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  • Marco Gandolfi

Quattro sguardi alla censura | Biennale Teatro 2020 NASCONDI(NO)

L'edizione 2020 della Biennale Teatro, la quarta e ultima sotto la direzione di Antonio Latella, è dedicata al tema della censura. Nelle intenzioni, il cartellone del festival, esclusivamente composto da opere in prima assoluta, esplora e traccia una mappa del "nuovo" teatro italiano. Si tratta di una scelta, dopo edizioni in cui Latella ha voluto portare in Italia esempi internazionali significativi, ma soprattutto di una necessità: questa edizione deve fare i conti con la pandemia da Covid-19. Una circostanza che rimane comunque fuori scena, almeno negli spettacoli che chi scrive ha potuto seguire negli ultimi giorni del Festival.

Il fatto che la rassegna si sia tenuta è già una risposta contro la tentazione intellettuale di considerare la pandemia una sorta di censura in senso lato che l'omologazione globalizzatrice avrebbe involontariamente causato nella sua cecità iperproduttiva. Il teatro è sopravvissuto a ben altre tragedie, anche sanitarie, e probabilmente questi giorni verranno elaborati, o magari già lo sono stati, da artisti che ne trarranno sperabilmente qualche capolavoro che vedremo nelle prossime stagioni.

Prima di procedere è necessaria un'avvertenza per il lettore. Quanto segue è un'analisi di quattro spettacoli presenti nel programma della Biennale Teatro 2020, senza alcuna velleità di completezza e possibilità di trarre conclusioni sulla manifestazione. Si esamineranno gli spettacoli a sé e mettendoli in relazione con il programma e gli obiettivi del manifesto di NASCONDI(NO).



Niente di me di Jacopo Gassman è tratto dal superbo testo di Arne Lygre. Si tratta - nonostante il suo carattere di studio - di una messinscena molto convincente in quanto essenzialmente concentrata sulla parola: dialoghi tra i due protagonisti e monologhi interiori che materializzano sulla scena un antagonista fantasmatico sempre incarnato da un eccellente Michele Di Mauro. La coppia protagonista rievoca l'inizio della loro relazione per poi passare a una disamina via via più implacabile dei traumi e le rimozioni personali che portano alla dissoluzione del rapporto e la sua trasfigurazione in una modalità di morbosa dipendenza, fino al tragico finale.

Gli inserti più riusciti sono quelli che disvelano nessi di rimozione psicologica - potremmo dire autocensura - che caratterizzano i personaggi nella loro essenza: qui la materia teatrale si fa fluida e pura, implacabilmente vera, mantenendo sempre un'asciuttezza formale e recitativa. La mano ferma di Gassman nella direzione fa ben sperare: c'è poco da aggiungere a questo studio, anzi quasi nulla. La realtà empatica della materia è già tutta presente, merito anche delle prove attoriali, che a parte qualche sbavatura di minor conto di Sara Bertelà, sono ineccepibili nella loro verità emotiva.

Il legame con il tema del Festival è lo sfondo ideologico che muove lo spettacolo, in antitesi: i personaggi sono sezionati al di là di ogni censura o eufemismo, e proprio del non censurare nessuna sgradevole verità si fa qui un manifesto alle capacità indagatrici del teatro.



Il lavoro di sottrazione che caratterizza Niente di me è ribaltato nell'accumulazione barocca de La città morta di Leonardo Lidi. Pastiche essenzialmente postmoderno, è la messinscena del testo dannunziano con elementi metateatrali e riferimenti alla biografia del poeta - che compare in scena trasformato in una maschera da cantante pop italiano anni '60. La tragedia dannunziana risulta nella visione di Lidi come il fallimento archeologico di recuperare una forma, un guscio vuoto in cui seppellirsi; l'opposto dell'attualizzazione di uno stile. In scena questa inautenticità infantile è rappresentata attraverso il brillante uso delle canzoni pop italiane cantate a coronamento di uno sviluppo drammatico, ora come dichiarazione d'amore, ora come lamento di incomprensione.

La complessità dei codici e dei temi non appesantisce la rappresentazione, merito anche dell'eccellente comparto attoriale, specialmente nel brillante e poliedrico Christian La Rosa.



Trova posto all'interno del Festival il progetto di Francesco Manetti con gli allievi del II anno del corso di recitazione dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”: Non dire / non fare / non baciare è un trittico con tre registi diversi (Marco Corsucci, Tommaso Capodanno, Antonella Lo Bianco rispettivamente) che affronta in modo più diretto il tema della censura. I tre pezzi mantengono una impostazione scenica relativamente costante: un gruppo di cinque o sei attori ancorati staticamente in una griglia più lontana e davanti a loro il protagonista della vicenda. La scenografia è ridotta al minimo, qualche attrezzo di scena, lo sfondo e palco completamente bianco trasportano l'intreccio su un piano astratto.

Il principale difetto del progetto è una più o meno pesante schematicità nel trattamento dei temi, che appaiono in scena come derivativi, mai veramente vissuti, ma visti e reincarnati da altri spettacoli o trattamenti. Questo è particolarmente vero sia per la vicenda di Non dire, in cui il processo a un prete colpevole di abusi sessuali scade rapidamente nella didascalica enumerazione delle usuali configurazioni descrittive del tema; e per Non baciare, per il trattamento del disturbo mentale e la marginalizzazione sociale.

Molto più interessante e riuscita è l'ibridazione che in Non fare mescola il mito di Orfeo alle decisioni sul fine vita con cui si confronta il protagonista a seguito di un incidente occorso alla compagna.

Lodevole negli intenti, il progetto complessivo è sicuramente una palestra importante per tutti i giovani coinvolti. Pur con le osservazioni sopra riportate, va detto che per il pubblico è comunque un'esperienza rigenerante vedere in un Festival di questo calibro il tentativo di ospitare e incoraggiare le nascenti carriere della prossima generazione del teatro italiano.



Lo spettacolo che più concettualmente si occupa di censura è Glory Wall di Leonardo Manzan; lo fa al punto da citare in scena la commissione dello spettacolo da parte di Latella e scherzare paragonando la qualità del doppio senso del titolo (Glory Wall e Glory Hole) a quello della rassegna NASCONDI(NO).

La premessa da cui Manzan parte è se si possa fare un autentico spettacolo sulla censura senza essere stati censurati. In mancanza di una censura interessata a quanto avviene a teatro oggi in Italia, l'autore pone esplicitamente il controtema della irrilevanza dell'attuale movimento teatrale italiano per la società nel suo complesso, e dunque il disinteresse del potere a occuparsene anche solo per osteggiarlo.

In scena un muro occupa l'intero palcoscenico, la quarta parete diventa protagonista, e in apertura solo delle parole proiettate sul muro veicolano i ragionamenti che l'autore ha sviluppato durante l'elaborazione del testo.

L'esito del processo creativo è fallimentare: per Manzan l'unica possibilità per rimanere fedeli al tema è autocensurarsi e quindi non portare a termine lo spettacolo. Lo spettatore che immaginasse una fine prematura della serata sarebbe in errore: da questo momento inizia una sorta di spettacolo ironico sul tema censura e sul gioco di parole Glory Hole/Glory Wall che mira a divertire e allo stesso tempo dimostrare l'impossibilità dello scandalo. Protagonista è sempre il muro, con proiezioni, voce fuori campo e buchi, appunto, da cui fuoriescono mani e braccia e bocche.

Dopo una lunga sessione di coinvolgimento del pubblico, chiamato a recitare grandi intellettuali del passato vittime della censura, lo spettacolo si chiude con una intervista all'autore che si presenta in forma di pene da uno dei buchi del muro. Come viene osservato in scena, quando l'intervista è più interessante dello spettacolo, qualcosa non va.

Glory Wall è una brillante e fantasmagorica rappresentazione di un fallimento, ma pur sempre di fallimento si tratta. L'impossibilità di parlare di censura è più dell'autore che generale, e sicuramente è possibile fare uno spettacolo sulla censura senza che questo sia censurato. La messinscena è vittima della sua eccessiva intelligenza: intrattiene, provoca, ma è anche sterile, perché alla fine non parla della censura, ma solo di uno scacco creativo risolto con una brillantezza di mezzi e invenzioni.


Si potrebbe dire che la (supposta) irrilevanza del teatro sia ascrivibile più alla sua autoreferenzialità, che non a qualche impalpabile spirito dei tempi. E questa piccola escursione nel programma della Biennale Teatro 2020 sembra testimoniarlo. Più uno spettacolo scava nell'intimo della verità del cuore dell'uomo e più la sua sintonia si fa profonda con la comunità degli spettatori, mentre tutte le analisi intellettuali e i ragionamenti hanno un posto come chiosa di quel nucleo irripetibile di emozione che attraversa scena e platea. Il (NO) tra parentesi del titolo della rassegna è proprio qui: non nascondere, portare alla luce, senza censure, tutto.


Biennale Teatro 2020

Per le schede degli spettacoli si vedano i link sotto riportati.


1) La città morta di Leonardo Lidi visto martedì 22/09/2020 al Teatro Goldoni Venezia.


2) Glory Wall di Leonardo Manzan visto martedì 22/09/2020 al Teatro Alle Tese Venezia

3) Niente di me – uno studio di Jacopo Gassmann visto Mercoledì 23/09/2020 al Teatro Piccolo Arsenale


4) Non dire / Non fare / Non baciare di Francesco Manetti visto Mercoledì 23/09/2020 all'Arsenale – Sala D’armi A

oca, oche, critica teatrale
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