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  • Irene Buselli

Geppetto e Geppetto


Pinocchio aveva le gambe aggranchite e non sapeva muoversi, e Geppetto lo conduceva per la mano per insegnargli a mettere un passo dietro l'altro. Quando le gambe gli si furono sgranchite, Pinocchio cominciò a camminare da sé e a correre per la stanza; finché, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare.

(Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, 1881)

Il titolo della pièce scritta e diretta da Tindaro Granata, Geppetto e Geppetto, sembra fare riferimento, almeno in un primo momento, alla caratteristica più eclatante del personaggio di Collodi: l’incredibile opportunità di essere padre di un bambino intagliato dal legno, costruito senza essere concepito, privo per natura di una figura materna. Lo spettacolo, infatti, racconta la storia di Toni e Luca, coppia omosessuale che decide di ricorrere al cosiddetto “utero in affitto”, generando così un bambino destinato a crescere, come Pinocchio, senza la presenza di una madre. Ma Geppetto, prima di tutto questo, è un uomo che insegna al figlio a camminare e lo vede allontanarsi con le stesse gambe che gli ha costruito, un anziano che subisce l’incomprensione e l’ingratitudine della creatura a cui ha dato la vita: Geppetto è un padre, per molti aspetti un padre qualsiasi. Ed è proprio la volontà di raccontare i suoi protagonisti come padri oltre che come “falegnami” che rende Geppetto e Geppetto un testo capace di parlare più di genitorialità che di politica. Nonostante l’intenzione evidente di avvicinare il pubblico al tema delle unioni civili, della stepchild adoption e della maternità surrogata, infatti, lo spettacolo non impone una tesi ma piuttosto suscita interrogativi: se è vero che sin dai primi minuti emerge chiara la condanna nei confronti di chi si erge a strenuo difensore della “famiglia tradizionale” negando qualunque diritto a chi non può esserne parte, non c’è traccia della retorica che vorrebbe un figlio come un diritto e l’utero in affitto come una scelta semplice.

La nascita di Matteo, interpretato da Angelo Di Genio, porta con sé anche i dubbi e le paure degli amici e parenti più stretti di Toni e Luca, rappresentati in scena dall’amica Franca, Alessia Bellotto, e dalla madre di Toni, Roberta Rosignoli, la prima spaventata soprattutto dalle possibili reazioni di una società forse non ancora pronta per accogliere un bambino con due papà, la seconda da una scelta che sembra violare le leggi della natura. È in questi due personaggi, in particolare, che si manifesta la dimensione corale dello spettacolo: all’interno di una regia estremamente fluida dove le battute dei personaggi principali si susseguono veloci in un dialogo continuo che ricorda il montaggio alternato cinematografico, sono Franca e la mamma a spezzare di tanto in tanto il ritmo della vicenda per sviluppare riflessioni più estese e farsi rappresentanti delle molte possibili opinioni, una funzione non dissimile da quella degli stasimi del coro nella tragedia greca. Qui, tuttavia, sta forse la parte più debole del testo, che rischia, soprattutto man mano che ci si avvicina al finale, di assumere toni eccessivamente retorici.

Nonostante la chiusura non riesca a celare una vena melodrammatica, Geppetto e Geppetto è uno spettacolo che riesce per il resto a mantenersi asciutto, potente, in grado di non dire troppo e di parlare soprattutto per simboli, aiutato in questo dalle scelte dei pochi e significativi oggetti scenici: il tavolo, centro simbolico della vita familiare che «a volte è agenzia, a volte è cucina, avvolte è scuola»; le scritte sulle magliette degli attori – unica caratterizzazione estetica – che indicano il nome e il ruolo del personaggio e che, con la semplice cancellatura della parola “bimbo”, segnano il passaggio di Matteo dall’infanzia all’adolescenza.

Tindaro Granata riesce a modulare le voci dei suoi personaggi dai toni della risata a quelli del dramma, con delicatezza, producendo un testo denso di domande e riflessioni, capace di interrogare gli spettatori sul senso ultimo dell’essere genitori e dell’essere figli, forse l’unica condizione condivisa dall’intero genere umano.

Elementi di pregio: la fluidità della regia, l’approccio non scontato alla tematica, i pochi dettagli scenografici densi di significato.

Limiti: il saltuario farsi strada della retorica, in particolare nel finale.

Testo e regia: Tindaro Granata

Durata: 105’

Visto il 25-11-17 al Teatro dell'Archivolto

oca, oche, critica teatrale
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