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Matteo Valentini

Hortus Conclusus 2020 – La comunità teatrale

Uscite dal casello di Novi Ligure, sotto un sole agostano e spietato, noi Oche cercavamo goffamente di raggiungere la cascina che ci avrebbe ospitate e dicevamo, tra una strada in contromano e un doppio giro di rotonda, che se il buongiorno si vedeva dal mattino, la nostra permanenza a Hortus Conclusus non sarebbe andata granché bene.



Andrea Lanza, l’organizzatore, ci aveva contattate addirittura a dicembre per sapere se avessimo voglia di partecipare al festival. Nei mesi seguenti avevamo preso vaghi accordi di collaborazione, ma con lo sconquasso che il COVID-19 aveva provocato nel mondo, e nel mondo teatrale, avevamo pensato che di Hortus Conclusus si sarebbe parlato un’altra volta. Tuttavia, a fine maggio, arrivava un messaggio da Andrea: “Io ci sono… Voi?”. E allora eccoci, persi per le strade di Novi, a domandarci in quale festival teatrale potessero convivere un workshop sui laboratori sociali nelle periferie degradate, la presentazione di un disco cantautorale e una lezione di un fisico sulla fusione a freddo: i festival hanno sempre un focus, qual era quello di Hortus?



Sotto il pergolato della cascina, davanti a un piatto di taglierini al pesto (sì, è buono anche a Novi Ligure), Carlo Orlando ci raccontava la nascita del festival. Detto per inciso, Carlo Orlando è un attore, sceneggiatore e regista originario di Novi, da sempre vicino a Hortus Conclusus, e quella sera avrebbe messo in scena La sfida, uno spettacolo sullo storico incontro di boxe tra Muhammad Ali e George Foreman.

Sei anni fa Andrea era a Novi per provare uno spettacolo assieme a Carlo e venne avvicinato da una signora della città che gli offrì il cortile della propria casa per organizzarci qualcosa, letteralmente quello che voleva: in due giorni, una trentina di spettatori assistettero a una lettura di poesie leopardiane e a uno spettacolo su Emily Dickinson. La cosa sembrava finita lì, d'altronde quello aveva tutta l’aria di essere un favore che aveva permesso alla signora di far bella mostra del suo cortile. Ma l’anno successivo alcune persone chiesero se fosse possibile replicare quanto fatto l’estate precedente: Andrea a quel punto pensò di allargarsi e sparse la voce che, all’interno di alcuni cortili di Novi, c’era la possibilità di organizzare spettacoli, presentazioni, proiezioni cinematografiche, incontri di vario genere, con ingresso a offerta libera. Risposero in quindici. Da quel momento Hortus divenne un appuntamento fisso dell’estate di Novi, i cortili gradualmente aumentarono e la popolazione cominciò a collaborare, rivestendo saltuariamente ruoli diversi da quello dello spettatore, come tecnico luci, fonico, trasportatore, maschera. Senza nessun aiuto da parte di istituzioni, sponsor privati o fondazioni, gli abitanti di Novi avevano organizzato uno spazio autogestito in cui ritrovarsi e stare assieme: ecco trovato il focus di Hortus Conclusus.



Dopo il pranzo e la siesta pomeridiana, ci trovavamo con Andrea Lanza nel cortile della Scuola Materna Solferino, che, a causa dell’emergenza Covid, accoglieva il festival. Nelle sue parole, l’indipendenza da pastoie politiche e istituzionali e il legame della proposta artistica con il territorio apparivano come elementi programmatici:


“Desta stupore una cosa che dovrebbe essere molto normale: vogliamo fare qualcosa e la facciamo. Non siamo andati a chiedere al Comune ‘vorremmo fare questa cosa’ o a una Cassa di risparmio, abbiamo iniziato a farla, che è un superpotere che le persone hanno sempre avuto e non sanno più di avere. Non c’è bisogno di qualcuno che ti faccia fare una cosa: la fai e se non sta in piedi da sola vuol dire che da qualche parte c’è qualcosa che non va o che stai facendo qualcosa di sbagliato. È inutile far venire una super orchestra a suonare, quando in città non c’è un’attività musicale di base per cui non sai neanche distinguere tra tuo figlio che fa il saggio di musica e Karajan”.


Dalle sue parole non emergeva alcuna volontà muscolare di portare l’Artista di punta o di educare una qualche massa indistinta: le manifestazioni organizzate sono quelle che il territorio può supportare e digerire spontaneamente, capaci di creare confronto tra cittadini che, per la maggior parte, non sono inseriti tra gli “addetti ai lavori”. Una spettatrice a questo proposito ci diceva:



“Il fatto che uno veda spettacoli teatrali di livello molto alto e si trovi a farne critica, per trovarne il valore o il valore che manca, crea cultura. Il momento in cui mi confronto con un prodotto e mi chiedo come risolverei quel fattore critico è un momento di crescita. Il fatto che una cittadina sia stimolata, con una serie di sollecitazioni di diversa natura, a proporsi un certo atteggiamento nei confronti di quello che viene goduto crea una riflessione, ed è quello che manca: non siamo sottoposti a situazioni su cui riflettere e a cui dare un valore con spirito critico. In Hortus si crea una circolarità di informazioni che non ha altro modo di essere sviluppata se non in un contesto del tutto amicale”.



Nel pomeriggio, Elisa Sarchi dell’associazione Calypso condivideva con noi la sua esperienza di laboratori sociali per la ricostruzione di comunità in situazioni di disagio. Sono diverse le strategie che lei e la sua associazione utilizzano per rinsaldare le comunità formate, per esempio, dagli abitanti di un ex-quartiere operaio alla periferia di Pavia, dagli occupanti di un carcere o dai condomini di una casa sociale, ma tutte hanno alla base un qualche atto performativo (può essere la realizzazione di uno spettacolo o l’organizzazione di una cena in strada) e la costruzione di un’identità basata sulla relazione interpersonale, sull’accordo e sull’appianamento delle divergenze, piuttosto che sulla protesta o sulla rivendicazione di un problema presso le istituzioni. Fondare la comunità su qualcosa di intrinseco piuttosto che su un oggetto esterno è un’intenzione condivisa con lo spirito di Hortus Conclusus. Era sempre Andrea a sostenere: “Devi stare in piedi e devi avere un senso per la tua comunità di riferimento. Penso che il teatro abbia la comunità di riferimento più prossima di tutte le forme d’arte, che è quella del luogo dove sorge il teatro”.



Arrivata la sera, Carlo Orlando saliva sul palco di Corte Solferino per raccontare l’incontro tra Muhammad Ali e George Foreman, valido per il titolo di campione di pesi massimi, avvenuto il 30 ottobre 1974 a Kinshasa, nell’allora Zaire. La drammaturgia, tratta dal romanzo La sfida di Norman Mailer, appariva strabordante: abbondavano le metafore animali e i dettagli macroscopici, si indulgeva nella descrizione particolareggiata degli allenamenti dei due pugili, si caricavano i momenti dell’incontro con aggettivi semplici, diretti e fortemente evocativi. All’interno del dispositivo del teatro di narrazione, con solo Eva Cambiale in scena assieme a lui a marcare certe scene con il battito di un tamburo, Orlando assumeva le vesti e la voce di un commentatore esterno alla vicenda, raccontando in maniera rapida e colorita il contesto in cui si inseriva l’incontro (la costruzione dello stadio “Tata Raphaël” voluto dal dittatore Mobutu Sese Seko, le tempestose conferenze stampa di Alì, il muro di silenzio eretto da Foreman), per infuocarsi sempre di più col procedere della narrazione, facendo assumere all’incontro tra i due campioni l’aspetto di uno scontro titanico, quasi mitologico, davanti agli occhi entusiasti degli spettatori.



A proposito di mito, lo stesso Orlando la mattina successiva sedeva nel giardino di Corte Solferino per parlare del rapporto tra archetipo, simbolo e narrazione cinematografica, in un incontro dal titolo Il cinema e la rosa. A partire dalla sua esperienza di sceneggiatore per il cinema, Orlando ci presentava i tentativi di sistematizzare la scrittura delle sceneggiature basati in particolare sugli studi di Joseph Campbell (Il viaggio dell’eroe, 1990) e cercava, anche attraverso il confronto con gli ascoltatori, di superare questi rigorosissimi schemi, facendo emergere l’inconsapevolezza e la confusione su cui si basa il senso comune quando parla di “narrazioni archetipali” o di “momenti simbolici”. Le fatidiche dodici tappe che compongono la formazione dell’eroe, i tre atti in cui deve essere diviso un buon film, l’uso “scientifico” di particolari simbologie venivano presentate da Orlando come astrazioni o dogmi che rischiano di rendere macchinoso qualsiasi processo di scrittura, pur rispondendo allo schema di molte opere di eccezionale qualità ed enorme successo (da Gli Intoccabili di Martin Scorsese a Shining di Stanley Kubrick): se ne derivava, quindi, che l’utilizzo di queste categorie non è tanto quello di modello sicuro di scrittura, quanto quello di guida interpretativa e critica, pur nell’incertezza della loro effettiva natura (in questo senso, era esilarante constatare, dalla semplice lettura del Dizionario dei simboli, quanti significati fossero legati alla figura del cavallo).

Cenando attorno al tavolino di un bar poco lontano da Corte Solferino, noi Oche riflettevamo su una cosa a cui Orlando aveva accennato a pranzo: il fatto paradossale che la qualità di Hortus Conclusus non si potesse misurare attraverso quella degli spettacoli e degli eventi al suo interno. Eravamo concordi, infatti, nel trovare la sua storia e il suo approccio all’evento culturale non solo del tutto inediti rispetto ai festival che avevamo incontrato nel corso del tempo, ma anche, per il loro carattere serio, generoso e spontaneo, capaci in sé di emozionare.


Interviste a cura di Irene Buselli e Matteo Valentini

Foto a cura di Eva Olcese



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