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  • Matteo Valentini

Stories We Dance 2020 - L'O.C.A. ci mette il becco

Anche quest’anno l’O.C.A. ha seguito con passione e riconoscenza la rassegna Stories We Dance curata dall’associazione Augenblick, ultima tappa di Fuori Formato 2020. Per certi versi guardare i sette film finalisti dal divano di casa non è stato facile - la nostra connessione e i nostri dispositivi ci hanno dato non pochi problemi - e nemmeno emozionante come al solito - niente proiezione al cinema implica niente “mezza sala” e niente votazione cartacea del pubblico. Ma lasciamo da parte gli ostacoli e i crucci antidiluviani e iniziamo a parlare dei film.



Do I have to build something starting from the white? (2019) è un film di tre giovani artiste sarde, Giulia Camba, Mimì Enna, Vittoria Soddu. Il corto nasce all’interno del progetto Fuorimargine, che sollecita giovani danzatori, musicisti e filmmakers alla ricerca di nuovi metodi per approcciare le pratiche performative, ed è girato negli spazi di “Sa Manifattura”, a Cagliari, una ex-fabbrica di tabacchi eretta alla fine del ‘700, chiusa nel 2001 e riconvertita negli ultimi anni in centro creativo e culturale. Il corto veicola effettivamente una ricerca senza conclusione, un’interrogazione che non prevede una risposta definitiva. I piani sequenza, di cui il corto è costituito quasi interamente, il moto ondulatorio della camera a mano e i movimenti ispirati alla contact improvisation danno la chiara percezione del flusso di indagine fisica e teorica in cui gli artisti si sono inseriti durante la loro residenza all’interno di “Sa Manifattura”. La sequenza finale, l’unica a inquadratura fissa, testimonia questa tensione poetica di costruzione e sfaldamento di qualcosa, con i dieci danzatori che, affastellandosi gli uni sugli altri, danno vita a una sorta di rampicante umano nell’atto di scalare un muro bianco. Per il suo legame radicale con le esperienze sviluppate durante la residenza, il corto non può o non intende svincolarsi dalla natura di “restituzione di un lavoro” e dall’entusiasmo della testimonianza: per questo, nonostante l’interesse e la fascinazione che suscita, lascia in chi guarda la sensazione di non poter afferrare pienamente la bellezza di quello che viene trasmesso e, soprattutto, di quello che è stato.




La sola presenza tra i sette finalisti di DONT KNOW WHAT (2019) di Thomas Renoldner rende necessario interrogarsi sui confini estetici della videodanza: in che cosa consiste un’opera di videodanza? In cosa si differenzia da un video di documentazione, da un video d’artista, da un film sperimentale? La questione è senz’altro primordiale, e solitamente vi si risponde dicendo che, in quanto settore artistico intermediale, la videodanza riunisce in sé i caratteri del cinema e quelli della danza, sottolineandone i rispettivi elementi linguistici, materiali e stilistici. Guardando DONT KNOW WHAT, a tutta prima fatichiamo a individuare le prerogative della danza che Thomas Renoldner ha adottato nel suo film, la cui struttura è all’incirca questa: un’inquadratura fissa riporta il mezzobusto del filmmaker austriaco, che afferma “I don’t know what I’m doing”; l’inquadratura si allarga e viene ripreso anche il piano del tavolo a cui è seduto: “I’m just experimenting”, dice; l’inquadratura si allarga ancora, vengono ripresi interamente sia il tavolo sia Renoldner, che si alza, ribalta con garbo il tavolo, lo sistema nell’angolo sinistro dell’inquadratura, esclama “I have no idea what the result might be!” ed esce di scena, trascinando con sé la sedia su cui stava fino a poco prima.

La coreografia, apparentemente assente in questa sequenza di azioni del tutto quotidiane, si sviluppa a partire dall’operazione di montaggio, che taglia i gesti, i movimenti, le espressioni facciali, i suoni verbali e non verbali prodotti dal regista, li assembla, li reitera, li velocizza, generando una composizione di suoni e immagini indipendente dal contesto in cui si è generata. Un gesto semplice come sbattere le palpebre, se ripetuto, frazionato o amplificato, smette di appartenere al quotidiano, si astrae dalla contingenza ed entra nel performativo. Grazie a questo legame esclusivo con lo strumento basilare del cinema (il montaggio) e della danza (il corpo), DONT KNOW WHAT può essere visto come un’opera seminale della videodanza.




A ogni edizione di Stories We Dance in cui sono state incluse, Marlene Millar e Sandy Silva hanno conquistato almeno un premio. Accadde nel 2016 con Lay Me Low (2015), che si aggiudicò il premio per la Miglior Coreografia. Si ripeté l’anno successivo, quando Pilgrimage (2017) vinse il premio per la Miglior Coreografia, quello per il Miglior Performer e quello del pubblico. Premio, quest’ultimo, che nell’edizione di quest’anno va a Navigation (2020) assieme a quello per il Miglior Film. Le tre opere fanno parte del “Migration Dance Film Project”, una serie di otto brevi film che riportano “the beauty and complexity of transformative journeys”: i performer, assieme a un gruppo di abitanti del luogo scelto per le riprese, si esibiscono in coreografie corali secondo lo stile della percussive dance, in cui gli elementi caratteristici sono il suono frammisto di schiocchi di dita e di mani che battono sul corpo e gli ampi gesti rotatori. In Navigation, girato nella regione irlandese del Burren, un coro locale accompagna la danza con Limestone Archie, creando uno spazio sonoro perfettamente accordato all’ipnotico intrico di grikes e clints (formazioni calcaree tipiche del Burren) che le riprese dall’alto di Marlene Millar fondono con il movimento dei performer. L’uomo è tutt’uno col terreno che percorre, abita e agisce: questo sembrano dire le intersezioni di elementi umani, sonori e geomorfologici ricercate dalla regista canadese.

Nella sequenza finale, le tre strofe tratte da Mo Ghile Mear, che cantano il lutto della perdita e della partenza, sottolineano struggentemente questo legame intrinseco tra corpo e terra:


Lui è il mio eroe, il mio affascinante amore,

lui è il mio Cesare, il mio amore,

non ho trovato né pace né fortuna

da quando il mio amore è partito.

Ogni giorno sono costantemente triste

e verso amare e copiose lacrime

poiché il mio amore pieno di vita se n’è andato

e, ahimè, non ricevo nessuna sua notizia.

Lui è il mio eroe, il mio affascinante amore,

lui è il mio Cesare, il mio amore,

non ho trovato né pace né fortuna

da quando il mio amore è partito.


Le parole di Mo Ghile Mear, che seguono la corsa scomposta dei danzatori, interrotta bruscamente sull’orlo della costa, indicano che il film probabilmente non cerca di rendere conto tanto del “diritto delle donne e degli uomini a spostarsi”, come affermato nella motivazione della giuria al premio, quanto piuttosto dell’angoscia di chi decide o è costretto a restare in una patria brulla, asciutta e avara, aspettando le notizie o il ritorno vittorioso di chi è riuscito a partire. Onestamente, trovo molto complesso esprimere un giudizio uniforme su questo film: la melodia e il ritmo del canto, il nitore della fotografia, la precisione e la grazia dei movimenti di macchina e dei danzatori contribuiscono, insieme, a generare un’opera dal forte impatto sensoriale ed emotivo; tuttavia, proprio questa estrema accuratezza formale, con caratteri ricorrenti nei film presentati nelle diverse edizioni di Stories We Dance (uno su tutti: l’inquadratura leggermente rialzata , in campo lungo, della schiera dei performer in movimento sulla stradina di una campagna ampia e vuota), restituisce la sensazione di trovarsi davanti a uno stile cinematografico e coreografico collaudatissimo, molto apprezzato dal selezionato pubblico internazionale della videodanza, ma non del tutto in grado di portare avanti un discorso etico ed estetico sull’oggetto di cui intende occuparsi, cosa che invece riesce perfettamente a Ludvine Large-Besset con il suo Regained Bathers (2019).


Partendo da una scena ispirata al dipinto di Félix Vallotton, Trois femmes et une petite fille jouant dans l'eau (1905), la regista francese mette in discussione un tema secolare della pittura moderna e contemporanea, quello delle bagnanti, contestando non tanto l’oggetto della rappresentazione, quanto il dispositivo che lo rappresenta e lo sguardo che lo contempla.

Se nel dipinto di Vallotton è una bambina a scompaginare la compostezza delle tre bagnanti, che si coprono o si schermano l’un l’altra, a farlo, nel corto di Large-Besset, è una quarta donna, appena emersa dall’acqua, che desta timore misto a curiosità nel gruppo che, pudibondo, lentamente si inabissa lasciando fuori solo le teste. La nuova arrivata non smette per questo di destabilizzare i sentimenti alteri delle tre bagnanti e, con questo, l’ordine della rappresentazione. Dopo aver evitato di farsi includere nell’armonia preesistente, essa guarda in direzione di noi osservatori e palesa la nostra presenza, spingendo anche le altre a osservarci e a decidere se mostrare o meno i loro corpi nudi. A questo punto, tutte insieme, le bagnanti iniziano a tastare il cielo crepuscolare che fa loro da sfondo, per poi cercare di tirarlo con sempre maggior forza fino a strapparlo via: il cielo non è altro che una tenda messa lì a coprire una ringhiera di acciaio e ora, senza di lui, la piscina in cui si trovano le bagnanti è immersa nella notte. Da questo momento non solo le protagoniste smettono le pose ieratiche che le hanno caratterizzate finora, iniziando a nuotare, danzare e giocare nell’acqua, ma l’atteggiamento della camera cambia radicalmente: l’inquadratura non è più fissa, a imitazione del dipinto di Félix Vallotton, ma si muove furiosamente, cattura stralci di movimenti, schizzi d’acqua, figure sfocate, emancipa i corpi della bagnanti dal modo tradizionale di disporli nello spazio, di osservarli e di considerarli, per proporne uno inedito in cui a essere guardato non è più l’immobile nudità femminile, ma la sua espressione dinamica nello spazio.




Già a partire dal titolo, We Are Ready Now (2020), il regista britannico Jack Thomson sembra voler richiamare quella che il filosofo Byung-Chul Han, riferendosi alla nostra contemporaneità, chiama “società performativa”. Su una pista d’atletica immersa nel buio, alcuni performer corrono, annaspano, si abbracciano, camminano per mano, certi indossano un impermeabile, altri solo biancheria intima: il montaggio, il rewind, il fast motion contribuiscono a mischiare le varie personalità e ad aumentare la sensazione che esse stiano inconsapevolmente gareggiando per qualcosa di non definito o che stiano correndo per la necessità sorda di andare veloce fino a un traguardo che, se c’è, non viene mai inquadrato. La forma ovale della pista di atletica può anche suggerire l’inesistenza di un obiettivo della corsa, che in questo caso ritornerebbe incessantemente su se stessa, realizzando la sterilità delle sfiancanti occupazioni “24/7/365” che caratterizzano la società della performance, positiva, insonne, trasparente. L’estrema brevità del video non consente di proporre per We Are Ready Now letture diverse da questa, magari capaci di estrapolarne temi e obiettivi meno triti e scontati.




La natura di Train Train è eccentrica rispetto a quella degli altri video in concorso: l’opera di Benjamin Seroussi, infatti, è il videoclip dell’omonima composizione del pianista Koki Nakano e, in quanto tale, mantiene un rapporto del tutto differente con la musica, come se ne fosse determinato. La camera sembra percorrere le finestre della colossale Torre Pleyel, a Saint Denis, come incalzata dal ritmo della composizione, che investe anche gli schizofrenici movimenti del danzatore ateniese Aimilios Arapoglou, per i quali il coreografo Damien Jalet ha dichiarato di essersi ispirato a quelli del vagabondo di Dodes'ka-den (1970) di Akira Kurosawa che, in una Tokyo post-apocalittica, sogna a occhi aperti di diventare il macchinista di un treno immaginario. Di fronte agli accenti travolgenti della musica di Nakano, la danza di Arapoglou è l’espressione di un’inevitabilità all’interno di un contenitore razionalista: un ossimoro in cui anche lo spettatore si sente interamente coinvolto.



One day whilst on the bus during the morning rush hour in Santiago, I was inspired to make a video with a lot of people in a limited space, considering my previous work was about big spaces and few performers”: già dalle parole del regista Patricio-Soto Aguilar emerge la natura sperimentale di Próximos (2019). Sperimentale nel senso più proprio del termine, non necessariamente avanguardistico: voler scoprire quale risultato si ottiene cambiando le usuali condizioni di una certa operazione. Una specie di opera a tesi. Il risultato, in linea generale, è suggestivo: una comunità di danzatori lentamente si crea all’interno di un parallelepipedo illuminato da neon blu, aumenta di numero, interagisce in modo sempre più fitto, si affievolisce e infine si affloscia addormentata al suolo. Nonostante le premesse, tuttavia, per l’intera durata del video non è chiaro se si stia assistendo a una sperimentazione formale o alla messa in scena danzata di una qualche narrazione: infatti, i performer, sotto la direzione coreografica di Marco Orellana, a volte sono impegnati in movimenti che sembrano del tutto tesi a evidenziare le proprie caratteristiche fisiche in rapporto alle specificità morfologiche dello spazio in cui si trovano (a livello sonoro, l’attenzione è attratta soprattutto dal rumore che producono le scarpe sulla griglia di metallo che ricopre il pavimento), altre volte li vediamo inscenare scontri accesi, momenti di inquietudine o di sottomissione. Sono misteriose la necessità e la natura di questi sporadici elementi narrativi, che allentano la concentrazione dello spettatore e lo allontanano dalla comprensione dell’origine e della manifestazione finale del risultato che si supponeva atteso.





Film finalisti di Stories We Dance


Do I have to build something starting from the white?, Giulia Camba, Mimì Enna, Vittoria Soddu, Italy 2019, 9’ 30’’


DONT KNOW WHAT, Thomas Renoldner, Austria 2019, 8’


Navigation, Marlene Millar, Canada/Ireland 2020, 13’


Proximos, Patricio Soto-Aguilar, Chile 2019, 12’ 40’’


Regained Bathers, Ludivine Large-Bessette, France 2019, 12’ 45’’


Train-Train, Benjamin Seroussi, France 2020, 3’ 06’’


We Are Ready Now, Jack Thomson, UK 2019, 1’ 37"

oca, oche, critica teatrale
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