: «Io scrivo soprattutto per la mia compagnia, in qualche caso, per bandi e premi. Mai per un produttore. Se devo investire denaro e tempo, ho la percezione sia più fruttuoso costruire uno spettacolo che, in futuro, possa essere comprato». È dunque rarissima la figura dell’autore “puro”: chi scrive, quando non recita, si occupa almeno anche di messa in scena, luci, costumi, trasporti e promozione, portando inevitabilmente a una dispersione delle energie e a un abbassamento della qualità del lavoro.

 

Il mancato riconoscimento della professione da parte delle istituzioni senz’altro non aiuta ad alleviare questo senso di solitudine: attualmente non esiste un modo, per un drammaturgo o una drammaturga, di ricevere un compenso durante la fase di scrittura. Ancora Pisano sottolinea questo aspetto, illustrando il percorso a cui gli enti inglesi e tedeschi sottopongono gli autori che si rivolgono a loro per essere prodotti: dopo una selezione iniziale tra le proposte, il teatro commissiona un soggetto, poi richiede una prima stesura, una seconda, una terza, e a tutti questi passaggi fa corrispondere un pagamento crescente. C’è la possibilità che il testo non riesca ad arrivare a fioritura, ovviamente, ma nel frattempo il suo autore o autrice ha ricevuto denaro in cambio di una prestazione, ha sviluppato un testo e ha intessuto un dialogo con un’istituzione.

Ci si chiede perché in Italia non funzioni così. Puntare il dito sui direttori di Teatri Nazionali e TRIC – peraltro assenti al tavolo – sembra la risposta più condivisibile. È anche quella più facile: non è una novità che la drammaturgia contemporanea venga trattata come la Cenerentola dei cartelloni, a sgomitare tra i nuovi adattamenti di Shakespeare per raggiungere una rassegna “protetta” e, spesso, fuori abbonamento.

 


Il tavolo moderato da Alessandro Iachino | Foto di Flavia Tartaglia

Per rendere conto della complessità del problema, Stefania Marrone, autrice della Bottega degli apocrifi, espone le criticità di una realtà virtuosa come NdN (Network Nuova Drammaturgia), una rete di 14 enti con l’obiettivo di selezionare annualmente giovani autori e autrici della scena nazionale, metterli in relazione con personalità già affermate (tra gli altri, Stefano Massini, Gabriele Vacis, Francesco Niccolini), produrre il loro lavoro e promuoverlo attraverso le strutture aderenti. «Teoricamente è un progetto di filiera impeccabile, in pratica c’è un problema: pare – dice Marrone con una punta di ironia – che la drammaturgia contemporanea in Italia non sia sempre adatta per il pubblico e che questo metta in difficoltà i co-produttori».   

 

Il pubblico, si dice, è stato condannato all’analfabetismo da anni di intrattenimento e attori da fiction sui palcoscenici e dalla scuola pubblica (la secondaria, in particolare), che accenna appena alla storia del teatro, e comunque con un taglio museale. Tuttavia, anche questa risposta soddisfa poco, o meglio, nasconde una complessità che si insinua nella politica mediatica del nostro paese e nelle programmazioni scolastiche già traboccanti di nozioni e pervicacemente attestate, quantomeno in storia e letteratura, agli anni ’50.        


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Da sinistra: Ornella Rosato, Eleonora Fedeli, Marta Polidoro e Silvia Guerrieri, vincitrice del premio Omissis 2023 | Foto di Flavia Tartaglia

Più o meno timidamente si accenna alla poca attrattività della drammaturgia contemporanea, delle sue tematiche e dei suoi mezzi: Capuani critica recisamente l’arretratezza delle accademie, in cui Beckett rappresenterebbe ancora un’avanguardia, e la conseguente «geremiade famigliare» a cui si assiste nelle sessioni di lettura ai premi da lei presieduti. Detto per inciso: senz’altro la famiglia costituisce uno dei temi forti, e forse fin troppo presenti, della nuova drammaturgia italiana, ma ha ragione Niccolò Matcovich, autore di Trittico delle bestie, quando suggerisce che spesso essa non è altro che un pretesto per parlare di qualcos’altro.

«Cosa stiamo facendo per questi spettatori che vogliono morire?», si chiede Paschitto, che poco dopo si dice pronto ad accettare la sparizione del proprio lavoro, se non adeguatamente retribuito e riconosciuto. Anche se con un certo darwinismo esasperato, l’autore qui esprime pienamente l’inquietudine di fronte a un canone che si sta formando, di fronte a bandi, residenze, produzioni, tournée che passano al setaccio il giovane panorama italiano, distinguendo idealmente il grano dalla pula. A proposito di grano e di canone, torna in mente la preferenza che, nel febbraio 1830, gli accademici della Crusca accordarono alla Storia d’Italia dal 1789 al 1814 di Carlo Botta, onorata con il loro ambito e ricco Premio quinquennale per la prosa, sulle Operette morali di Giacomo Leopardi, che sarebbe morto di lì a sei anni, ospite di Antonio Ranieri e dipendente da un misero assegno mensile fornitogli dalla famiglia.       

Mutatis mutandis, è utile ricordare che, ogni tanto, anche il pubblico più avveduto indossa lenti difettose.

 

Tutte le domande e tutte le risposte che attraversano il tavolo rimandano a ulteriori domande e ulteriori risposte che, più si procede, più sono da rivolgersi a qualcuno di assente, non solo da questo tavolo, ma da tutti quelli che si montano e si smontano in occasione di premi, festival e convegni (un esempio su tutti, quello organizzato da Fuori Luogo per “Tutta la vita davanti” a La Spezia). Ed è probabile che, se anche fossero presenti i direttori dei teatri e delle accademie, gli assessori o i ministri alla cultura, i primi ministri e i presidenti della Commissione Europea, la risposta alle domande sarebbe sempre un’altra domanda. Noi ora dove stiamo, ci viene chiesto. Ci sembra di pigiare il campanello davanti a una porta con l’impressione crescente che sia quella sbagliata.


Il tavolo moderato da Alessandro Iachino e intitolato "Fare drammaturgia oggi. Genealogia, eredità, pratiche" è stato raccontato da Giuseppe Di Lorenzo di Altre Velocità in questo articolo.

  

 

 


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