Uno spettacolo come Bestie di scena non arriva silenzioso. Uno spettacolo come Bestie di scena di Emma Dante crea aspettative e tensione, preceduto da foto spettacolari, voci sullo spettacolo, video-trailer, fiumi di recensioni (positive o meno) e recensioni-fiumi.
Ma uno spettacolo come questo ci coglie (comunque) impreparati e divide anche la nostra piccola platea: a qualche oca la nudità delle bestie sembra un dono, ad altre è parsa una superficiale carneficina ad opera della regista palermitana.
Bestie di scena
Teatro Nazionale di Genova, 20-22 Marzo 2019
Un piccolo scorcio di umanità sul palcoscenico, questo è stato per me Bestie di Scena. Un gruppo eterogeneo di esseri umani che si mostra nella sua essenza. La nudità non pretende di essere un gesto intellettuale, colmo di rimandi metafisici, è semplicemente l’abbandono del non necessario. Un corpo nudo fa sempre uno strano effetto — spesso più per chi guarda che per chi si spoglia — ed è paradossale che a scandalizzare sia qualcosa che fa parte di noi, di tutti noi: la carne. Ingenuamente convinta di essere libera da ogni tabù, io stessa mi sono ritrovata inizialmente in imbarazzo per quei corpi nudi. Eppure i loro occhi non tradiscono nessun turbamento perché gli attori semplicemente esistono di fronte ai miei occhi: respirano, sudano, sono.
Corpi diversi che in alcuni istanti sembrano un unico essere, mi portano a riflettere sul concetto di massa, sulla diversità nell'uguaglianza. Mi sento parte di loro e vorrei essere più vicina a questi esseri umani. Non c’è nulla di scontato, anche il gesto più didascalico riesce a stupirmi. La ragione non riesce a governarmi: ogni movimento e ogni suono colpisce in maniera diversa i miei sensi. In alcuni momenti vedo degli animali, in altri degli uomini e delle donne. Il corpo umano parla da solo, l’intelletto crede di dover aggiungere qualcosa tramite la parola ma in realtà non fa altro che far perdere la forza e l’energia che la semplice presenza di una persona fisica posta su un palco emana. A fine spettacolo ho la sensazione che gli attori abbiano compiuto nei nostri confronti un grande atto di amore e altruismo che non sono in grado di ricambiare. Il teatro — quello vero — fa esattamente questo: dona molto senza chiedere nulla in cambio.
Un’autocitazione, un esercizio di stile in cui la regista prende in prestito i corpi coraggiosi degli interpreti per spingerli al di là di limiti che si rivelano essere puramente formali, strutturali; il teatro fisico di Emma Dante non è performance (nel senso in cui è contemplata una dimensione di rischio e vulnerabilità) ma meticolosa partitura e in questo sta la sua trasgressiva e potente peculiarità. Ma in questo caso assistiamo a un collezionarsi di tematiche ed espedienti cari alla regista palermitana senza un vero sfondo narrativo, privandoci emotivamente di quell’urgenza liberatoria che i corpi nudi degli attori riverberano. Il grande spettacolo circense - non meno privo di “sadismo” quanto di genialità - ci incanta, come sempre, ma da una posizione tutto sommato paradossalmente sicura. Nonostante i salti dal trapezio, intravediamo la rete di sicurezza, al contrario di spettacoli come Le sorelle Macaluso o La trilogia degli occhiali dove l’ingranaggio era talmente ipnotico da lasciare senza fiato.
La radicale semplicità di Bestie di scena, quella che lo salva dal loculo degli "addetti ai lavori", risiede nell'evitare di porsi esclusivamente domande di natura teatrale (Che cosa è il teatro? Che cosa è un attore? Che cosa fa un regista?) e nell'andare a investigare, in modo lento e radicale, che cosa sia e che cosa possa un corpo.
A inizio spettacolo gli attori sul palco sono espressamente soggetti da guardare, ammirati per la loro armonia, derisi per il loro pudore frustrato; al termine, ritti nella stessa posa, non coprono più le proprie nudità, anzi, restituiscono con impassibilità lo sguardo allo spettatore: non subiscono più la differenza simbolica e culturale che squilibra il rapporto con chi li osserva, ma diventano quella differenza, percorrono quel limite, escono per un secondo dal teatro, dalla rappresentazione di un sé, ed entrano in una dimensione performativa, diventano un sé.
Dicono di lei che cerchi negli attori una "perfezione spontanea", una brillantezza casuale data dell'incontro dei vari interpreti. E l'impressione prima, dopo e durante Bestie di scena è proprio quella di assistere alla sistematica perfezione di una catena di montaggio già rodata. Con un anno di tournée alle spalle, il Teatro Nazionale di Genova ha sicuramente puntato su uno spettacolo che era conscio avrebbe stupito lo spettatore. Stupore e stordimento sono le uniche sensazioni a cui noi spettatori possiamo aggrapparci alla visione di questi uomini e donne che, nudi, sono immediatamente ridotti a uno stato di buffi freaks. Quasi come i giocattoli scaraventati in scena, i corpi degli attori ci appaiono infatti nient'altro che ammaestrati e fragili — ma molto performanti — oggetti nelle mani di Emma Dante. Così concettuale da allontanarsi dai canoni della messinscena, nella sua ripetizione anarrativa e frattale ho trovato l'ultimo lavoro della regista palermitana molto vicino alla performance art. E se, come dice Cesare Viel, «tutte le arti tendono alla performance», nei performer-attori di Bestie di scena ho rivisto il senso di sacrificio in nomine artis di Marina Abramović — particolarmente vivo nelle sue azioni con Ulay — ma nella nudità dei loro corpi — a cui il nostro occhio gradualmente si abitua, fino a non provare neanche più imbarazzo o pena — manca la partecipazione, la forza e l'intimità di Imponderabilia (la performance eseguita dai due nel 1977 alla Galleria d'arte moderna di Bologna). In una ripetizione di gesti quasi estenuante ma mai fonte di noia, Emma Dante fa dello stesso palco teatrale e dello stupefacente i mezzi con cui spiegare la sua grammatica teatrale, non arrivando mai però alla profondità di un’analisi.