La redazione dell'Oca al gran completo è tornata al teatro Dialma di La Spezia per vedere Twittering machine del Collettivo ADA, vincitore del premio Pim Off per il Teatro Contemporaneo ‘20. La visione è stata divisiva, ma i pareri non andavano a comporre il nostro solito foie gras: gli ingredienti erano disuniti, non riuscivamo ad approdare a una visione d’insieme che fosse sintesi dei diversi sguardi, un po’ come quando sei davanti al menù del ristorante e non sai proprio se ordinare un’oca arrosto, tipicamente marchigiana, con le patate e magari ripiena, o se la preferiresti nella versione toscana, in umido, con la verza e le castagne. Alla fine ti decidi, prendi quella in umido perché alle castagne non sai dir di no e chiedi al tuo fidanzato di ordinare quella arrosto, così almeno, "visto che incuriosisce anche te, assaggiamo entrambi i piatti”. Abbiamo quindi deciso di servirvi due recensioni dai sapori tra loro molto contrastanti, decidete voi quale voce ascoltare: un perché sì e un perché no dovreste recuperare questo spettacolo.
Perchè no | A cura di Eva Olcese
Se per Jerzy Grotowski lo spettatore dovrebbe essere testimone dello spettacolo, sabato 26 febbraio sono stata una pessima spettatrice. Mentre il ritmo di quanto accadeva in scena mi sembrava non cambiare mai, io sono rimasta fuori, lontana da quel che avveniva sul palco, affondata nel nonsense, incapace di testimoniare alcunché.
Il tema principale di Twittering machine potrebbe essere riassunto nel fastidio del protagonista di veder sfumare la tanto agognata uscita anticipata del venerdì.
Una luce bianca illumina il palco vuoto, attraversato qualche secondo dopo da un uomo vestito di nero. L’attore si trascina dietro l’asta di un microfono. La drammaturgia di Pasquale Passaretti pesca a piene mani da un dramma quotidiano: vivere una vita di azioni e frasi ripetute, lavorare in attesa del venerdì, essere acriticamente immersi nei fiumi di parole e immagini che i social ci propongono continuamente. La recitazione è secca e la voce dell’attore (e drammaturgo), inizialmente molto flebile, sembra quasi che si faccia attraversare dalle parole. I post che legge sembrerebbero assurdi se già non li avessimo visti su bacheche di conoscenti e amici. È un uomo destrutturato, quello messo in scena dal Collettivo Ada, malinconico e meschino, non prova compassione per il suicidio appena avvenuto sul proprio posto di lavoro, ma riesce soltanto a vedere l’altrui meschinità, nei cinguettii e nei garriti di Facebook.
La videoart di Loredana Antonelli – fatta di linee, poligoni di luce e animazioni che sembrano quasi le fantasmagorie di una lanterna magica – lo attraversa, così come fanno le voci degli audio, a cui si sostituisce poi il continuo brusio dei social. La stessa drammaturgia fa del loop il suo elemento cardine: è percorsa da temi e frasi che ritornano, da dialoghi che si ripetono fino a esaurirsi. In conclusione, però, lo spettacolo mi appare come un monocorde discorso di decostruzione dell’uomo contemporaneo. Persino l’incalzante musica composta da LadyMaru può poco nel tentativo di vivacizzarne il ritmo: Twittering machine è come un file corrotto che, frammentato e frammentario, si inceppa e non si riesce a leggere per intero, ma chiede allo spettatore – senza mai riuscire a raggiungerlo davvero – di riempire i silenzi e i vuoti lasciati in scena.
Perché sì | A cura di Claudia Burzoni
Ossessione. Omologazione. Depressione. Cinismo.
Nella spasmodica ricerca di un’unica parola chiave per descrivere Twittering Machine del Collettivo ADA, sono emersi, invece, innumerevoli termini atti alla descrizione di questo spettacolo che lascia tutto, meno che indifferenti. E tutti questi vocaboli,uno la conseguenza dell’altro, costituiscono il fil rouge di un’esperienza ai limiti del coinvolgimento emotivo, dotata di una drammaturgia a regola d’arte e con momenti di videoart senza troppe pretese, ma di un’efficacia estrema.
L’ossessione è la prima cosa che si riscontra nelle azioni e nelle frasi di Pasquale Passaretti – attore e drammaturgo –, che vengono ripetute in continuazione, simbolo di una vita e di una mente logorate dallo scorrere inesorabile del tempo e dei pensieri che, per antonomasia, non lasciano minima tregua a un animo tormentato. «Ci vorrebbero le grate, come in Cina». Questo atteggiamento ossessivo è, però, sintomo di un angosciante tentativo di omologazione. La società impone certi ritmi, certe linee di pensiero che, se non seguiti, possono portare a un moderno e inquietante ostracismo: l’óstrakon di oggi equivale al defollow, all’essere bannati o bloccati, al ricevere insulti più o meno gratuiti per un’opinione mal condivisa. Per questo motivo, il protagonista si conforma alle idee e alle considerazioni social, condividendole con il pubblico alla maniera della stand-up comedy e, a tratti, come dei veri e propri mantra che, ormai, tanti ripetono a mo’ di robotici pappagalli. «Ci vorrebbero le grate, come in Cina».
E se l’omologazione non avviene nei tempi e nei modi sperati, una “buona” compagna pronta ad attenderci è la frustrazione, che spesso sfocia in vera e propria depressione. Tramite virtuosismi tecnici in campo audio e video, gli autori sono in grado di trasportarci nella mente del protagonista, una mente in cui si annidano dubbi, malumori, tormenti e immagini che non prendono una forma reale o realistica, ma che rimangono lì, a logorare la psiche, il cosiddetto “rimuginare” che non porta al ricercare una soluzione, ma soltanto allo sfinimento: tutto appare senza senso, perché ha significato solo nella mente da cui proviene il ragionamento. Lo spettatore non comprende, ed è meglio così. «Ci vorrebbero le grate, come in Cina».
É a questo punto che il cinismo, il disprezzo per qualsivoglia valore o legge morale, fa la sua comparsa. Esso è diretto discendente di quella frustrazione comparsa poco fa, è la sua “tuta mimetica”. Il protagonista, sentendosi oppresso giudicato da una società che non ammette repliche e in preda a un profondo senso di impotenza sia nei confronti del mondo esterno che del proprio, non può far altro – per salvarsi – che sfoderare le armi del disdegno, della mancanza di empatia e dell’egoismo.
Così, quando gli viene annunciato che dovrà uscire più tardi dal lavoro perché un suo collega – probabilmente ossessionato e frustrato dallo stesso vano sforzo di omologazione – si è tolto la vita gettandosi da un palazzo, lui sa solo dire: «Ci vorrebbero le grate… come in Cina.»
Visto il 26 Febbraio al Il Dialma di La Spezia (Fuoriluogo Teatro)
TWITTERING MACHINE di ADA - collettivo informale per la scena
con Pasquale Passaretti, Loredana Antonelli (live visual), Lady Maru (live music)
regia e drammaturgia Pasquale Passaretti
con il sostegno di Lunarte Festival
Premio Pim Off per il Teatro Contemporaneo ‘20
(Le immagini presenti nell'articolo sono screenshot da un video di Loredana Antonelli)
コメント