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 Dr. Nest

 

Teatro della Tosse 11 - 14 marzo 2018

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La compagnia tedesca Familie Flöz onora il pubblico genovese portando alla Tosse - dove sono decisamente di casa - Dr. Nest, una nuova produzione che ha debuttato a Stoccarda e Berlino meno di un mese fa. L’ispirazione di partenza è quella degli appunti del neurologo inglese Oliver Sacks sui propri casi clinici - fonte di un celebre film americano degli anni ‘90, Risvegli, con il quale peraltro non mancano analogie di contenuto - e si realizza in un’analisi delicata, amara e divertita insieme delle fragilità umane attraverso l’ancestrale rapporto che lega chi è malato e chi cura e, più in generale, attraverso il concetto di salute mentale e malattia.

Come il protagonista di Dr Nest cura con la comprensione e l'empatia i suoi pazienti, così Familie Flöz allestisce uno spettacolo terapeutico all'insegna della comunicazione non verbale usando magicamente la recitazione muta delle maschere e dei corpi, coadiuvati da musica e suoni. Sfumando i confini tra malattia e sanità, paziente e dottore, ci ritroviamo al centro di una realtà spesso immaginata, proiezione di desideri e paure, dove ogni cosa è in bilico tra il comico e il tragico. La splendida sequenza onirica del prefinale lascia la sensazione di uno spettacolo poetico e sensibile, forse un po' troppo lungo e con qualche sbavatura di ritmo.

Il suono frainteso del theremin, cuore della delicata colonna sonora di Fabian Kalbitzer, è una forte presenza sonora in scena. Forse perché il theremin si suona senza essere toccato, così come le maschere di Familie Flöz “parlano” senza emettere una sola parola.

Il linguaggio del corpo è onesto, chiarissimo; la scenografia è affascinante e cangiante - di Felix Nolze e Rotes Pferde -, con pareti mobili che decostruiscono e ricostruiscono gli ambienti fisici e mentali del protagonista.
Peccato per le proiezioni che limitano l’orizzonte immaginativo del pubblico, segno che, nel processo creativo di questo Dr. Nest, la ricerca dell’effetto ha forse avuto il sopravvento sull’effetto stesso. La prevedibilità di alcuni elementi della trama, inoltre, ha rappresentato l’ostacolo principale a quella magia che l’orchestra di corpi poetici della Familie Flöz di solito riesce a evocare.

Lo spettacolo è rassicurante, riempie i cuori di chi cerca semplicità e bellezza e forse sull’altare di quest’estetica sacrifica quella parte della platea che è a caccia di conflitti più ostici, di moti dell’anima, di rivoluzioni.

Di fronte a Dr. Nest, la sensazione è quella di trovarsi al cospetto di un ricordo o di un sogno.

In parte la sensazione è giustificata dal pretesto della narrazione: internato in un imprecisato manicomio, Nest torna con la mente a quando, in quello stesso manicomio, entrò nelle vesti di dottore. Il racconto si svolge in maniera ordinata e lineare, quasi scontata, evidenziando prima la simpatia, poi la complicità e infine la comunione indistinguibile tra lui e i suoi pazienti.

A essere recuperata non è dunque la sintassi oscura del ricordo o del sogno, ma il loro linguaggio: slegandosi dall’uso della parola, lo spettacolo prodotto da Familie Flöz costruisce una drammaturgia dell’implicito a partire dai gesti e dalle posizioni degli attori sulla scena, tracce solitamente registrate in maniera inconsapevole e ora portate come unico mezzo di interpretazione possibile a un pubblico sfidato unilateralmente.

Non so se sia stata la febbricitante ed eccessiva smania di applaudire fin dai primi secondi dello spettacolo di un pubblico evidentemente già preparato e disposto ad amarli incondizionatamente; o se sia stata anche l’introduzione brusca e quasi goffa che dalla platea prende ritmi e forme sul palco a luci in sala ancora accese; o se sia stato il tema abusato degli ospedali psichiatrici come luoghi di abbrutimento in cui solo illuminati Dottor Nest possono avverare miracoli (benché abbia apprezzato la svolta narrativa data dalla sua stessa “trasformazione”: è una sconfitta la sua? Sembra che la bellezza da lui realizzata maieuticamente non sappia strapparsi all’ineluttabile malinconia del luogo). Non so quale di questi elementi mi abbia “allontanata”, eppure mi sono sentita tenuta in disparte, ad ammirare un ingranaggio scenico ben oliato e attori incredibili nelle caratterizzazioni fisiche dei personaggi ma che - nonostante le risate insistite abbiano testimoniato tutt’altro - non mi hanno “parlato”.

Ripenso alla pantomima, a quest’arte sottile e potente, in cui l’affiatamento manifesto con il pubblico è parte integrante della narrazione: e non capisco cosa, in modo così prepotente, mi abbia distratta e bandita.

Attraverso le maschere che si animano sui volti degli attori emergono l’umanità e il dramma dei personaggi, quest’ultimo amplificato dall’intervento della musica: il ricorrere del suono ipnotico del theremin, in particolare, sembra dare voce all’atmosfera che si respira nella casa di cura. Gesto, movimento, mimica e musica rappresentano la vera e propria sostanza drammaturgica di uno spettacolo capace di raccontare una storia senza il supporto di un testo e di farlo con una profondità e una potenza rare. La compagnia tedesca sembra averci dato un saggio di quanto possa rivelarsi superfluo il linguaggio se si è in grado di costruire una macchina ben congegnata dal punto di vista dei tempi teatrali e ben oliata nei suoi meccanismi. Questo aspetto può avere avuto una parte nelle risate intermittenti e un po’ “sgangherate” del pubblico: reazione non proporzionale a uno spettacolo che punta a farci sorridere più che ridere, rivestendo il tragico di un’aura di leggerezza. È attraverso questa lente che Dr. Nest mette a fuoco il tema del sottile confine che divide la follia dalla salute mentale, quando il camice, inteso come elemento distintivo del medico rispetto al paziente, è oggetto di continuo scambio fra gli attori, che si cimentano in una sorta di balletto.

oca, oche, critica teatrale
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