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  • Marco Gandolfi

Una mano mozzata a Spokane | Una gita allo zoo


Qualche giorno prima di assistere alla pièce di Martin McDonagh, è stata pubblicata la notizia dell'introduzione del playback a velocità raddoppiata su Netflix, commentata - più o meno unanimemente - come ennesima dimostrazione dell’horror vacui che caratterizzerebbe la nostra società digitale e iperconnessa.

Lo straordinario successo di alcune serie TV e film a tema pulp ha plasmato l'immaginario e le attese degli spettatori in modo talmente marcato da determinare le aspettative di ritmo e di esecuzione anche di una messinscena teatrale che fa riferimento a livello drammaturgico a questo universo. La velocità di esecuzione è a volte divenuta un feticcio, un obiettivo in se stesso, quasi un sinonimo di qualità dell'intrattenimento, tanto da rendere il suo opposto sinonimo di pesantezza, noia - e quindi insofferenza per lo spettatore. E questo indipendentemente dal contenuto narrativo dell’opera. Probabilmente non è un caso che contemporaneamente si sia sistematizzata la definizione di un genere dai connotati problematici come lo slow cinema, che opera nella direzione esattamente opposta.

Il problema del ritmo è un nodo che dalla forma diviene sostanza.

Una mano mozzata a Spokane può essere sommariamente descritto come una rielaborazione teatrale di tematiche e modalità pulp, rese cinematograficamente famose dai film di Quentin Tarantino, per citare solo il più famoso esempio. Quindi il filtro cinematografico di una materia narrativamente rintracciabile in un medium ulteriore: il fumetto. La trasposizione di mezzo di espressione comporta quasi sempre una mutazione anche di sostanza oltre che, ovviamente, di forma; il passaggio alla messinscena teatrale ha la capacità di porci di fronte al problema della autenticità emotiva dell'esperienza, caratteristica peculiare del teatro rispetto ad altre forme di rappresentazione.

Nel caso di Tarantino l'immaginario pulp è solo il punto di partenza per un discorso molto più complesso e ampio. Il testo di McDonagh sembra più una brillante variazione a tema, incardinata fermamente nel genere, a partire dal titolo, per arrivare all'apoteosi nella scena, tipicamente pulp, in cui una valigia piena di mani mozzate viene svuotata sul palcoscenico e queste usate per il tiro al bersaglio.

Nel caso della regia di Carlo Sciaccaluga, ritmo e recitazione puntano in una duplice direzione nello sviluppo del pezzo. La parte iniziale dello spettacolo è caratterizzata da un duplice raffreddamento: i ritmi sono sedati, la recitazione statica e funzionale, specialmente nel corpo degli attori. Ciò ingenera una sensazione di spiazzamento nello spettatore: quando la parola drammaturgica non corrisponde all'azione che si vede in scena, è naturale che nello spettatore nasca una sensazione di disagio. Questa può essere usata, a seconda delle intenzioni del regista o dell'autore, per diverse finalità.

Per esempio, nel teatro dell'assurdo questa divaricazione è usata per fare esplodere le contraddizioni della razionalità e smascherarne l'artificiosità intrinseca. In questo caso, invece, questa impostazione serve a focalizzare il materiale narrativo nella sua natura essenzialmente grottesca, ponendo contemporaneamente il problema della sua credibilità emotiva.

Metaforicamente possiamo pensare che questo cauto e raffreddato approccio serva come rincorsa per spiccare il volo verso una seconda parte che rientra nei binari usuali della modalità della commedia nera virata a pulp. Non è un caso che ciascuno dei quattro personaggi compia la sua transizione da forma stereotipata ad articolata passando da una sezione all'altra, così come il coinvolgimento emotivo del pubblico passa dall'indifferenza alla partecipazione. Che questa impostazione sia una scelta deliberata nell’architettura della messinscena o un accidente della presente recita è irrilevante in termini di analisi dei significati impliciti dello spettacolo andato in scena, ne muta semplicemente la responsabilità.

Questa forma bipartita ha la funzione di porci continuamente in bilico tra l'ingresso e l'uscita dalla sospensione di incredulità; come un'affermazione che neghi se stessa, qui si usano i dispositivi del genere pulp liberandoli dalle loro stesse catene. Le dimensioni limitate della sala aiutano in questa operazione: la prossimità del palcoscenico ci proietta all'interno della stanza in cui si sviluppa l'intera drammaturgia; la scenografia, in bilico tra l'astrazione e la concretezza, ci mantiene in una posizione privilegiata: allo stesso tempo siamo nell'azione - un letto, una porta, un termosifone è tutto quello che caratterizza la stanza di albergo in cui si sviluppa la vicenda, non ci sono muri - e fuori da essa. Ma questa oscillazione è anche connaturata al genere pulp: nella gratuita esagerazione dei propri caratteri è una dichiarazione giocosa di autocoscienza.

Certamente si ride. Specialmente nella seconda parte, viste le premesse. Andreapietro Anselmi e il suo Mervyn sono allo stesso tempo il motore comico dello spettacolo e lo sguardo esterno sulla vicenda: receptionist in un albergo di bassa categoria si fa coinvolgere molto volentieri nella ridicola trattativa per recuperare la mano mozzata del titolo, appartenente al protagonista (Denis Fontanari). Il monologo di Mervyn sullo zoo è forse il punto più alto dello spettacolo, ma l'intera modulazione di stralunata incongruità e impassibile plausibilità che Anselmi dà a qualunque svolta, per quanto assurda, della vicenda è l'epitome del rapporto tra lo spettatore e il genere pulp: un atto di fede che va oltre ogni evidenza, anelando a quel lasciapassare per un mondo capovolto, esagerato, troppo evidenziato, che possiamo accettare solo perché sappiamo di poterne uscire nell’istante in cui lo desideriamo. Forse.

Elementi di pregio: una rivisitazione che omaggia il genere pulp mettendo in chiaro di non essere altro e allo stesso tempo non facendosene imprigionare.

Limiti: la stasi della prima parte può risultare indigesta a chi voglia uno spettacolo più rapidamente digeribile.

Visto giovedì 21 novembre alla Sala Mercato del Teatro Nazionale di Genova.

Una mano mozzata a Spokane

Di Martin McDonagh

Produzione ARIATEATRO

Versione italiana e regia Carlo Sciaccaluga

Interpreti: Andreapietro Anselmi, Alice Arcuri, Maurizio Bousso, Denis Fontanari

oca, oche, critica teatrale
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