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  • Matteo Valentini

Happy Hour


Prima che lo spettacolo inizi, Alessandro Bernardeschi e Mauro Paccagnella si trovano già sul palcoscenico, da dove accolgono gli spettatori indicando loro i posti migliori in cui sedere.

Dopo qualche minuto, si presentano, ringraziano il pubblico, parlano brevemente del lavoro che stanno per presentare - Happy Hour - e della loro tournée internazionale, attirandosi fin da subito la simpatia e l’attenzione della platea.

Attraverso questa affabile modalità si arriva all’inizio vero e proprio dello spettacolo, in cui i due danzatori elaborano dieci “quadri” appartenenti a disparati episodi e suggestioni delle loro storie e vite quotidiane (il rapporto con i movimenti studenteschi, la fascinazione per i varietà televisivi…): non è un filone narrativo o tematico a collegare i diversi quadri, ma un elemento comico che a poco a poco emerge da situazioni anche piuttosto “semplici” (il travestitismo, la messa in mostra di corpi non più atletici, i movimenti effemminati eseguiti sopra il Da-da-un-pa delle gemelle Kessler).

Non è tanto il compiacimento estetico o lo stupore per un certo gesto atletico quello che lega il pubblico agli attori, quanto una progressiva simpatia che raggiunge il culmine quando Bernardeschi e Paccagnella dichiarano di essere affaticati, di avere molta sete, e abbandonano la sala per andare a prendere una birra, passando tranquillamente in mezzo alla platea.

Questo è di certo il momento più interessante dello spettacolo. Non si tratta del “classico” abbattimento della quarta parete – che i due danzatori fin dall’inizio sembrano dare per scontato -, ma della messa in campo di una domanda più avanti esplicitata dallo stesso Bernardeschi: cosa si guarda quando sul palco non c’è niente da guardare? Un interrogativo che ne suggerisce e ne implica immediatamente altri: l’attore è l’unico depositario del senso dello spettacolo? Cosa succederebbe se a uscire dalla sala fosse il pubblico e qual è il ruolo di quest’ultimo? In che modo il teatro può essere uno spazio politico e di relazione?

Quasi come risposta a questi interrogativi, i due danzatori invitano il pubblico a salire sul palcoscenico e una ventina di persone, in modo più o meno compatto, si alza dai propri posti e accetta l’invito di improvvisare una danza di alcuni minuti. Dal materiale informativo di Happy Hour si può evincere che questa improvvisazione è saldamente collaudata. Lo spettacolo infatti si costituisce di un altro momento oltre a quello della performance: un laboratorio intensivo di due ore che prepara ragazzi volontari, dai 16 ai 35 anni, a intervenire in questo quadro appena descritto e intitolato, non a caso, Largo ai giovani.

Se l’abbandono del palcoscenico da parte dei due danzatori aveva imbarazzato e messo in crisi il senso stesso di essere spettatori, l’intervento di parte della sala si configura da subito, al di là della suggestione del momento, semplicemente come una nuova messa in scena. Il controllo dello spettacolo non passa mai in mano allo spettatore, ma resta a Bernardeschi e Paccagnella, che decidono quando iniziare e quando terminare l’improvvisazione di quello che, forse scorrettamente, si è continuato a chiamare “pubblico”, fornendo così una risposta sbrigativa e di facciata a interrogativi basilari del meccanismo teatrale, che i due danzatori hanno comunque il merito di aver posto.

Elementi di pregio: la creazione immediata di un rapporto familiare tra pubblico e attori; lo stimolo di interessanti interrogativi sul teatro e su chi agisce in scena.

Limiti: l’istruzione preliminare degli spettatori intervenuti sul palcoscenico, che si qualificano a tutti gli effetti come attori mascherati da pubblico.

di e con Alessandro Bernardeschi e Mauro Paccagnella

luci e direzione tecnica: Simon Stenmans

produzione: Wooshing Machine

visto il 2 dicembre 2017

durata: 60'

oca, oche, critica teatrale
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