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  • Francesca Picci

Festival Opera Prima | Diario da un festival

La ventesima edizione del Festival Opera Prima, organizzata dal Teatro del Lemming nell'arco dei trent'anni della propria attività (1994-2024) porta l'Oca per la prima volta a perdersi tra le strade, le piazze, i giardini, le sale e i locali di Rovigo. L’Oca, animale per sua natura curioso, ha infatti messo il becco in ogni luogo le sue penne avvertissero un accadimento teatrale, o un riverbero di esperienza e senso. È stata fedele osservatrice di dibattiti, laboratori di critica e di arte dell’attore, è andata a teatro, al cinema, ha assistito a concerti, ha fatto esperienza, si è commossa e ha riso, per poi rientrare a casa piena di quegli incontri e condivisioni. Ha quindi deciso, la nostra Oca, di restituire in forma di diario la propria entusiastica partecipazione al Festival Opera Prima.



“Che cavolo guardi?”, piacevole e luminoso attraversamento di tutto il festival, è il laboratorio di critica e sguardo tenuto da Michele Pascarella per i ragazzi e le ragazze degli istituti superiori di Rovigo. 

25 studenti e studentesse sono convenuti tutte le mattine ai Giardini Due Torri, hanno preso posto sotto l’ombra protettiva e riparatrice del grande albero a fianco alla antica torre Donà, in un cerchio di sedie che invitava all’ascolto. Sempre presenti a spettacoli e dibattiti, sono stati portatori di riflessioni puntuali, sguardi freschi, e voglia di mettersi in gioco, pronti immergersi nella profondità della visione per riemergerne ricercando insieme i codici e i linguaggi arrivando – merito alla cura e alla discrezione del conduttore! – a riconoscere e separare il movimento soggettivo che lo spettacolo produce da ciò che di oggettivo accade.A questo link potete leggere quello che del laboratorio di critica e sguardo è rimasto in forma di recensione. 



Venerdì 28 giugno


Voodoo di Masque Teatro

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Foto di Marina Carluccio

Sono le 19.30 e siamo accolti nel bellissimo Chiostro degli Olivetani, atmosfera rarefatta, cielo terso. Prendiamo posto chi sul muretto del chiostro, chi sui cuscini per terra, chi – a creare una terza fila - in piedi dietro tutti. C’è attesa, abbiamo risposto a un invito, qualcosa sta per accadere e sarà qualcosa di forte. Il luogo chiede di placare interferenze e pensieri, chiama alla pace, ma è un contrasto, così lo avvertiamo: sarà il titolo della performance che rimanda e predispone a qualcosa che non ci lascerà come ci ha trovati o sarà quella figura con vestiti e pelle colore della terra e del fango seduta su uno sgabello di legno anch’essa in attesa di ciò che inevitabilmente accadrà. La vera chiamata, in fondo, è per lei. Mentre attendo l’ingresso degli altri spettatori la osservo, mi perdo, penso ai film di Romero, agli zombi senz’anima, all’anima... Poi all’improvviso tutto inizia, parte una musica ossessiva, ripetuta, così come ossessive e ripetute sono anche le azioni, destinate -  sembra - a protrarsi senza una fine possibile. In quei movimenti e in quei tentativi di movimento, infinite varianti di conati stoppati e ripresi, ecco che sento affiorare e prendere il sopravvento un immaginario senz’anima, dal fantoccio a Frankenstein allo zombie... Allargo lo sguardo.. Siamo ancora nel chiostro, il cielo è sempre terso, alle spalle della performer una bellissima magnolia in fiore, di fronte a lei, distante, quasi un punto di arrivo, un alberello secco, tra i due, il rigoglioso, magnifico e fiorito e il piccolo, secco e spoglio, a tracciare una linea, un sentiero forse, foglie gialle cadute. La musica continua implacabile e ossessiva e impedisce un vero distacco, attraversandomi e tenendomi lì, ancorata, fino alla fine del rito. La musica elettronica cessa di colpo violentemente e lascia il posto al silenzio. Il corpo denudato per terra, in un silenzio che ferisce, in un vuoto difficile da sostenere. Davvero, dopo il tutto, il niente? 

A questo punto, sono passati credo pochissimi istanti, accade quell’imprevisto inatteso che – di nuovo - sposta tutto. Leggera, una melodia accarezza l’aria, mi chiedo se anche gli altri la sentano, rincuora, rinfranca, mi dice che il vuoto era solo un attimo di incertezza, che dopo c’è ancora qualcosa ed è qualcosa di bello. Mi riappacifico respiro, forse sorrido. Nel mentre, seguo i gesti imbarazzati della spettatrice seduta davanti a me, le sue mani che annaspano nella borsa, e prendono un telefono, il suo profondo sospiro mentre lo spegne. E capisco.


Una distrazione di uno di noi, chiamato ad assistere, il caso che subito ne ha approfittato, un’opera che si ribalta nel punto di arrivo, un nulla che viene riempito, il chiostro restituito alla pace.


Voodoo è finito, è stato potente, è diventato esperienza compiuta, ha mosso e forse spostato. Eleonora Sedioli è la straordinaria interprete di questa creazione della compagnia forlivense Masque Teatro, di cui è anche storica componente: il suo corpo di attrice prestata alla danza è generosamente offerto, strumento e oggetto di sacrificio.


What did I just do? di Fabio Liberti

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Foto di Marina Carluccio

Il tempo tecnico che ci vuole per lo spostamento dal Chiostro degli Olivetani, dopo la visione di Voodoo, ed entriamo nella sala del Teatro Studio. Sicuramente molti di noi Voodoo “lo hanno ancora addosso”, ancora sono abitati dai pensieri, dalle immagini e dalle sensazioni che ha generato. Forse per questo viene spontaneo accostare i due spettacoli, quello che si sta vedendo a quello appena visto. In fondo i festival sono anche questo, dialoghi interni e inaspettati tra opere che si ritrovano a condividere spazi, tempo, pubblico, in un gioco di echi, rimandi, fili rossi, poetiche e visioni che accostate possono aprire domande, rispondere interpellate e inconsapevoli a interrogativi precedenti; misteriose corrispondenze nella foresta di simboli di un festival, direbbe, forse, il poeta francese. Ecco allora che What did i just do? pare rispondere all’assenza di parole, all’ossessiva ripetizione di movimenti e suoni del rito dal quale arriviamo. E sembra farlo con un’altra ossessione, ma di segno opposto: la parola, appunto. Qui è l’io che si apre nel suo essere individuo, è la memoria della vita calata nel proprio spazio e nel proprio tempo. Anche qui si tratta di un solo, la scena sarà abitata da un’unica presenza femminile, anche qui è alle casse che viene affidato il sonoro con la registrazione di un flusso incessante di ricordi che affiorano, con qualche leggera interferenza dell’interprete, come era stato per i versi gutturali e animaleschi di Eleonora Sedioli. Ma qui si tratta sempre e unicamente di parole. A una velocità tale che intontiscono, straniano, travolgono. Questa volta il muro che ci viene gettato addosso è di pensieri in un fluire ininterrotto di ricordi, con riprese, buchi temporali, partendo dall’infanzia e dalla famiglia, attraversando l’adolescenza, la formazione artistica, le relazioni personali, la separazione dei genitori, i paesi dove la vita viene vissuta, le torri gemelle che cadono, la telefonata a un’amica, un’altra relazione. È un presente eterno quello della memoria e, con leggere cadute e immancabili riprese, si arriva fino a Rovigo, al teatro, a ora. Qui si interrompe il flusso dei pensieri forse perché qui inizia lo spettacolo, ora si va in scena. L’io portatore di memoria, ordinatore di fatti e avvenimenti, la parola che accompagna e nomina la vita, si ferma. La biografia si stoppa, ora c’è il teatro. Ora c’è il teatro, l’io viene messo da parte, la biografia si stoppa. Lo sentiamo come un arresto delle parole necessario, non per mancanza di conoscenza di quello che sarà – il non conoscere il futuro genera vortici di pensiero ancora più frenetici che il riandare al passato – ma per rispetto delle zone: sul palcoscenico l’io dell'interprete tace e si crea il vuoto che accoglie. La performance ha inizio. Visivamente lo spettacolo è delicato, essenziale, qualche legnetto a costruire la scena, un abito di carta, veste arancione che, bagnata, si disfa e lascia – così lo spettacolo si chiude – l’interprete messa a nudo. Alla memoria riaffiora un Amleto di Nekrosius, visto a Parma tanti anni prima, con il principe danese che fa il suo famoso soliloquio sotto un lampadario di ghiaccio che, sciogliendosi e gocciolando, bagna la sua bianca camicia di carta. Finite le parole Amleto si è messo a nudo.


Quijote! di Teatro Nucleo

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Foto di Loris Slaverio

Dopo due ambienti riparati è la piazza ad accoglierci. Due gradinate di spettatori si fronteggiano per i lati lunghi della grande piazza Vittorio Emanuele II; a chiudere il rettangolo, che sarà luogo dell’azione condotta a 360 gradi, due strutture teatrali che si sveleranno nel corso della rappresentazione.Lo spettacolo non è un’opera prima, ma, nello spirito del ventennale del festival, un ritorno: dopo oltre 400 repliche in 3 continenti (dal 1990 al 2008) la compagnia ferrarese Teatro Nucleo riprende il suo Quijote! e lo riporta in piazza.

La regia della prima versione del Quijote! porta la firma di Cora Herrendorf, Maestra di teatro che sapeva ben dire quello che andava detto e non dire ciò che non andava detto – l'oca trasognata che scrive ricorda ancora un suo laboratorio di oltre vent'anni fa intitolato significativamente L'attore sciamano –  mentre la drammaturgia è opera di Horacio Czertok, che in entrambe le edizioni dello spettacolo veste anche i panni di Don Chisciotte.

È sul finire degli anni settanta che Horacio Czertok e Cora Herrendorf, esuli argentini in fuga dalla dittatura, stabiliscono a Pontelagoscuro, in provincia di Ferrara, la sede del loro Teatro. Qui raccoglieranno intorno a sé alcuni aspiranti attori e lavoreranno per qualche anno all’interno dell’ospedale psichiatrico, aperto alla riforma Basaglia. Questa dimensione pedagogica e “indirettamente terapeutica” – per riprendere le parole di Ferdinando Taviani – cioè quella spaziosa regione del teatro che esiste in assenza della rappresentazione, non verrà mai meno e rimarrà costante oggetto di esplorazione nella loro pratica teatrale. 


Tornando al Quijote visto a Rovigo, riallestimento a cura di Horacio Czertok e della figlia Natasha, la scena è aperta da uno svelamento: sotto un bianco lenzuolo Don Chisciotte a cavallo di Ronzinante, immobile statua. Si animerà e questo suo prendere vita genererà tutte le avventure e gli episodi scelti in questa festante e pirotecnica versione. Movimento, sorprese, inaspettate interazioni col pubblico, acqua, fuoco, macchine teatrali mosse a vista dagli attori in scena, costumi dalla resa meravigliosa,giochi e energia. 

Ci accompagnano nei diversi passaggi le parole registrate, ci spiegano, ci indicano una direzione, fino alla lettura finale, quella dell'ultima lettera che Ernesto Che Guevara scrive ai genitori.

Sembra allora che quella strampalata finzione di Don Chisciotte – la sua follia – che lo porta a scambiare i mulini a vento per giganti e a combatterli e a distruggerli, sia sorella di quella immaginazione che serve per vedere il mondo come lo vorremmo e che – calamita alle nostre azioni – ci spinge ad andare là, verso la sua realizzazione, ostinatamente e a qualunque costo. 

Don Chisciotte è invecchiato, ma il senso dello spettacolo è rimasto intatto in quella piazza scoppiettante e gremita di un pubblico coinvolto e stupito. 

È lo stesso Horacio Czertok a dire, parlando del suo Quijote: «un teatro che ritrova la sua essenza, che esce dai rifugi in cui si è dovuto ritirare, un teatro libero in grado di incontrare liberamente spettatori per i quali il teatro si riveli un bisogno. E questo sulla loro stessa piazza, quella che percorrono ogni giorno e luogo dove si svolge la loro vita. Proprio lì il teatro appare un bel giorno, con il suo carico di energia, di dubbi, di paradossi, di domande urgenti, di riso e di pianto, di dramma e di gioco. Il cittadino bambino o adulto trova un gioco che gli appartiene e si scopre spettatore teatrale, qualcosa che non sapeva di essere e di volere, membro obbligato come è della società massmediatica ed elettronica.»


Sabato 29 giugno


Rivolti di MOMEC_Memoria in Movimento

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Foto di Loris Slaverio

MOMEC (MOvimento per una MEmoria Comune) è un progetto di arte partecipativa nato nel 2018 da un’idea di Mario Previato e prodotto da Festival Opera Prima ETS. Caratteristica di tutti i lavori, siano installazioni, eventi o esperienze site specific, sono la centralità della testimonianza e della memoria e la natura partecipativa dell’evento che rende i partecipanti co-autori dell’evento. Al fianco di Mario Previato in questo progetto altre due storiche attrici del Teatro del Lemming, Fiorella Tommasini e Antonia Bertagnon.

Rivolti è un piccolo e delicato intervento offerto a uno spettatore alla volta. È difficile dire di questo spettacolo senza svelarlo e parte della sua bellezza è nello stupore e nella possibilità che genera. Diremo solo che veniamo accolti e accompagnati, che ci sono due stanze, la piccola nera e la piccola bianca, che nell’apertura finale e nella possibilità che offre al suo unico spettatore, qualcosa può accadere e cambiare il corso di una o più esistenze e che, infine, esporsi è il segno della più grande rivolta.


Linearity di Joshua Monten

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Foto di Loris Slaverio

Leggendo il programma Linearity è uno spettacolo che incuriosisce. Il tema con cui si confronta il coreografo svizzero-americano Joshua Monten è di quelli intriganti: la linea, l’andare dritto, senza cedere, senza deviare.

I due interpreti, la russa Alina Lugovskaya e il greco Yiorgos Pelagias, i corpi armoniosi, forti, presenti e al tempo stesso leggeri, vestono i panni di due operai edili danzanti e acrobatici e giocano, armati di scotch e immancabili caschetti, a tracciare linee e confini per superarli e tradirli, separano gli spazi, cercano e trovano sempre nuove intese, sfidandosi in un gioco continuo. Sono belli nei loro movimenti di possanza come nei sorrisi e negli sguardi rivolti al pubblico.

Come tornare indietro, come superare il confine?

Danzando e giocando e possibilmente mantenendo un dolce e ironico distacco, pare essere la risposta

Lo spettacolo è godibile, ma si ferma subito, il discorso si chiude appena aperto.

Ancora ne avremmo volute di quelle regole da infrangere e di quella linearità con cui, leggeri, giocare. In Italia - si sa -  i lavori in corso si rimarrebbe a guardarli per ore.


Fio Azul di Collettivo Rosario

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Foto di Loris Slaverio

Collettivo Rosario è una formazione di 13 elementi - dai percorsi artistici eterogenei, ma sempre orientati alla danza e al canto – incontrati e scelti da Charles Raszl, musicista e ballerino brasiliano nonché direttore artistico del gruppo, durante la conduzione di laboratori e workshop di body percussion e circle song. 

Rosario come la collana usata per la preghiera e la meditazione (si conta e si canta), rosario come il roseto (e la rosa - si sa - è simbolo di forze e delicatezza, ha la spine, ma anche il profumo), Rosario come la chiesa Nossa Senhora do Rosario in Brasile, la prima ad aprirsi agli schiavi.

Collettivo Rosario è un gruppo affiatato di body music e musica popolare dal repertorio vario che pesca da diverse culture e tradizioni, mantenendo un forte legame con il Brasile, le danze e i canti degli Orisha, i loro ritmi e le loro storie, accostandole ad altre tradizioni di varia provenienza, in particolare modo dal sud Italia (così almeno la selezione per il concerto al quale abbiamo assistito).

Gli interpreti sorridono tantissimo e profondono entusiasmo ed energia in tutto quello che fanno, i corpi risuonano, le voci cantano pulite, i movimenti coreografati si alternano. Accade però che mentre passano i minuti e i brani, la sensazione è quella di assistere sempre all’esecuzione di uno stesso pezzo, in un appiattimento di quella multiculturalità e varietà che ci era stata promessa, e il concerto pare in parte un’occasione mancata, nonostante la pulizia e tecnica dell’esecuzione.

Collettivo Rosario riesce comunque a creare un momento di partecipazione e coinvolgimento: il pubblico è divertito, ammirato, rasserenato; la musica ha unito e la scelta della piazza come luogo della performance, ha aperto “agli spettatori involontari”, passanti che si sono fermati attratti dal canto e dalla gioia e sono diventati pubblico.

E pare che anche la nostra oca critica alla fine muovesse la codina...


Attorno a Troia_Troiane di Teatro del Lemming

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Foto di Marina Carluccio

Dopo Ilio, Attorno a Troia_le Troiane, è la seconda tappa del lavoro di scavo e studio  che il Teatro del Lemming dedica alla città di Troia, ovvero alla distruzione di una civiltà.

Di Troia non deve restare più nulla, ogni cosa sarà distrutta, le Troiane saranno portate in esilio, la memoria sarà dispersa e resa impossibile la ricostruzione.

Di loro canta lo spettacolo del Lemming, degli ultimi, di chi è sconfitto.

Lo spettacolo è coinvolgente e lo spettatore è chiamato a esserne parte, volente o nolente. Perché non ci si può sottrarre alla chiamata e assistere è prendere parte. Indossiamo la veste, lasciamo braccialetti, orecchini e collane, siamo accompagnati all’interno della sala del teatro, mani che si stringono e insieme attraversiamo il buio. Poi l’incontro 9 attori per 9 spettatori. Le Troiane ci faranno da specchio, in un rapporto uno a uno necessario e profondo; semplici gesti quotidiani che si fanno archetipi, il bambino che gioca, una ciotola di riso versata, una spazzola per per pettinarsi i capelli, un velo a nascondere, una mano che stringe, il contatto il calore. È condensata la vita che arriva in teatro, è più densa, in questo simile alla vita nel momento del pericolo: l’istante si dilata, tutto il corpo è chiamato a registrare ogni singola vibrazione, ogni singolo spostamento dell’aria dell’atmosfera dei suoni.

9 attori per 9 spettatori. Potevano essere di più, poteva essere un popolo per un altro popolo.

Ci ritroviamo in cerchio e ascoltiamo una dichiarazione che tutti riconosciamo, quella dei diritti di un’umanità che sempre ripete il copione delle troiane, i diritti sono per i vincitori e l’oblio per chi è sconfitto. Ancora oggi, ancora affacciati al Mediterraneo.


Boggi


E poi al dopo festival con una birretta che senti di aver meritato come chiusura di una giornata emotivamente, esteticamente e intellettualmente piena, arriva una delle meraviglie del festival, un ragazzo di Rovigo con la sua chitarra, l’armonica e una voce che tutto può e che tutto fa. Con testi in italiano a raccontare del profondo di un’anima inquieta e in movimento, ecco che tra richiami a Rino Gaetano e Vasco Brondi arrivano “martellate” e quella birretta diventa un po’ salata tra la meraviglia e lo stupore di trovare la bellezza dove lei vuole.

Percepire quel segreto che genera bellezza e portarlo fuori e svelarlo, il giusto.

L’oca piange e sorride e fa le due cose insieme e applaude e si dimentica e infine si ricorda di applaudire.


Domenica 30 giugno


Laboratorio. Incontro laboratoriale aperto a tutti e condotto da Simone Derai e Marco Menegoni (Compagnia Anagoor)

Domenica mattina. Ormai si è creata una piccola routine festivaliera e le giornata a Operaprima Festival iniziano assistendo con discrezione al laboratorio di critica “Che cavolo guardi?” per poi proseguire partecipando all’incontro con gli artisti che si sono esibiti nella giornata precedente o che si esibiranno in quella che sta per cominciare.

Questa domenica mattina però ai Giardini Due Torri accade qualcosa di diverso: è il laboratorio teatrale aperto e gratuito condotto da Simone Derai e Marco Menegoni (Compagnia Anagoor). Come rispondendo a un richiamo, assumo il ruolo dell’osservatrice esterna, mi siedo su una panchina e lascio sguardo e pensiero liberi di andare e venire, di scegliere su cosa soffermarsi, su cosa indugiare, da cosa essere portati via. Potrei rimanere ore a osservare i movimenti dei partecipanti, la leggerezza e la profondità che aleggiano in quello spazio in cui qualcosa di piccolo e prezioso sta accadendo. Non so qual sia la consegna, la legge che ha determinato l’esercizio, potrei intuirla, forse. Ma intanto mi perdo nell’armonia e nell’intesa delle persone che a coppie, portano avanti un loro gioco di vicinanze e allontanamenti, di invisibili fili che collegano morbidi.

Vedo una donna che come me è seduta su un’altra panchina e da lontano osserva come osservo io.  È giovane, 35 anni circa, velo in testa. Mi chiedo cosa pensi, cosa riconosca in quello che vede.

Da Rovigo e da Opera Prima porterò a casa anche la bellezza di questo abitare la città, di questa presenza aperta ed elegante del teatro che esce dalle sale teatrali e prende posto nei luoghi della quotidianità, tra le persone in movimento che si fermano e si guardano e forse si riconoscono.


Todos los males. Tutto il male possibile di Compagnia Angoor

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Foto di Giulio Favotto

Il Requerimiento , o Requerimiento de Palacios Rubios , è un documento redatto dal giurista spagnolo Juan López de Palacios Rubios nel 1512. Si tratta della formula legale utilizzata durante la conquista dell’America: alla presenza di un funzionario regio i conquistadores leggevano il testo (in spagnolo o in latino) agli indigeni per informarli che quelle terre, come tutte le terre, appartengono a Dio, che Dio mandò in terra il figlio suo Gesù Cristo, che questi trasmise a un suo rappresentante – chiamato Papa - e ai suoi successori, la facoltà di parlare in nome di Dio, che uno di questi papa, Alessandro VI, aveva concesso quelle terre ai sovrani di Castiglia e Aragona e che quindi, per tutti questi motivi, dovevano sottomettersi

“[...] se farete questo farete bene [...]. Ma se voi non faceste ciò, o in ciò voi interponeste maliziosamente delle dilazioni, vi faccio sapere che con l’aiuto di Dio noi interverremo potentemente contro di voi, e vi faremo guerra da tutte le parti e i modi che potremo, e vi assoggetteremo al giogo e all'obbedienza della Chiesa e delle Loro Maestà, e prenderemo le vostre persone, e le vostre mogli e i vostri figli e li faremo schiavi, e come tali li venderemo e disporremo di loro come le Loro Maestà comanderanno, e vi prenderemo i vostri beni, e vi faremo tutti i mali e i danni che potremo, come si fanno ai vassalli che non obbediscono né vogliono ricevere i propri signori e oppongono loro resistenza e disobbedienza; e dichiariamo che le morti e i danni che faranno seguito a ciò saranno attribuiti alla vostra colpa e non alle Loro Maestà, né a noi, né a questi signori che vengono con noi. E chiediamo al presente notaio che ci dia un certificato firmato di ciò che diciamo e richiediamo, e preghiamo i presenti che siano testimoni.” 

Todos los malos. Tutto il male possibile.

Nel pieno e caldo pomeriggio di domenica è il cinema Teatro Duomo ad accoglierci per un nuovo appuntamento del festival: la proiezione del film Todos los males della compagnia Anagoor. Il regista, Simone Derai, ci introduce alla visione del film raccontandoci come l’opera sia nata su commissione della Sagra Maletestiana di Rimini per l’allestimento dell’opera Les Incas du Perù, secondo dei quattro movimenti di Les Indes galantes di Jean-Philippe Rameau, e subito precisandoci che il film non deve essere inteso come un documentario sull’allestimento dell’opera teatrale, quanto piuttosto come una di “making-of, fabbrica della rappresentazione, documentario dell’immaginazione”.

Quando si riaccendono le luci al termine dei 72 minuti di proiezione non riesco ad avere un pensiero e non sono in grado di iniziare una riflessione su quanto ho visto. Devo prima rispondere a una domanda. Cosa ho visto?

Sicuramente si è trattato di un lavoro complesso e stratificato, metafilmico, metateatrale, metariflessivo, che ha affrontato temi complessi: il postcolonialismo, ovvero la nostra relazione con il lascito del colonialismo. La musica dell’opera - balletto di Jean-Philippe Rameau che ha sostenuto il lavoro e che del lavoro della compagnia Anagoor è stata a sua volta oggetto, mi è parsa straordinariamente ricca, in grado di coinvolgere e trasportare; la vicenda del libretto di Louis Fuzelier, dalla trama semplice e funzionale: Phani, principessa Inca, si innamora di Carlos, conquistare spagnolo, possente uomo venuto dal mare, Huascar, sacerdote del Dio Sole, segretamente innamorato di Pahni, ostacola in ogni modo il loro amore; sullo sfondo la conquista del Perù da parte di Francisco Pizzarro (del 1532 la spedizione che gli consentì di distruggere l’impero Inca).

L’opera di Rameau e Fuzelier mantiene nei confronti dei personaggi e di quelle terre lontane uno sguardo di superficie, uno sguardo eurocentrico, di superficie, che assorbe ciò che europeo non è nell’esotismo della figura del sacerdote Huascar, tra oscurantismo e fanatismo religioso. Nessuna curiosità antropologica, nessuna messa in discussione di ciò che hanno significato – e significano – il colonialismo e la conquista di terre, la distruzione sistematica, di popoli e civiltà.


Todos los males  alterna momenti girati in teatro, dove vengono brechtianamente forniti particolari stranianti o dietro le quinte inaspettati, a riprese del pubblico mentre prende posto nella sala e si fa spettatore dell’opera, ai momenti effettivi della fiction e al loro making-of. 

Anagoor ricostruisce un mondo possibile per gli Inca protagonisti della vicenda e per i conquistadores attraverso una fotografia sapiente e mantenendo, ci è sembrato, lo stesso sguardo svelatamente europeo, scorretto e di superficie che caratterizzava l’opera di Rameau – Fuzelier, secondo una chiave di lettura esplicita e subito fornita allo spettatore: se a inizio film veniamo informati di come i variopinti e ricchi abiti siano un segno importante della civiltà Inca, durante tutta la pellicola i protagonisti Inca della vicenda saranno sempre mostrati nudi o seminudi, i corpi dipinti.  

Il lavoro è stratificato e complesso, in grado di allargare il proprio piano e svelare l'insieme per poi tornare sul dettaglio. Da sottolineare la composta e intensa partecipazione della piccola comunità peruviana coinvolta, che si è prestata al gioco della rappresentazione portando e offrendo corpi, danze e sguardi e ancora domande: è davvero cambiato il nostro modo di guardare l'Altro? Siamo in grado di distinguere la danza originaria e quella codificata dai colonialisti? Siamo consapevoli di cosa abbiamo perduto in questo passaggio dal dio sole al dio denaro? Difficile sottrarsi a queste domande come non sembra possibile, per il pubblico accorso ad assistere all'opera-balletto, evitare di essere colpito dalla luce riflessa degli specchi che due tecnici muovono manualmente puntando ora qua, ora là, nella platea. Non arriveranno ad accecare nessuno, ma sicuramente infastidiranno. "Riflessioni scomode!" pensa sorridendo la nostra Oca. Che cosa ho visto? Luce, Sole, Oro, Cenere e corpi dipinti.

Che cosa ho visto? Luce, Sole, Oro, Cenere e corpi dipinti. 


Vetro di Giselda Ranieri

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Foto di Loris Slaverio

La performance Vetro è un solo di danza e voce, nato dall’esperienza di Nostalgia del Presente, una serie di laboratori in contesto urbano e archeologico che Giselda Ranieri, danzatrice e coreografa, ha condotto in collaborazione con Margine Operativo tra il 2023 e il 2024.  Di quell’esperienza, in questo lavoro site specific presentato a Opera Prima, rimane traccia nel dialogo ben condotto che si instaura tra l’interprete, il qui e ora del luogo e delle persone che lo attraversano e con la musica.

La creazione musicale è affidata a Zoe Pia, clarinettista sarda che contamina sonorità della sua terra (campanacci e strumenti di artigianato etnico) e musica elettronica riuscendo a costruire durante tutta la performance suggestivi paesaggi sonori.

Il pubblico, lo spazio di Piazza Vittorio Emanuele II, l’imprevisto, riconosciuto e cercato, vengono sempre sapientemente utilizzati.

Il lavoro diverte e coinvolge il pubblico e tutto diventa occasione per improvvisare in una danza che celebra l’incontro, la casualità, l’inaspettato e il quotidiano fatto di gesti, abitudini, atteggiamenti.


L'urlo e altre falistre. Rito a due voci di Teatro del Lemming

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Foto di Loris Slaverio

L’urlo e altre falistre riprende lo spettacolo Cinque sassi che il Teatro del Lemming presentò nel 1994 alla prima edizione del Festival Opera Prima e che portò il lavoro della compagnia all’attenzione del pubblico e della critica nazionale, anche grazie alla segnalazione come miglior spettacolo al Premio Ubu fatta quell’anno da Franco Quadri.

Lo spettacolo originario era ricco, abitato da molti attori e frantumato in più voci. Questa rilettura si presenta al contrario minimale. Due voci, quelle di due fratelli, Marco Munaro, il poeta, e Massimo Munaro, l’attore, e la parola. levigata ed essenziale anche quando quotidiana e dialettale, ad attraversare l’infanzia, la memoria, i luoghi, i personaggi, la casa, i paesaggi, il tempo, il fiume... Due voci che si chiamano, si aspettano, si passano il testimone in canto unico e profondo. C’aria di famiglia nell’impasto dei suoni, dei timbri, nell’incedere, si sentono un’energia e una presenza che incantano e consentono alle parole di emergere chiare e definite da un passato che parla a tutti e in tutti richiama quel qualcosa di unico e segreto, profondo e comune.

Sono poesie che riportano all’infanzia e all’adolescenza, età in cui il mondo si scopre e si nomina, attraversato da immagini e sensazioni da conservare in profondità al riparo dal tempo.

Falistra è un termine dialettale - e il dialetto è quello altopolesano della madre dei due interpreti – dal doppio significato: scintilla di fuoco e piccolissimo fiocco di neve. Potente immagina domestica la prima, delicato elemento del paesaggio la seconda, in entrambi i casi qualcosa che durerà poco nel tempo e nella forma, qualcosa di effimero tra gli effimeri.

Lasciandoci condurre in questo prezioso viaggio ci sorprendiamo a pensare che il reading L’urlo e altre falistre, è un richiamo all’infanzia che è stata e nuovamente sarà per altri e in altre vesti, è un ponte che ci riporta a un qualcosa di nostro e bello che sempre ci aspetta, è il ricordo forte e materico di un sogno.

Ed è proprio la casa editrice Il Ponte del Sale, di cui il poeta Mauro Munaro è responsabile, l'ultima delle scoperte dell'Oca in terra rovigina: ci ha messo il becco, l'ha visitata e ci ha lasciato il cuore. Qui.


Il pianista di Yarmouk di Aeham Ahmad

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Foto di Loris Slaverio

Il Festival Opera Prima si avvia alla sua conclusione e lo fa nel migliore dei modi: siamo nuovamente accolti nei Giardini due Torri per il concerto di Aeham Ahmad, il pianista di Yarmouk.

Aeham Ahamad nasce nel 1988 nel campo profughi di Yarmouk, a Damasco, da una famiglia di origini palestinesi. È spinto dal padre, violinista a suonare fin dall’età di 5 anni il pianoforte. Nel 2011 scoppia la guerra civile in Siria e Aeham Ahmad decide di portare in strada il suo pianoforte e suonare per le strade, tra le macerie, sotto gli occhi dei cecchini. Vuole ridare speranza. Nell’aprile del 2015 l’Isis dà fuoco al suo pianoforte. Aeham decide di scappare e come tanti attraversa il Mediterraneo in gommone per poi, da Lesbo, seguire la rotta balcanica e arrivare in Germania, dove vive in un centro di accoglienza.

In seguito alla notorietà raggiunta per le immagini e i video di quando suonava a Yarmouk tra le macerie – e che sono costati la vita all’amico Niraz Saied che le aveva scattate – Aeham diventa un simbolo e viene invitato a esibirsi in tutta Europa (per un interessante approfondimento su questo aspetto rimandiamo  l’intervista rilasciata durante  da Aeham-Ahamad nei giorni del Festival per Lucy sulla cultura).

Invitare Aeham-Ahamad, sul palco di Opera Prima insieme al sassofonista Steve Schofield, è una scelta molto importante della direzione del festival. Significa accendere i riflettori sui conflitti siriano e palestinesi, puntare il dito sul velo di ipocrisia della vecchia Europa, e farlo nel modo più puro e umano: attraverso la musica, la lingua del cuore che tutti capiscono.


Festival Opera Prima - XX edizione, Rovigo, 26>30 giugno 2024


CREDITI


Rivolti - MOMEC_Memoria in Movimento

da un'idea di Mario Previato

con Fiorella Tommasini, Antonia Bartagnon

assistenza e cura Nadia Polletti

allestimento Fioreria Boscolo di Marta

assistenza tecnica Silvia Massicci

produzione Festival Opera Prima


Voodoo - Masque Teatro

ideazione Lorenzo Bazzocchi

con Eleonora Sedioli

tecnica Angelo Generali


What did I just do? - Fabio Liberti

un lavoro di Fabio Liberti

con Maud Karlsson Lima de Faria

scenografia Fredrik Borg

luci David Nicolàs Abad

drammaturgia Sara Zivkovic Kranjc

produzione MUOVI/Fabio Liberti - Carlos Calvo


Quijote! - Teatro Nucleo

regia Horacio Czertok, Natasha Czertok

con Lisa Bonini, Francesca Caselli, Horacio Czertok, Stefano Del Biondo, Giovanna Latella, Martina Mastroviti, Giovanni Simiele

scenografia Laboratorio Scenografia Pesaro di Lidia Trecento, Remi Boinot

costumi Remi Boinot, Maria Ziosi


Linearity - Joshua Monten

coreografia Joshua Monten

con Alina Lugovskaya, Yiorgos Pelagias

costumi Sandra Klimek

sound desing Matthias Schoch

drammaturgia Florence Rucksthul

produzione Verein Tough Love - Centre de Création Helvétique des Arts de la Rue (CCHAR) Das Tanzfest Bern


Fio azul - Collettivo Rosario

con Sara Capanna, Francesca Cristoforo, Simone Magnoni, Linda Palazzolo, Gennaro Pantaleo, Luna Pauselli, Valentina Romizi, Andrea Sampalmieri, Silvia Sasso, Sara Tinti

direzione artistica Charles Raszl


Attorno a Troia_Troiane - Teatro del Lemming

con Diana Ferrantini, Veronica Di Bussolo, Giovanni Cataldi, Martina Aspidistria, Maddalena Del Maso, Francesco Marzotto, Marta Plescia, Simone Spes, Carlotta Zampieri

drammaturgia, musica, regia Massimo Munaro


Todos los males. Tutto il male possibile - Anagoor

un film di Simone Derai

da un progetto artistico ANAGOOR

tratto dall'allestimento de LES INCAS DU PEROU/LES INDIES GALANTES

musica di Jean Philippe Rameau

libretto di Louis Fuzelier

direzione della fotografia Giulio Favotto

montaggio Simone Derai, Elia Risato

scene e costumi Simone Derai

interpreti principali Juana Myriam Chero Tarazona, Maria Elena Soto Chero, Marco Ciccullo, Cristian Alexis Alarcon Jara, Ekaterina Protsenko, Nicholas Scott, Matteo Dolcini

produzione ANAGOOR | KUBLAI FILM


Vetro - Giselda Ranieri

concept, danza, voce Giselda Ranieri

live music a cura di Zoe Pia

produzione ALDES

in collaborazione con Attraversamenti Multipli


L'urlo e altre falistre. Rito a due voci - Teatro del Lemmin

con Marco Munaro, Massimo Munaro

poesie Marco Munaro

musica e regia Massimo Munaro


Il pianista di Yarmouk - Aeham Ahmad

piano e voce Aeham Ahmad

sassofono Steve Schofield


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oca, oche, critica teatrale
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