Il Canto della Caduta e il mito di Fanes | Una conversazione con Marta Cuscunà
L'Oca intervista Marta Cuscunà a proposito del suo Il Canto della Caduta e non solo. L'ultimo spettacolo dell'autrice/attrice arriva dopo l'esperienza della Trilogia delle Resistenze Femminili per mettere un punto fermo e riflettere sull'oggi attraverso la saggezza millenaria del mito di Fanes.
Intervista a cura di Marco Gandolfi.
Come collocheresti Il Canto della Caduta rispetto allo sviluppo della Trilogia delle Resistenze Femminili e la tua analisi del patriarcato?
È un discorso che continua. Non saprei dire se si tratta di un punto finale. Considerando la crisi attuale che stiamo vivendo, per me è un ulteriore modo per riflettere sull'oggi a partire dal passato.
La Trilogia aveva compiuto un discorso circolare rispetto al tema della creazione degli stereotipi di genere da parte del patriarcato, partendo da quelli femminili (nei primi due spettacoli), per arrivare a quelli maschili (in Sorry, boys).
Il canto della caduta è un passo ulteriore perché indaga le conseguenze del modello di relazione tra maschio e femmina, non solo sui singoli individui, ma sull'intero sistema sociale.
A questo proposito, il rivolgerti a una narrazione mitica - a differenza dell'approccio più strorico o cronachistico della Trilogia - come va visto? È lecito considerare il problema che poni del patriarcato come qualcosa più che politico, non solo politico?
Il mio interesse per il mito di Fanes deriva da studi di archeomitologia che lo riportano a un legame con lo sviluppo dell'umanità. L'archeomitologia cerca di interpretare i "segni" prodotti dalla cultura umana in epoche così remote per le quali non disponiamo più di prove "univoche" e documentali per comprenderla. Eppure nelle ricerche di Marija Gimbutas e Kläre French-Wieser si ritrovano elementi comuni risalenti alla preistoria, che ci raccontano di una società umana molto diversa da quella patriarcale, gerarchica e belligerante che conosciamo.
Oltre agli studi di archeomitologia, mi è sembrato interessante collegare il mito del popolo pacifico di Fanes e delle sue regine, alla teoria della trasformazione culturale di Riane Eisler (autrice del saggio di antropologia Il calice e la spada, ndr) secondo la quale il modo attraverso il quale l'umanità struttura il rapporto tra maschio e femmina (che è il rapporto senza il quale la nostra specie non può continuare), influenza le istituzioni, la religione, l'intero modello sociale che ci diamo e di conseguenza anche il rapporto con gli altri popoli (pacifico o bellicoso) e con la Natura (sfruttamento sfrenato o rispetto e cura). Infatti nella gerarchia implicita del patriarcato (che è un modello della dominanza), ogni differenza diventa pensabile solo in un rapporto di subordinazione. Proprio per questo trovo urgente riproporre oggi questo ragionamento: c'è stato un periodo nello sviluppo umano in cui la legge del più forte (quindi la guerra) non era la regola. E questo periodo è coinciso con un modello sociale in cui le donne, non solo non erano discriminate, ma addirittura erano considerate perfettamente adatte a guidare la comunità secondo un principio di governo fondamentale: il potere non era uno strumento di controllo coercitivo ma una forma di responsabilità. Il mito di Fanes, in fondo, parla proprio di questo.
Se vogliamo uscire dalla crisi economica, ecologica e umanitaria che stiamo vivendo, credo che il discorso sulla parità tra uomini e donne sia fondamentale per cambiare il modello che ci ha portati sull'orlo del collasso.
Parliamo della difficoltà e la sfida di adattare una narrazione epica, con i suoi codici di racconto ed esposizione che fanno riferimento a una tradizione ben precisa. La rielaborazione che compi attraverso le tecniche del teatro di figura, usando il tuo stile e la tua impostazione, quali prospettive o problemi ti ha in particolare aperto? Con quali differenze rispetto al materiale storico che invece informava la Trilogia?
Una parte interessante del mio studio è stato incontrare Ulriche Kindle, tra le maggiori studiose di questo ciclo epico ladino che è talmente antico da avere radici pre-cristiane. I miti ladini si sono tramandati in forma orale fino ai primi del Novecento. Diversi studiosi, tra cui Karl Felix Wolff, hanno poi cercato di metterli in forma scritta, ma non potendo trascriverli in ladino (che all'epoca esisteva prevalentemente come lingua orale) hanno dovuto tradurli nelle lingue scritte a loro disposizione (Italiano e Tedesco) e nel farlo, hanno inevitabilmente deviato alcuni simboli nell'immaginario delle culture in cui li traducevano.
I ladinisti, oggi, cercano di riportare a galla i significati originari e ricostruire quell'immaginario di partenza che non ha nulla a che fare, ad esempio, con la cultura germanica di provenienza del Wolff.
Le interpretazioni possono essere moltissime. Lo scoglio più grande, per me, è stato cercare nuove immagini per simboli così antichi, perché possano risuonare allo spettatore contemporaneo.
È bello vivere liberi! è definito come un progetto di "teatro civile". Credo che la Trilogia delle Resistenze Femminili sia nella sua essenza un teatro della speranza. Speranza in un cambiamento possibile nel profondo della struttura gerarchica di cui parli. La cupezza che è la dominante de Il Canto della Caduta come va interpretata?
"Canto nero della caduta" è la definizione che dà la ladinista Ulrike Kindle di questa parte del ciclo epico di Fanes a cui mi sono ispirata.
Nella prima parte, il “canto rosso”, viene raccontata l'origine del popolo di Fanes e l'epoca di pace e simbiosi con la Natura. Io ho scelto di ispirarmi alla seconda parte, perché il tema della caduta dell'umanità che perde il “paradiso” (e dunque la possibilità di salvarsi) mi sembra rappresentare meglio il momento storico che stiamo attraversando.
Dall'inizio della Trilogia sono passati dieci anni. Se penso ai cambiamenti che ci sono stati a livello sociale e politico, mi sembra che ci sia poco da stare allegri. La speranza di cambiamento che mi aveva spinto dal 2009 è stata tradita.
Lo spettacolo, per me, rispecchia il clima che si respira oggi nel nostro paese, ma non solo: le destre estreme che stanno emergendo a livello mondiale ci indicano che stiamo di nuovo “cadendo” in un'epoca nera. Non siamo più nel tempo della speranza, è arrivata l'ora di agire il cambiamento prima che sia troppo tardi.
A questo proposito, relativamente alla traduzioni di immaginari diversi, quale ruolo vedi per il teatro?
La cosa che trovo interessante, è che il mito è un percorso fatto non tanto di parole, ma di una concatenazione di simboli.
E questo, in termini teatrali, mi è sembrato in linea con i linguaggi del teatro visuale di cui mi occupo, quindi ho cercato di concentrarmi su una narrazione che procede per immagini e che, di conseguenza, rimane più aperta agli occhi del pubblico e meno lineare.
D'altra parte, come in tutti gli altri spettacoli, la scelta della storia diventa un punto di partenza, un pretesto, per parlare di qualcosa che ci riguarda da vicino, che riguarda l'oggi e la nostra possibilità di cambiarlo.