Apocalisse Tascabile è stata una delle più interessanti scoperte che ci ha riservato Direction Under30, il festival del Teatro Sociale di Gualtieri, al quale partecipiamo da quattro anni.
L'occasione di questo pezzo è data dall'arrivo a Genova, al Teatro Garage, dello spettacolo. Non possiamo che consigliarvelo e per farlo vi regaliamo questa intervista a Niccolò Fettarappa del duo Fettarappa/Guerrieri!
Intervista e impaginazione a cura di Eva Olcese
Materiale d'archivio, fornito dalla compagnia Fettarappa/Guerrieri
Si ringrazia Niccolò Fettarappa per la disponibilità e Lorenzo Guerrieri per il coordinamento
Roma è stata davvero il brodo primordiale dello spettacolo. Io studio a Bologna, ma torno a Roma periodicamente e a Stazione Tiburtina con il bus vedevo questi condomini bui, la gente stipata dentro questi sarcofagi, con scritte pubblicitarie enormi, che li inghiottivano. Come si può raccontare questa tragedia che viviamo? Apocalisse Tascabile è nata da questa scommessa.
Prima di vederlo al laboratorio [di Elvira Frosini e Daniele Timpano, NdR], io in realtà Lorenzo l’avevo già visto. Stavo prendendo la metro C che va verso Pigneto (diciamo pure il quartiere artistoide di Roma) e mentre entravo, lo vedo che cammina. In realtà per prima cosa vedo un naso che cammina, che circola tra i pedoni – ovviamente è il naso di Lorenzo Guerrieri – , che poi è quello che mi ha portato a sceglierlo, questo suo essere una sorta di maschera umana.
Non so se la formazione abbia influito. Come tutte le formazioni, averne una è una deformazione. Sicuramente il non essere usciti da un'accademia ci permette di fare di più, ma anche di meno allo stesso tempo. Poi in realtà mi sento di dire che è come se avessimo fatto un’accademia, visto il numero di corsi che abbiamo seguito.
Dal punto di vista artistico sicuramente abbiamo sempre avuto stimoli importanti, ma non abbiamo avuto dei maestri, nel senso stretto della parola. Sono sempre state delle persone che “ci hanno spronato a”. Non siamo certamente orfani, siamo figli di una generazione teatrale nata a Rialto Sant'Ambrogio, bensì siamo orfani di spazi. Devi sapere che Roma va avanti per spazi occupati. È una città che ha visto una brutale campagna di privatizzazione e chiusura, specie nell’ultimo quinquennio della Raggi. Molti spazi hanno rischiato di vedere esperienze decennali chiuse, penso, ad esempio, al Nuovo Cinema Palazzo o ad altre realtà come Baobab. Manchiamo di uno spazio. Lo Stato dovrebbe garantircerne uno. Per me va bene lavorare con le residenze, ma non posso prefiggermi di lavorare solo in quel periodo. E come me tante persone.
Due parole per muoversi all'interno di Apocalisse Tascabile
MACERIE: È uno spettacolo che parla di macerie, che deve restituire al senso anche le macerie di cui parla. La maceria è comunque un oggetto che ha vissuto una fine, una conclusione e che ha una storia. E poi l’immagine di spazzare davanti al cinema le macerie, che è un’immagine che ho in testa grazie al regista e autore tedesco Alexander Kluge. Lui parla dei bombardamenti degli Alleati dopo la fine del terzo Reich e racconta dei tedeschi che vagano in queste città tra le macerie. L’immagine che mi ha raggelato il sangue, perché mi ricorda molto la nostra situazione, è quella di questa signora, proprietaria del cinema Capitol, che il giorno dopo il bombardamento, s’impegnava a ramazzare le macerie davanti al cinema, prima della proiezione pomeridiana e sapeva che il giorno dopo, alle due, avrebbe dovuto di nuovo fare lo stesso. Questa parola ci ricollega anche all'ultimo episodio di Martirii metropolitani.
Ho anche scritto un articolo su Il Manifesto a riguardo. In Artisti di tutto il mondo: sbriciolatevi! scrivo che l’unico mezzo possibile per sopravvivere nel futuro per un artista è di fare di sé stesso una maceria e di rendersi visitabile in un museo.
TENDINI: Perché li utilizziamo tantissimo. Nei salti, nelle corse. Sono quelli che mi fanno male a fine spettacolo, ma è un dolore che mi rende felice, quello della propria soddisfazione. È il dolore più bello che si possa provare.
Il pubblico finisce per sentirsi infelice ma anche molto entusiasta, direi di un’infelicità furiosa. Si rende conto di tutta una serie di meccanismi, mali e malattie che lo attanagliano, attanagliano la sua vita da sempre. La risposta del pubblico è sempre stata molto participativa.
Le persone ci scrivono, ci chiedono quando lo rifaremo. Alcune persone mi hanno detto che hanno riso dall’inizio alla fine, altre di non aver riso neppure un momento. Non ha mezze misure. Mi piace pensare che non lasci indifferenti. Se non avessi del male di cui parlare, non so di cosa parleremmo. C’è un aforisma di Nietzsche che dice che «L’Europa è un malato alla nascita ed è sommamente debitore e grato alla sua malattia»: deve esserlo, altrimenti non sarebbe nulla. Quindi aldilà del Covid, verso il quale non riesco ad essere debitore, mi piace pensare che con questo male, riusciamo a motivare lo spettatore ad essere più incazzato con sé stesso e con il mondo.
Sulla questione giovani c’è poco da dire: giovane è chi giovane si sente. Io cerco tutti i giorni di ricordarmelo e di cercare dei modelli di giovinezza, ma niente, non ci riesco.
Da poco ho compiuto 25 anni e ancora non ho capito cosa vuol dire avere 25 anni oggi. C’era un periodo storico in cui essere giovani voleva dire qualcosa, oggi non sappiamo cos'è essere giovani. Ne abbiamo un’immagine stereotipata, glamour, se la definissimo meglio, potrei accettarla. Il concetto di "fresco" è stato molto spesso applicato allo spettacolo, a questo punto forse ho torto io, ma è un concetto che continua a non risuonarmi: è un termine che si ritrova sui siti porno e in macelleria. Sul “giovane” quando viene attribuito al nostro spettacolo, ho la sensazione che da parte del pubblico ci sia un distanziamento rispetto alle problematiche che noi trattiamo, come se dovessero esser recintate all’interno di un certo ambito anagrafico. In realtà quello che facciamo con Apocalisse Tascabile è un elenco di nemici e sono nemici di tutti (non soltanto nostri), prima lo riconosciamo e meglio è. Non è uno spettacolo per kindergarten.
Per quanto riguarda l’età quindi, sì, ho deciso che d’ora in avanti mi spaccerò per un quarantenne, per evitare qualsiasi mistificazione dello spettacolo. Dopotutto, la situazione che noi raccontiamo è una condizione che subisco io quanto mia nonna, qualsiasi tipo di lavoratore, è la condizione disperante di chi vive l’essere un’impresa individuale, dell'auto-sfruttamento che ogni giorno compiamo nella speranza di realizzarsi professionalmente, è la fine del concetto di classe, è la retorica californiana di essere sempre con lo sprint giusto e “se ce la metti tutta, ce la farai”. E secondo me riguarda tutti. Non sappiamo più cos’è la nostra vita al di fuori del lavoro. Il lavoro l’hanno innescato nel desiderio. Per quanto riguarda la velocità dello stile dello spettacolo, penso che un’opera d’arte non è mai calata dall’alto, ma irrelata, innervata con la vita di chi la fa. Io sono una persona molto stressata e credo di averla trasferita nel ritmo percussivo dello spettacolo. Penso di poter definire la mia scrittura come stressata e nervosa. Ma questa velocità non è compiaciuta, è una velocità subita. Il mio desiderio con questo spettacolo è di rispedire al mittente tutto quello che a me non piace e rifiuto, anche la velocità stessa. Non avrebbe senso raccontare di un mondo lento, adesso. L’altro giorno parlavo con una ragazza (non so se hai visto che ora gli audio su Whatsapp si possono ascoltare a 1.5 o a 2x), che mi ha detto «Per me il mondo esiste solo a 2x».
Sicuramente siamo una generazione di persone deluse, apparteniamo a una generazione del post-post-. Non sappiamo che farcene del post-post-. Noi come generazione (sto parlando a nome di una generazione? Oddio, censurami subito) abbiamo bisogno di una creazione, dobbiamo essere capaci di una virtù plastica, di cui non sono stati capaci i nostri padri e madri, in campo artistico quanto politico. Il vittimismo è onnipresente, ma è un’ideologia, è falsa coscienza. In Apocalisse Tascabile ci occupiamo delle sacche dimenticate di complicità rispetto al dominio che subiamo e di cui noi stessi siamo complici. Il vittimismo è, se vuoi, anche una sorta di mascheramento: proponendo una narrazione vittimistica, si ricerca costantemente un’empatia (che non è nient'altro che un neurone specchio), senza permettere a chi ascolta la storia una reale comprensione. Noi siamo contrari all’empatia, ad ogni forma di identificazione: non chiediamo questo allo spettatore. Non c’è male peggiore dell’empatia! Ho una nausea di fronte a certe catarsi ombelicali che si vedono a teatro. La nostra speranza, se vuoi chiamarla catarsi, sta nell’energia che mettiamo in quello spettacolo, nel sudore, nel dolore ai tendini. Nella pulsione inibita a teatro di stravolgere, scaravoltare.
La narrazione vittimista è costante, può darsi che noi stessi ne siamo vittime involontarie, in realtà credo che avremmo bisogno di una narrazione più critica, anche se polemica (perché nella polemica non c’è identificazione). Lo spettatore stesso non dovrebbe venire in scena, a teatro, per compatirsi o compatire te, ma perché ha un grosso desiderio di sentire come cambiare le cose o che le cose vanno cambiate, perlomeno. Mi ricordo quella frase di Brecht: «Noi abbiamo due modi per raccontare la realtà. Se una palla rotola su un piano inclinato, possiamo metterci o dalla prospettiva della palla o uscire fuori dalla palla». Chi fa la vittima, si mette dalla parte della palla e racconta che sta continuamente rotolando, chi invece si mette fuori dalla palla, racconta le leggi fisiche per cui la palla sta rotolando. Noi stiamo ovviamente rotolando, rotoliamo che è una bellezza, ma non possiamo prenderci il lusso di metterci dalla parte della palla e piangere rotolando. Dobbiamo metterci dalla parte del fisico e chiederci perché stiamo rotolando. Magari uno scienziato piagnone, questo sì. Che sia una scienza piagnona a me va bene, purché sia scienza e scienza del cambiamento.
Io e Lorenzo abbiamo vissuto un lungo momento di disperazione creativa intorno a Ottobre 2020. Speravamo che dopo la vittoria di Direction Under30 lo spettacolo decollasse, ma i teatri erano chiusi, quindi ci siamo lanciati in altri progetti: per esempio abbiamo creato un radiodramma sulla vita, gli atti e i miracoli di Dario Franceschini, costruito in poco tempo coinvolgendo Daniele Timpano e Elvira Frosini, Gabriele Linari e altri attori romani di cui nutriamo grande stima. Avevamo idea di indagare anche la parte video: avevamo già lavorato con Andrea Amatiste per i trailer di Apocalisse Tascabile, video a cui era stato riconosciuto non solo un valore pubblicitario, ma anche artistico e quindi abbiamo proposto questa idea a Carrozzerie n.o.t, teatro con cui al tempo avevamo già iniziato un dialogo creativo. L’idea dietro Martirii Metropolitani era quella di realizzare quattro video documentari, intorno all’area di Carrozzerie n.o.t, in cui intervistavamo l’antropologia dei marciapiedi, ai tempi del Covid da strada. Ed è stato bellissimo. Non ho mai camminato così tanto. Facevamo avanti e indietro su viale Marconi, che se non conosci, è un viale lunghissimo collega Trastevere all’EUR. Conoscevamo persone assurde e ci inventavamo storie ugualmente assurde, Utilizzando l’assurdo come grimaldello o bisturi per sezionare la realtà, abbiamo scoperto che si scopre molto di più che andando a interloquire con la realtà con i suoi stessi termini. Funziona molto di più usare l’assurdo come lente ustoria sulla realtà piuttosto che pararle davanti uno specchio e chiedere se la si riconosce. Tra l’altro ho adottato anche una metrica che, nella sua curva prosodica, imitava quella dei giornalisti televisivi e mi rendevo conto che le persone era molto più attente a sentire quella cadenza lì piuttosto che il contenuto della domanda. Erano portati a dare delle risposte affermative o negative, ascoltando il suono della mia voce. Il significato stava già nel suono. Quando faccio dire a quella persona «aiutiamo queste piccole carognette» è incredibile che quella persona lo ripeta, ma è chiaro che stia semplicemente replicando i suoni.
Comunque, è molto interessante interrogare la città in cui uno vive perché il contesto politico più immediato. Mi piace molto lavorare con la città e i materiali provenienti dal metropolitano, perché sono corrosi da un tipo di stress che invade tutto, è uno stress-spleen da marciapiede. Il primo episodio per esempio nasceva da una frase di Philippe Aries che afferma che nelle città viene massimamente occultata l’idea di morte: la vità è imprigionata, la morte è o almeno era relegata all’esterno (basti pensare alla posizione dei cimiteri), in quanto fine della produzione. Noi la ributtavamo dentro ed era molto divertente vedere come le persone cercavano in tutti i modi di ignorare quegli scheletri, anche camminandoci sopra…oltretutto nei luoghi dello shopping! Era il periodo in cui Conte diceva «uscite a fare gli acquisti e poi tornate a casa, altrimenti vi ammalate!» Una cosa folle. Era proprio il periodo del “lavora, consuma, crepa”, non che adesso non lo sia, ma almeno ora è scandito da qualche aperitivo. Nell’ultimo episodio di Martirii metropolitani Daria Deflorian diceva qualcosa tipo: «Forse di queste macerie avrete bisogno voi», che è una frase che mi ha proprio destrutturato in un colpo solo. Questo concetto delle macerie è molto presente nella serie, specie nell’ultima puntata, ma è qualcosa su cui, in generale, ragiono un sacco.
Il progetto a cui sto lavorando ha il titolo di Tentazioni di disastro, un titolo provvisorio, per una mia drammaturgia, che poi metteremo in scena con Lorenzo. Parallelamente ho scritto un primo studio, che ho presentato alla scuola di drammaturgia Scritture – di Lucia Calamaro – , che si chiama Nel mio felice bagno di sangue – Atto unico senza feriti gravi purtroppo. Sono due lavori che in qualche modo comunicano. Abbiamo qua è là molte residenze artistiche il prossimo anno e speriamo che questo possa darci un buon risultato. Il debutto è previsto nell’estate 2023, quindi ci diamo molto tempo, perché ho l’esigenza prima di scrivere, di sentire il bisogno proprio come improrogabile. Devo essere "costipato" di argomenti prima di buttarmi nella scrittura. Sicuramente sarà uno spettacolo più disperato di Apocalisse Tascabile perché è uno spettacolo che "arriva alle mani": questo sarà uno spettacolo sulla rabbia, anche.
Mi sono preposto l'obiettivo di non fare quello che volevo fare: volevo fare teatro, ho fatto Filosofia, volevo scrivere e me lo sono impedito, fino a quando è diventato improrogabile e dovevo farlo. Infatti ho difficoltà nella scrittura del nuovo lavoro, perchè non lo sento improrogabile e lo sto continuamente procrastinando fino a quando sarà un bisogno talmente viscerale, che il viscerale diventerà cerebrale e mi metterò a scrivere. A un aspirante drammaturgo direi di coltivare tutto ciò che non è teatro, perché per il teatro c’è tempo.
Penso che a teatro non si dovrebbe andare per compiacersi con una forma estetica perfetta, senza equivoci e senza contraddizioni. Sono molti gli spettacoli che cercano il lieto fine, ma il lieto fine non esiste nella realtà…non vedo perché il teatro debba arrogarsi il diritto di mettere un lieto fine. Soprattutto non è funzionale: non è polemico, non è praticabile, non è politico, non è nemmeno curativo. Non è drammaticamente interessante. A teatro si viene per non essere conciliati, per sentirsi un po’ fratturati. Noi artisti abbiamo il compito di portare lo spettatore nella frattura, nella crepa, nella contraddizione, portarlo dove il sistema non regge, fargli sentire lo scricchiolio. La funzione del teatro per me è politica, nel senso di azione politica. Ha una funzione di crepa, di sospensione. Esattamente come in chiesa, che uno entra, il tempo è sospeso e uno si illude che il buon Dio gli riserverà un posto in Paradiso. Mentre se entra a teatro, con lo scalmanare di mani, voci, battiti uno si ricorda che non c’è un lieto fine. Hanno due funzioni complementari e opposte.