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 Il senso della vita di Emma

 

Teatro Duse 6 -11 febbraio 2018

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Volendo essere troppe cose finisce per essere niente. Epopea in toni leggeri sulla famiglia e i suoi drammi; indagine elaborata sull'identità a multipli livelli; ampia riflessione su usi e costumi; analisi disincantata dei rapporti di coppia. Così lo stile e il tono spesso oscillante e non definito. Pecca per troppa ambizione, anche se lascia molti spunti di riflessione: finale consolatorio.

La cornice. Ѐ tutto dentro una cornice. Il senso di una vita e la storia che racconta, in un’immagine che dialoga con la presenza e l’assenza. Emma non si trova più. Intorno a lei e alla sua famiglia passa la storia di un periodo della nostra Italia, dai sogni sessantottini di ribellione al desiderio rassicurante di tradizione. Per chi sognava Pratolini e gode ora della sanità pubblica. Paravidino mi uccide. Mi uccide la capacità che ha di farmi alternare lacrime e risate. Un luna park di tre ore, una discoteca di sentimenti, quando la malinconia sottende sempre una sana follia.

Spesso guardare uno spettacolo di Paravidino è come sfogliare un quaderno di appunti in cui i concetti si mostrano sparpagliati con foga nella loro diretta nudità, senza essere veicolati da simboli o metafore.

Così accade ne Il senso della vita di Emma: la pluralità dell’individuo e le narrazioni che ne costituiscono l’identità; l’opera d’arte separata dalla vita,  la consapevolezza che se ne ha, il suo valore estetico ed economico; la crisi della Sinistra italiana dagli anni ’70, stirata tra Compromesso storico e Brigate Rosse, agli anni ’90, ammalata e ammaliata dal berlusconismo, sono spunti spesso non messi in scena visivamente, ma affidati a dialoghi concitati o a tirate antinaturalistiche da teatro classico o shakespeariano.

La sovrabbondanza verbale e la varietà degli stimoli sono armi interessanti e hanno il doppio taglio: nel caso de Il senso della vita di Emma, rendono tanto elastica e curiosa la prima parte, quanto sfilacciata e ridondante la seconda – con riferimento particolare al finale in galleria.   

In uno stile che ricorda le grandi narrazioni cinematografiche sulla storia italiana (da Novecento alla più recente La meglio gioventù), Fausto Paravidino cerca di tratteggiare in modo dapprima avvincente e poi sempre più approssimativo e confusionario la storia di vite famigliari che si rispecchiano in un’assenza: quella di Emma, geroglifico irrisolto, affascinante come lo sono sempre le vite degli altri viste dall’esterno. E sarà proprio nel confronto finale, con la sua fisica apparizione, che quest’enigmatica figura si consegnerà allo sguardo degli altri, confessando la propria reale incapacità di vedersi, concepirsi. La morale scandita fin troppo sdolcinatamente nel finale è di come sia lo sguardo esterno - e in questo senso quindi teatrale - a determinarci in quanto incroci di storie. Rimane il senso però di un’aspettativa delusa, la sensazione di un lungo, carnevalesco cammino che non svela luoghi nuovi (sebbene fatti desiderare).

Non mi interessa la lunghezza di questo spettacolo, ma il suo squilibrio. Non il tentativo di costruzione di un senso della storia - non solo di quella di Emma -, ma l’ostentata superficialità - sarebbe meglio definirla “rapidità” - con cui si sfiorano temi, viaggi, luoghi, episodi, un approccio narrativo che cerca la caotica spontaneità della vita quotidiana tramite l’equivalenza di peso data ai momenti chiave della vicenda e a quelli più marginali e periferici, rifiutando anarchicamente ogni regola drammaturgica.

Quello che mi interessa osservare è che, in fondo, il senso della vita di Emma sia stato semplicemente frainteso per tutto il tempo dagli interpreti, dagli spettatori, dall’evoluzione stessa della storia.

L’ingresso in scena di Emma, negli ultimi minuti della vicenda, è la rappresentazione di una storia che toglie il mistero del quadro e che, pur sposando l’artificio teatrale della finzione, rifiuta autorevolmente l’artificio stesso dell’ancestrale meccanismo suspense-svelamento: il suo senso non dà senso al resto, non spiega, non brucia, non chiarisce.

E delude, io credo volutamente, nell’unico possibile colpo di scena accettabile alla fine di questo spettacolo: il “non-colpo di scena”, ovvero la realtà, piena di risposte normali, lacunose, senza un senso vero.

Insomma, Paravidino fa quello che si insegna tassativamente a non fare nelle scuole di teatro, vietatissimo nei manuali di drammaturgia o sceneggiatura: non mantiene le sue stesse promesse ed è difficile non pensare che il suo sia un atto politico e drammaturgico insieme, inserito nell’alveo di una ricerca che negli ultimi anni lo sta portando a forzare meccanismi e sfidare pericolose assuefazioni del pubblico.

oca, oche, critica teatrale
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