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  • Eva Olcese

Terreni Creativi 2022 - 4 agosto

Eracle, l’invisibile del Teatro dei Borgia

Christian Di Domenico in Eracle, l’invisibile_Foto di Luca Del Pia
Foto di Luca Del Pia

«È facile diventare poveri, basta iniziare», dice il protagonista di Eracle, l’invisibile. Cominci a farti la barba una volta di meno, le bollette insolute aumentano, le amicizie si rarefanno e subito arriva il fiato pesante e un tono lamentoso in bocca.

La povertà è la spirale che inghiotte il novello Eracle, un padre amorevole, che inizia a fallire le prove quotidiane di affermazione sociale a cui lo spinge la società. Se le dodici fatiche della mitologia classica prevedevano un confronto con forze naturali e mostruose, è ora nella sopravvivenza economica che Gianpiero Borgia – co-fondatore con Elena Cotugno della compagnia Teatro dei Borgia, già al suo nono anno di vita – rintraccia il campo di azione del forte per antonomasia.


Una vecchia radio diffonde una canzone nella stanza semivuota, ma le parole non mi arrivano. Siamo seduti ai tavoli di una mensa scolastica e un chiacchiericcio copre la melodia finchè quello che presumibilmente sarà il nostro Eracle - l’attore Christian Di Domenico - non entra in scena chiedendo se sia già passato il notiziario e se ci sia stato qualche aggiornamento sulla guerra. Poi ci investe con un aforismario di parole, da Putin a Jerome, da Zavattini fino a padre Pino Puglisi e Bruce Lee. Ci troviamo di fronte al sapere enciclopedico e pop di uomo come tanti che, cresciuto nelle ristrettezze, ci racconta la felicità borghese di essersi poi ritrovato con un lavoro a tempo indeterminato, un matrimonio da favola, una splendida figlia e una bella casa.


Professore per vocazione, l’Eracle del Teatro dei Borgia viene cercato in continuazione dagli alunni, che gli sottopongono problemi personali, oltre che scolastici. Un mentore che sembra uscito fuori dalla pellicola de L’attimo fuggente. Padre impeccabile, per garantire il corso di teatro alla figlia e quello di yoga alla moglie arrotonda lo stipendio grazie a un progetto di informatica – di cui è il responsabile – e a un programma di lezioni private.

È per smuovere studenti e studentesse dalla placidità del programma ministeriale che un giorno, di punto in bianco, domanda a una classe: «A che serve studiare?»

A diventare persone migliori, gli risponde un primo alunno. Scontato.

La cultura arricchisce risponde un altro. Furbastro.

A evadere dal carcere, infine, li corregge lui.

Nello stupore generale, invita la classe a seguirlo nella “più grande evasione del secolo”, quella che li porterà a scavalcare il muro dell’ignoranza. In cambio chiede loro solo una cosa: che non rimangano in silenzio, ma che gli facciano sapere cosa li disturba, cosa li annoia, cosa li innamora.


La cultura non potrà però salvare questo eroe contemporaneo che, incappato in un’accusa di molestia da parte di una studentessa, si ritrova via via abbandonato da allievi, colleghi e moglie, in una spirale di eventi che ricalca i caratteri della tragedia, non fosse per il sorriso dolceamaro che abita il suo volto nella sicurezza che tutto volgerà al meglio. Le dimissioni forzate sono il primo passo verso un’estraniazione dalla società, a cui segue la separazione dalla moglie, civile ma resa aspra e glaciale dalla lista di spese e di cifre che si affastellano nel testo, scritto dallo stesso Di Domenico insieme a Fabrizio Sinisi – drammaturgo e collaboratore del Teatro dei Borgia sin dagli esordi di questa compagnia. Non mancano momenti di ilarità pungente in questo racconto della dissoluzione dell’io provocata dalla povertà, come le proposte di nuovi cartelli ai colleghi clochard in sostituzione del più classico «HO FAME»: «Ognuno ha il suo hobby, io hobbisogno di mangiare», «Porgi lauta mancia»,«Appena mi sveglio, è chiaro che l’ansia è la mia rotaia» o ancora, facendo riferimento all’incresciosa situazione inganua, «Senza Pronto Soccorso si muore, ma anche senza cibo». Mentre l’attore dispone su un carrello i sacchetti per i pranzi d'asporto di una mensa popolare, assistiamo a una confessione fatta di continue sottrazioni e rinunce, in cui l’ex professore liceale passa dal vivere in un monolocale nel quartiere Bovisa all’ occupare la macchina parcheggiata a Lambrate, con il solo desiderio di trattenere quei soldi necessari per il karaoke settimanale con la figlia. Sarà la condizione di insolvente a segnare il punto di non-ritorno dell’eroe e a fare in modo che l’antieroe compia il proprio destino mitologico.


La naturalezza del racconto, data da un lavoro di ricerca sul campo che Borgia commissiona ai suoi attori-reporter – una prassi fatta di interviste, incontri, sopralluoghi e azioni di volontariato –, è rotta da un tender la mano del Fato (segnato dall’uccisione di Megara e della propria progenie) che sembra fin troppo repentino. La sospensione della realtà vacilla quindi sul finale, nonostante l’urgenza espressiva prima di allora ravvisata nella recitazione scarna e colloquiale del performer. Infine, se lo spazio scenico, così come allestito al festival Terreni Creativi, riprende certamente l’ambientazione della mensa, perde però la potenza semantica e simbolica della tenda di primo soccorso, spazio solitamente prediletto dalla compagnia e montato in prossimità di luoghi periferici o di teatri. Ma è quando Di Domenico interrompe il momento degli applausi per raccontarci i suoi incontri con operatori, parroci e piccoli imprenditori in fila alle mense che ritroviamo quel contatto profondo e viscerale e lo facciamo nostro.


Ragazzo di vita di Francesca Foscarini e Cosimo Lopalco


Siamo sulla terrazza dell’Ortofrutticola, l’azienda che quest’anno ospita gran parte degli eventi di Terreni Creativi. Il cielo è tinto di un rosa pastello che fa pendant con il mazzo di fiori dietro cui si nasconde il danzatore Giovanfrancesco Giannini mentre cammina verso il pubblico. Il profilo degli steli lascia intravedere un sorriso beffardo. Rotola, corre, procede a passi di gambero, salta, fa una ruota. Respirando si gonfia il petto, si bacia il bicipite, poi ci rivolge uno sguardo fiero e malizioso che rimbalza nella platea.


Giovanfrancesco Giannini in Ragazzo di vita_Foto di Luca Del Pia
Foto di Luca Del Pia

Risuonano in me le parole di Pier Paolo Pasolini dal corto Ignoti alla città (1958) per la regia di Cecilia Mangini: «Nessuno sa dei ragazzi di vita che anima leggera e allegra hanno».


E ancora davanti agli occhi mi si proiettano le scene de La canta delle marane, altro documentario frutto della collaborazione di Mangini e Pasolini: gli schizzi, le imprecazioni e le smorfie, le botte date e ricevute, le urla, le corse a rotta di collo per sfuggire alle guardie di un gruppo di ragazzini della periferia romana tra i canneti e le acque melmose delle marane. Mi ricorda quella loro «passione per far disperare il mondo».

Come Er Chiolla Chiolla, Giannini ha la «faccia malandra, liscia come una serpe», ma un destino decisamente meno tragico di quello che lo avrebbe atteso in una borgata romana. Cinico, sembra più volte invitarci a giocare con lui, ma poi rimane in un assolo che da archivio di gesti – dal carattere borgataro e adolescenziale – si trasforma in una danza dai caratteri più chiaramente distinguibili. A un certo punto emerge pure la voce di Vittorio da Accattone di Pasolini, che recita: «Vojo morì co' tutto l'oro addosso, come i faraoni!»

Ma non c’è ruvidezza nei tratti del danzatore napoletano, né povertà nel suo costume di scena, tragicità nello sguardo o disperazione nei gesti. Il riso non lascerà mai spazio allo sconforto nella performance di Foscarini e Lopalco, che si chiude, sulle note di Maruzzella, con un reiterarsi convulso di gesti, fino alla caduta a terra finale, circondato dai fiori, quando alcuni Lilium ancora schiusi e un paio di berrette del prete raggiungono i nostri piedi.


[Something Stupid di Fausto Paravidino e Daniele Natali: vai alla recensione]


Totò e Vicé - operina musicata per ombre e voce di Giuseppe Cutino


Rosario Palazzolo e Anton Giulio Landolfo in Totò e Vicé - operina musicata per ombre e voce_Foto di Luca Del Pia
Foto di Luca Del Pia

«Chi è morto è vivo e chi è vivo è morto; e c’è chi non è né vivo né morto…» Totò e Vicè, protagonisti dell’omonimo testo del drammaturgo siciliano Franco Scaldati – scomparso meno di dieci anni fa –, appartengono a quest’ultima categoria dell’essere. Ombre che camminano in un non-luogo tra terreno e ultraterreno, appaiono, all’improvviso svaniscono e altrettanto velocemente si raddensano in forme sempre nuove. Quelle di due topini, pupi di zucchero, lucciole, maestra e bambina, una coppia di nonni o ancora nei panni dei loro corrispettivi femminili, Titì e Vincenzina. Il teatro di Scaldati fa dello sdoppiamento dell’io il suo canone. Ispirati a figure realmente esistite, i due clochard camminano e, nelle parole di Scaldati, sembrano «inventarsi ogni sospiro, ogni passo». L’uno solare e beffardo, l’altro sognante e ombroso, si chiamano per nome per ritornare in vita, per ricordarsi della propria esistenza. L’identità è al centro dell’indagine del poeta e drammaturgo, voce centrale per il teatro di ricerca palermitano, e tuttavia sconosciuta ai più, tanto da venir dimenticata persino dalla propria città. Il regista Franco Maresco parla di tradimento. Dichiara in un’intervista che gli stessi politici che al funerale si sono prodigati in un tardivo mea culpa per non avergli mai concesso uno spazio teatrale, hanno permesso che il suo archivio volasse a Venezia (l’archivio Franco Scaldati è stato donato nel 2020 alla Fondazione Giorgio Cini).


Non tutti però, fortunatamente, l’hanno scordato. Ad Albenga le parole di Scaldati arrivano attraverso la scommessa di Giuseppe Cutino, regista palermitano – al quale Terreni Creativi dedica una importante personale, con tre suoi spettacoli all'interno della programmazione –, che le traspone in un’operetta musicata dal vivo. Se la resa scenica di un testo così fortemente identitario, legato alla coppia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi, è di per sé un’opera di traduzione, trasformare Totò e Vicè in una tenera ballata, con le musiche originali del compositore siciliano Maurizio Curcio, comporta un rischio di non poco conto. Rappresentare Scaldati vuol dire «ri-guardarlo: guardarlo nuovamente e averne riguardo», come sottolinea lo studioso Domenico Giuseppe Lipani in un saggio su Mimesis Journal, rivista semestrale edita da Accademia University Press. Compiere un adattamento del suo linguaggio poetico è infatti un lavoro sul crinale tra tradizione e tradimento.


Sul palco disadorno dell’Ortofrutticola la voce dei due vagabondi è interrotta ora dal suono della fisarmonica di Pierpaolo Petta, ora dal canto di Egle Maria Mazzamuto, dalla voce narrante di Sabrina Petyx o dallo stesso Curcio, in scena, alla tastiera e chitarra. Nelle note di regia il compositore dichiara di essere stato guidato dalla musicalità che è parte integrante della poetica di Scaldati e affonda le sue radici nella ritmicità della lingua siciliana. La questione della lingua nel drammaturgo palermitano ha un’importanza centrale: il teatro del “sarto” – soprannominato così per il breve apprendistato presso la sartoria di Peppino Ferina che gli fece scoprire l’amore per il teatro – si affida al dialetto non in chiave sociologica, bensì lirico-espressiva. È una lingua del dopoguerra, quella adottata da Scaldati, un dialetto con una collocazione spazio-temporale ridottissima, parlato da una comunità ormai già estinta. Nel tentativo di mediare questa “lingua privata”, Cutino mette in campo vari dispositivi: uno schermo su cui scorrono i sottotitoli in italiano, un coro, una voce narrante per restituire quelle entità astratte così complesse da rappresentare scenicamente, e infine le composizioni musicali di Curcio, che talvolta ripetono le parole del drammaturgo palermitano in un loop tra l’elettronico e il mantrico.


L’operina musicata per ombre e voce di Cutino nel suo soffermarsi su elementi extratestuali, pecca però di didascalismo – pone in scena persino due figure femminili che tessono – e contemporaneamente di ermetismo. Non basta la voce melodiosa di Mazzamuto o l’incredibile affiatamento tra Rosario Palazzolo e Anton Giulio Landolfo (interpreti delle due ombre): la parola di Scaldati, interrotta e adornata dalle molteplici sonorità della messinscena, ne risulta oppressa, perde la sua essenzialità e si affossa.


Visti a Terreni Creativi Festival, il 3 agosto 2022.

Foto di Luca Del Pia


Eracle, l’invisibile

da Euripide

parole di Fabrizio Sinisi e Christian Di Domenico

con Christian Di Domenico

consulenza sociologica Domenico Bizzarro

progetto e regia Gianpiero Alighiero Borgia

prodotto da Teatro dei Borgia in coproduzione con CTB – Centro Teatrale Bresciano e Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia


Ragazzo di vita

1^ regionale

ideazione e creazione Francesca Foscarini, Cosimo Lopalco

interpretazione Giovanfrancesco Giannini

cura della tecnica Maria Virzì

amministrazione e logistica Federica Giuliano, Eleonora Cavallo

con il sostegno di Tanzhaus Zurich, Associazione Culturale VAN

sviluppato all’interno di Italia-Museo dell’Altrove

coproduzione Associazione LIS LAB performing Arts | CROSS Festival City Contemporary Dance Company – Hong Kong, vincitore Bando Maeci Vivere all’Italiana sul Palcoscenico


Something stupid

1^ regionale

una cosa di e con Daniele Natali e Fausto Paravidino

produzione NIM - Neuroni In Movimento


Totò e Vicé - operina musicata per ombre e voce

1^ regionale

di Franco Scaldati

adattamento testo, scena e regia Giuseppe Cutino

con Rosario Palazzolo, Anton Giulio Pandolfo, Egle Mazzamuto, Sabrina Petyx, Maurizio Curcio, Pierpaolo Petta

voci registrate Viola Palazzolo e Alberto Pandolfo

musiche originali Maurizio Curcio

costumi Mario Dell’Oglio per DELL’OGLIO PALERMO 1890

movimenti di scena Totò Galati

disegno luci Gabriele Gugliara

datore luci Michele Ambrose

aiutoregia Peppe Macauda

progetto Anton Giulio Pandolfo - Ass. Cult Energie Alter-native, Palermo produzione esecutiva AMA Factory, Torino

con il sostegno di Babel/ Spazio Franco, Palermo - Compagnia dell’Arpa


oca, oche, critica teatrale
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