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  • Roberta Nuzzo

Il castello di Kenilworth | Opere minori da riscoprire


Ho voluto qui di seguito recensire il dvd de “Il castello di Kenilworth”, opera minore di Gaetano Donizetti, riscoperta (e registrata) l’anno scorso al Festival Donizetti di Bergamo.

Quello che un appassionato di opera e cultore del Belcanto ricerca e pretende da un festival internazionale dedicato alla produzione di un singolo compositore consta di due aspetti: il primo, apparentemente più semplice, è di proporre opere già conosciute e presenti in tanti altri cartelloni con le produzioni migliori del momento; il secondo, di gran lunga più impegnativo, consiste nel ripescare opere minori, sparite per decenni, se non secoli, che si rivelano essere, nei casi più fortunati, anche veri e propri capolavori. Quando viene riproposta un’opera già famosa, il nostro appassionato cerca nuove letture, nuove sfumature attraverso l’interpretazione di un artista in scena, delle indicazioni di un nuovo regista e di un direttore d’orchestra che vede nella partitura nuovi spunti. Nel caso di un repêchage, invece, si rivive l’emozione di una vera prima assoluta: non ci sono (o quasi) possibili riferimenti ad incisioni precedenti, altre interpretazioni, altri cantanti. È tutto nuovo.

Il castello di Kenilworth

Nel nostro caso, siamo di fronte alla prima discografica assoluta, firmata Dynamic, della prima versione dell’opera “Il castello di Kenilworth” che riprende le recite del Festival Donizetti di Bergamo del novembre 2018.

Quest’opera, messa in musica dal compositore Gaetano Donizetti (Bergamo 1797- Bergamo 1848) su libretto di Andrea Leone Tottola, fu rappresentata la prima volta al teatro San Carlo il 6 luglio 1829, anno in cui Donizetti assunse l’incarico di direttore dei Teatri di Napoli, fino a poco tempo prima ricoperto da Gioachino Rossini. Il passaggio di testimone con l’amatissimo pesarese non fu cosa facile per Donizetti per tanti aspetti, primo fra tutti il fatto che pochi anni prima era stata rappresentata l’Elisabetta, regina d’Inghilterra, opera rossiniana molto amata dal pubblico partenopeo e di argomento analogo.

L’aspra critica del tempo costrinse Donizetti ad apportare alcune modifiche alla partitura. Nacque così la nuova versione intitolata Elisabetta al castello di Kenilworth, andata in scena quasi un anno dopo sempre al San Carlo ma poi destinata a sparire per quasi un secolo e mezzo.

In questo particolare allestimento, la storia è ambientata unicamente nel castello di Kenilworth, che diventa prigione e labirinto di ogni personaggio in gioco. Le scene, piuttosto spoglie e minimaliste, hanno come protagonisti pochi elementi. Una costante è data da un piano inclinato verso il pubblico, fatto a scacchiera, proprio a indicare che sul palco ci si muove come pedine di una vicenda più grande. Prima fra tutti, la sventurata Amelia, sposa segreta del Conte Leicester e vittima dell’umiliazione e l’abbandono del proprio marito in favore della regina Elisabetta I d’Inghilterra, invaghita di lui, nella quale Leicester vede la possibilità di arrivare al trono. Interpretata dal soprano Carmela Remigio, Amelia diventa il personaggio più umano. La grandezza di quest’artista, secondo me, sta nel fatto che già dal solo ascolto, viene percepita la sua sofferenza: ogni respiro serve a dare rotondità e realismo. Dopo aver finalmente compreso che le attenzioni del marito sono state tutte rivolte alla regina, il dolore per aver perso l’uomo amato la spingerà alla pazzia nella celebre aria “Par che mi dica ancora” che qui (come in origine doveva essere) viene eccezionalmente accompagnata dalla glassarmonica, strumento rarissimo da ascoltare oggi, composto da una serie di bicchieri riempiti con diversi livelli di acqua che, grazie alla frizione delle dita, producono note.

La sua scena della pazzia non è costruita, non ha nulla di artefatto. È, viceversa, carica di espressività, di quell’umana sofferenza che vede riflessa sul tavolo in vetro, dopo aver strappato via il drappo di velluto rosso, simbolo della regina. Si trova anche stretta nella perfidia di Warney, interpretato da Stefan Pop, viscido fedele del conte, innamorato di lei e continuamente rifiutato. Per sottolineare la doppiezza di Warney, la regista spagnola Maria Pilar Pérez Aspa ha voluto qui dotarlo di un crocifisso che nasconde in realtà un affilato coltello: sa essere persuasivo e ammaliante mentre cerca di convincere Amelia a diventare sua (si noti la partecipazione nel giurarle “Saprò morir per te") e, subito dopo, fiero e vendicativo al suo ennesimo rifiuto. Lo sforzo di rendere in scena un uomo così sfaccettato è stato affrontato dal tenore rumeno in modo divino, sia attorialmente sia vocalmente: all’inizio del primo atto, nel duetto con Amelia ha saputo vincere questa sfida grazie a un fraseggio perfettamente bilanciato e un timbro omogeneo e scuro, vicino a quello di un baritenore (vale a dire un tenore dalla tessitura molto grave, per molti aspetti “vicino” a un baritono).

Tutto ciò lo ha messo in contrasto con un un’altra figura: il Conte Leicester, interpretato dal giovanissimo Xabier Anduaga. A lui spettava l’arduo compito di cantare una parte che originariamente era stata composta per Giovanni David, tenore capace di vere e proprie acrobazie nel registro acuto e di una coloratura impeccabile. La sua cavatina (cioè, l’aria d’entrata del personaggio, spesso ricca di difficoltà per definizione) ne è un esempio. Qui è stata risolta in maniera eccellente grazie a una solida tecnica supportata da una voce limpida e squillante, capace di acuti sempre ben impostati, anche al termine di spericolate variazioni.

Ad interpretare Elisabetta troviamo Jessica Pratt, uno dei soprani più acclamati del momento. Ha le phisique du role per cantare spesso nei panni di una regina: la contraddistingue una naturale aristocrazia nel portamento e nella voce.

Sulle parole «​Vedrai come su l’empio il fulmine dell’ira mia cadrà!» e durante il quartetto che chiude l’atto II - definito da Ashbrook «la pagina migliore della partitura» - fa tremare anche il pubblico, ansioso di capire fino a che punto arriverà la sua giusta furia. Allo stesso tempo è capace di manifestare l’essere donna in molte altre sfumature, come la paura di essere stata raggirata, di aver frainteso un finto amore, di sentirsi sola. È proprio nel recitativo “Son sola… o miei sospiri” che si lascia andare a un ritratto incredibilmente variegato dell’animo umano: la voce cambia, si plasma e diventa veicolo di una forte emozione.

Tutto questo non sarebbe stato possibile senza un direttore d’orchestra da manuale, Riccardo Frizza, già direttore musicale del Festival Donizetti, sempre attento a valorizzare le voci, la partitura e a dar voce al pensiero del compositore.

Al termine dell’opera, in barba al vero finale drammatico (e forse troppo romantico per essere compreso all’epoca) del romanzo di Walter Scott da cui è tratta la vicenda, la regina perdonerà Leicester e lo unirà pubblicamente ad Amelia, dando il via ad un lieto fine, scarico di prospettive. Una grande soluzione della regia è stata quella di ergere la griglia che stava sopra il pavimento inclinato e dividere così la regina dal resto del gruppo, come a rendere prigioniera lei o gli altri o tutti quanti in questo castello maledetto.

Pregi: riscoprire un’opera minore dimenticata, eseguita con un cast stellare.

Limiti: nessuno.

Qui di seguito un breve approfondimento sul significato di alcuni termini tecnici.

Per fraseggio s’intende il recitar cantando: dare tridimensionalità alla parola mentre la si canta, far intendere il significato di quanto si sta dicendo. È altra cosa rispetto alla dizione: un cantante può far percepire a chi lo ascolta ogni singola parola ma non trasmettere il giusto significato di quanto sta dicendo.

La tessitura è la parte di pentagramma in cui si concentra la maggior parte delle note che il cantante esegue meglio e con più facilità. Non è da confondere con l’estensione che è invece la gamma completa di note, dalla più grave alla più acuta, che un cantante riesce a eseguire. Per fare un esempio, un tenore può avere la capacità di cantare note anche molto gravi ma non le eseguirà mai facilmente come un baritono o un basso.

Per coloratura s’intende un passo virtuosistico della melodia: una serie di note anche molto lunga da cantare piuttosto velocemente.

Registrato 24/30 Novembre, 2 Dicembre 2018.

Melodramma di Andrea Leone Tottola

Musica di Gaetano Donizetti

Prima rappresentazione: Napoli, Teatro San Carlo, 6 luglio 1829. Revisione sull’autografo a cura di Giovanni Schiavotti Fondazione Donizetti

Elisabetta, Jessica Pratt

Amelia, Carmela Remigio

Leicester, Xabier Anduaga

Warney, Stefan Pop

Lambourne, Dario Russo

Fanny, Federica Vitali

Direttore: Riccardo Frizza

Regia: Maria Pilar Pérez Aspa

Scene: Angelo Sala

Costumi: Ursula Patzak

Lighting design: Fiammetta Baldiserri

Assistente alla regia: Federico Bertolani

Orchestra Donizetti Opera

Coro Donizetti Opera

Maestro del coro Fabio Tartari

Nuovo allestimento e produzione della Fondazione Teatro Donizetti

oca, oche, critica teatrale
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