Abbiamo incontrato Daria Deflorian e Antonio Tagliarini il 23 aprile 2022 alla Triennale di Milano, in occasione delle repliche milanesi di Avremo ancora l’occasione di ballare insieme.
Pubblicando solo ora, a distanza di mesi, l’intervista, abbiamo sentito la necessità di farla precedere da un breve aggiornamento riguardo i progetti di cui ci hanno parlato Daria e Antonio (alcuni arrivati a compimento, altri ora in fase di attuazione), in modo che il lettore possa attraversare questo arco temporale senza rimanerne disorientato.
Il 31 maggio (con repliche fino al 3 giugno) presso La Comédie de Genève ha debuttato En Finir, spettacolo di fine corso del Bachelor Teatro della scuola di formazione La Manufacture di Losanna, regia e drammaturgia di Daria Deflorian, testo di Édouard Louis, da En finir avec Eddy Bellegueule e Changer: Méthode.
Nei mesi di giugno e luglio 2022 lo spettacolo ha girato in turnè tra Francia e Svizzera (8 Giugno Théâtre Benno Besson, Yverdon / 10 – 11 giugno Théâtre Popolaire Romand, La-Chaux-de-Fonds / 26 giugno Belluard Bollwerk Festival, Fribourg / 29 giugno – 2 luglio Théâtre de Vidy-Lausanne / 19 – 20 Luglio Festival Paris L’Été, France).
Dopo essere stato presentato a Venezia alla 79esima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica è in questi giorni nelle sale il documentario di Greta De Lazzaris e Jacopo Quadri Siamo qui per provare che, con uno sguardo delicato e attento, ci consente di entrare nel lavoro teatrale di Deflorian/Tagliarini, impegnati insieme agli altri attori della compagnia nelle prove di Avremo ancora l’occasione di ballare insieme.
Un’opera complessa, articolata su più piani, che si muove continuamente tra palcoscenico e vita che scorre accanto.
Infine sarà possibile vedere alla Triennale di Milano dal 19 al 23 Ottobre la performance Sovrimpressioni che insieme allo spettacolo Avremo ancora l’occasione di ballare insieme e al documentario Siamo qui per provare costituisce una sorta di trittico del grande lavoro che Deflorian/Tagliarini hanno condotto intorno al film Ginger e Fred di Federico Fellini.
Il 20 ottobre, sempre in Triennale, verrà presentato il volume Tre film. Cinque drammaturgie dedicate al cinema di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, a cura di Luca Sossella Editore.
Alla Triennale di Milano Deflorian/Tagliarini sono artisti residenti fino al 2024.
Intervista a Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
(intervista del 23 Aprile 2022)
Incontriamo Daria Deflorian e Antonio Tagliarini al bar della Triennale di Milano. Tra poche ore saranno in scena per la terza replica milanese del loro ultimo lavoro, Avremo ancora l’occasione di ballare insieme. Li intervistiamo separatamente: ci spiegano che il tempo è poco e che si passeranno il testimone dell’intervista. Iniziamo con Daria.
O.C.A.: Una domanda semplice… l’ultimo libro che hai letto?
Daria: L’ultimo libro che ho letto è Changer: méthode di Édouard Louis, libro che non esiste ancora in italiano. Édouard Louis è un autore che io e Antonio abbiamo fatto entrare dentro il nostro percorso di lavoro in maniera abbastanza particolare, perché fino a Qui a tué mon père [Chi ha ucciso mio padre] avevamo sempre lavorato su nostri testi. Ma, proprio per l’intensità e la complessità del creare ogni volta queste drammaturgie che nascono sul palcoscenico e non a tavolino, avevamo bisogno di “fare una pausa continuando a lavorare”.
Poi un paio di mesi fa Édouard mi ha telefonato per chiedermi una cosa molto particolare che mi ha messo di fronte a una decisione per me difficile da prendere in poco tempo: se volevo fare la regia del saggio di uscita di diploma (in francese spectacle de sortie) di una scuola molto interessante di Losanna, La Manufacture.
Édouard aveva lavorato con i ragazzi sulla sua produzione letteraria e la direzione della scuola aveva deciso che questo spettacolo di uscita degli studenti sarebbe stato a partire dai suoi testi. Per una serie di traversie né Édouard né un’altra persona che si era inizialmente proposta hanno potuto farlo: farò io la regia. Sto preparando la drammaturgia a partire da questo incredibile ultimo libro Changer: méthode che quindi ora sto leggendo e rileggendo impedendomi di leggere qualunque altra cosa perché non ho tempo, lo spettacolo sarà a fine maggio. Anche questa per me è una novità: “a tempi brevissimi”. Chiedevo consiglio l’altro giorno a Massimiliano Civica, gli ho detto: Massimiliano, come faccio io, che ci metto un anno e mezzo a fare un lavoro, a preparare una regia a 15 attori, in francese, da un romanzo che non ho ancora trasformato in una drammaturgia, in tre settimane? E lui mi ha risposto: beh, se si hanno due anni ci si mette due anni, se si hanno tre settimane ci si mette tre settimane. Changer: méthode è un libro molto bello, molto difficile. Più che aneddotico, è un libro che riflette su quanto sei costretto a trasformarti per cambiare classe sociale. Édouard parla del momento in cui, andato via dal proprio paese, è arrivato nella cittadina in cui ha frequentato il liceo e si è imposto di ridere in maniera meno volgare, di cambiare l’accento, di camminare in maniera meno sconnessa, non perché fosse obbligato ma perché in qualche modo era attratto dall’eleganza del mondo borghese che stava incrociando.
È un libro pazzesco, a un certo punto tu arrivi a pensare quasi a un’invenzione. Io non so se è tutto vero. È andato in tribunale a cambiarsi nome e cognome. In Changer: méthode Édouard racconta tutte le trasformazioni che ha fatto per sdradicare da sé non tanto un’infanzia o una povertà, ma le ingiurie e la violenza rispetto a quello che lui era e alla sua femminilità interna. Il padre gli aveva dato un nome da duro, Eddy, e lui lo ha cambiato in Édouard. Io partirò da qui nel lavoro che farò.
O.C.A.: È un lavoro quasi al contrario dei vostri: voi partite sempre da una sovrastruttura che qualcuno vi pone e poi voi nei vostri spettacoli si vede come cercate di rastremare per arrivare a un’essenza, a un gesto essenziale. Al tempo stesso hai parlato di riflessione e a me sembra che nei vostri lavori più che un accadimento ci sia proprio questo, la messinscena della “riflessione su”, quindi in questo senso è perfettamente naturale.
Daria: La dimensione autobiografica e la dimensione “finzionale”, il partire da un oggetto esterno e come portarlo a sé, oppure il partire da sé e come trasformarsi quasi in un oggetto esterno, sono dimensioni che col passare degli anni, da quando abbiamo cominciato a trovare questa nostra lingua, non sono mai state univoche e uguali. Ogni progetto spinge più da una parte o dall’altra.
Il cielo non è un fondale spingeva molto dalla parte dell’autobiografia, perché non aveva un oggetto di partenza, se non l’amore e la passione per i libri di Annie Ernaux, che non a caso è stata, insieme a Didier Eribon, una delle maestre di Édouard Louis.
Quindi da una parte c’è uno sbilanciamento verso quello che è usare sè stessi per parlare del mondo; non tanto una dimensione intimistica, quanto una scelta di intimità. L’intimità vista come strumento per far riflettere lo spettatore su questioni che sono collettive, non strettamente personali. In questo senso, non è mai l’aneddoto che conta, perché quello è soggettivo, ma come far sì che quel fatto della vita, raccontato attraverso quei dettagli che solo l’esperienza diretta può permettere – perché è grazie al dettaglio che scavi nell’immaginario dell’altro, non attraverso la macrostoria – sia un momento, ripeto, di riflessione, nel senso di rispecchiamento avvenuto prima all’interno del gruppo di lavoro e poi insieme al pubblico presente in sala. La riflessione è aperta, non è definitiva, “morale”, continua a spostarsi impercettibilmente ad ogni replica.
Raccontare una cosa non vuol dire lasciarla così com’è, ma vuol dire trasformarla anche attraverso la distanza che c’è tra la memoria e il presente.
OCA: La distanza, hai detto, tra memoria e presente, che effettivamente è lo scollamento che c’è nei vostri spettacoli tra l’essere e il raccontarsi.
Daria: Quello che cerchiamo ogni volta, ogni sera, ogni minuto, ogni replica, è la scommessa di essere presenti. La presenza è un mistero: non la puoi convocare per forza e non la puoi convocare sicuramente per la totale durata di uno spettacolo. A volte tu senti che per la durata di una scena la presenza ti sta attraversando, perché tutti quegli elementi che in un qualche modo formano il lavoro dell’attore invece che essere lì per dimostrare qualcosa, per esibirsi, diventano una specie di trasparenza: tu riesci a toglierti di mezzo e la cosa parla per te. È come un paesaggio, tu diventi un paesaggio. Si tratta di un orizzonte, non c’è nulla di garantito ed è chiaramente e profondamente legato alla presenza di quel momento. Quella memoria che tu durante un periodo di prova hai rimesso in vita attraverso le improvvisazioni e hai poi costruito e legato in una drammaturgia aveva un valore preciso, fondante, ma tu fai quello spettacolo sei mesi dopo, la tua vita è completamente cambiata e quella cosa che era prioritaria non lo è più. Come fai a non tradirla, ma nello stesso tempo portare anche la tua presenza? Proprio attraverso questa possibilità non conciliatoria - cioè, quella roba là non sei più tu, è qualcuno che sei stato, quindi è comunque un personaggio. Quando io faccio Il cielo non è un fondale non sono la stessa di Quasi niente, non sono la stessa di Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, nello stesso tempo ogni replica, ogni momento con il pubblico, io sono me stessa nel momento presente, lì quella sera.
O.C.A.: Di recente ho visto uno spettacolo, l’inizio dello spettacolo mi ha ricordato un modo alla “Deflorian/Tagliarini” di essere naturali in scena, ma l’effetto sortito è stato pessimo. Per me è evidente che non è facile quello che fate, invece sembra che per molti sia replicabile impunemente, nel senso di “parliamo un po’ come se fossimo al bar, andiamo in scena, portiamo due discorsi”. Ma questa non è drammaturgia, è un autogol clamoroso.
Daria: È una questione molto delicata: tutto è sempre in bilico e anche noi rischiamo molte volte di essere “alla maniera nostra”. A volte quasi vorrei strapparmi di dosso tutto per ricominciare ed evitare questo rischio, ma nello stesso tempo – e queste repliche milanesi me lo stanno dimostrando positivamente – è proprio continuando a lavorare, continuando a ridire le stesse cose – che la ricerca continua. Questa ricerca di presenza, però, è un lavoro che prevede lo scavallamento del naturalismo. Se uno entra nelle nostre sale prove fino a un certo punto pensa che non sappiamo recitare perché siamo pessimi nel riproporre noi stessi e quella freschezza che inizialmente hanno prodotto le improvvisazioni. Bisogna superare quel momento lì, andare oltre e, come dire, connettersi proprio attorialmente a sé, sono fondamentali alcuni “paletti” (come quelli dello slalom, che non puoi saltare se vuoi stare in gara) che tu devi riattraversare. Non a caso uno dei laboratori che tengo per attori e attrici si chiama Esercizi di libero rigore, perché se non c’è il rigore, è il caos, nel senso che va bene tutto, e invece non va bene tutto. La scena è fatta di estremo rigore e di una quantità di lavoro infinita.
O.C.A.: Anche quello forse, la quantità di lavoro. Voi per arrivare impiegate tantissimo tempo, se uno ci vuole arrivare subito sbaglia strada e si perde.
Quando avete iniziato tu e Antonio con lo spettacolo su Pina Bausch e poi con Reality eravate voi due, avete trovato questo linguaggio, questa modalità straordinaria, successivamente avete aperto il lavoro a colleghi. Avete scelto persone che erano già sulla vostra linea oppure insieme avete dovuto ricalibrare tutto?
Daria: Ci sono stati incontri diversi. Per esempio l’incontro con Francesco Alberici, per quello che mi riguarda, è sicuramente l’incontro con una similitudine molto forte. Francesco era già in un qualche modo vicino a noi prima di conoscerci. Meraviglioso, istruttivo reciprocamente, è un incontro come quello con Monica Demuru che viene da una dimensione musicale e di capacità imitativa molto diversa dalla nostra, però noi ci siamo proprio innamorati di Monica come lei si è innamorata di noi. Quindi a volte sono belli degli incontri per vicinanza, ma non è sempre interessante perché rischia di essere una fossa, finisce che poi non ti rinnovi, quindi tante volte è meglio l’incontro con qualcuno che ti porta altre ricchezze, altri strumenti. Un altro esempio – faccio solo questi due esempi, ma li potrei moltiplicare per gran parte delle persone che abbiamo incontrato – è Monica Piseddu, un’attrice che ha fatto la Silvio d’Amico, più accademica di noi (io e Antonio siamo come si suol dire dei ‘cani sciolti’). Anche in questo caso la differenza è fondamentale, però ci deve essere un reciproco desiderio di conoscenza dell’altro. Normalmente noi non facciamo provini e anche quando scegliamo qualcuno che non conosciamo tendiamo a fare dei giorni di lavoro insieme e a stare con quella persona, perché c’è di mezzo una importante dimensione umana: quanto tempo posso stare in una sala prove con quella persona? Come diceva giustamente ieri sera Antonio nell’incontro con il pubblico, bisogna considerare anche il baratro dell’incertezza in cui noi mettiamo le persone: il non avere un copione determinato fino a pochi giorni o a volte anche dopo il debutto. Non è la bravura la cosa fondamentale, deve esserci anche la coincidenza di percorso in quel momento della vita. Lavorare con noi è difficile, siamo piuttosto estenuanti in questo non sapere, non determinare, in questo – come spesso diciamo in maniera un po’ sintetica – spostare il teatro in là. Sembra sempre che le prove siano una grande indagine, apri apri, apri, e poi a un certo punto c’è sempre qualcuno che un giorno dice “vabbè, ma lo spettacolo, quando lo prepariamo?”.
Ringraziamo Daria e salutiamo Antonio che nel mentre ci ha raggiunto. La prima domanda la fa lui a noi, ci chiede se siamo di Milano, perché si sta trasferendo qui da Roma. Parliamo un po’ di Genova e Lisbona. Antonio si dichiara soddisfatto di questa sua scelta del trasferimento: cambiare luogo, dice, mette in una situazione più dinamica, di apertura, di sfrontatezza, “un reset interessante”.
Nel frattempo abbiamo riacceso il registratore.
O.C.A.: Anche a te chiediamo qual è l’ultimo libro che hai letto.
Antonio: Io faccio spesso l’errore di leggere più libri contemporaneamente, in questi giorni sto rileggendo un libro che ho amato molto Le particelle elementari di Houellebecq, e due giorni fa ho cominciato un altro libro, che si apre con una visione, che mi ha colpito. Inizia dicendo che se lanci un sasso in un torrente dove l’acqua scorre in maniera rapida e disordinata, questo sasso scomporrà poco quella dinamica, la sua azione sarà rapidamente assorbita dal caos generale. Se, invece, lanci un sasso in un lago fermo questa piccola azione avrà una conseguenza potente: non solo per i cerchi che si formeranno, ma arriverà fino ai bordi del lago, fino ai granelli di sabbia della spiaggia. Nel libro si parla di una donna – non so ancora se sia la protagonista – che ha vissuto fino a quarant’anni in una situazione di estrema tranquillità, e tu cominci a capire che la sua vita sta per cambiare, si sta per sconvolgere, perché lei si è resa conto che fino a quel momento ha vissuto in assenza di amore. La sua vita è tranquilla, sicura, forse troppo tranquilla, ma qualcosa sta per arrivare, te lo aspetti da un momento all’altro.
O.C.A.: Quindi, tornando al tuo trasferimento a Milano, essere in movimento permette di assorbire meglio anche i sassi?
Antonio: Lo spero davvero! Posso dirti che sono in un momento della mia vita di forti cambiamenti. Sicuramente mi sento più vicino ad un torrente che a un lago: estremamente curioso al mondo e agli altri.
Essendo artista residente proprio qui alla Triennale ho deciso di attivare un processo di ricerca personale profondo. Dopo tanti anni di esposizione vorrei rallentare il momento spettacolare a favore della ricerca. Vorrei iniziare questo processo nell’autunno 2022 e continuare nel ’23. Vorrei lavorare su tre linee di ricerca, una più incentrata sull’ambiente sonoro, una più sull’essere fuori luce, sul non essere a fuoco, sull’oscurità e infine una terza a partire dai costumi, dai vestiti, dagli oggetti. Vediamo...sono un torrente in movimento.
O.C.A.: Il lavoro che hai fatto con Daria fino a questo momento è molto sulla parola, una parola che riempie. Data anche la tua formazione di danzatore, in questi lavori ci sarà un ritorno al movimento?
Antonio: Penso proprio di sì, la mia matrice è il corpo, lo spazio. Nello spettacolo che vedrete questa sera tra l’altro io e Daria giochiamo proprio su questo conflitto parlare/ballare. Io, comunque, ho sempre parlato in scena, anche prima di iniziare questa lunga e potente collaborazione con Daria. Il mio primo amore è stata la danza, ma mi sono sempre definito un performer. Sicuramente voglio ritornare al corpo e allo spazio; ho voglia di essere leggero, stupido, profondo, intelligente, esilarante, sfacciato, e ho voglia di ballare ma anche di usare la parola.
Ho un rapporto col teatro complesso. Per esempio sono sempre stato abbastanza contrario all’idea di lavorare sul personaggio. Io non lavoro mai direttamente su un personaggio, anche se in ogni progetto c’è sempre una sottile alterazione della presenza scenica. Più che di personaggio preferisco parlare di figura. Faccio un esempio: quando abbiamo lavorato su Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, senza che nessuno l’avesse mai detto, il nostro modo di sederci, di camminare, di girare la testa, di usare le mani aveva una certa compostezza, una qualità a noi molto chiara anche se molto sottile, perché in qualche modo incarnavamo quattro pensionate greche, senza però volerle rappresentare.
O.C.A.: Voi lasciate gli spettatori estremamente liberi di seguirvi proprio perché vi sottraete. Proprio il fatto che non ci sia il personaggione costruito lascia lo spettatore veramente libero di immaginarsi le cose.
Antonio: Beh lasciare uno spazio all’immaginazione è fondamentale.
Il palcoscenico è lo spazio della libertà, dell’impossibile, dell’utopia, dell’immaginazione.
I nostri spettacoli non hanno personaggi, nel senso tradizionale del termine, hanno un plot narrativo chiaro ma molto sottile, e questo a volte può lasciare disorientato un certo tipo di pubblico più abituato a spettacoli tradizionali.
Mia madre, mia sorella e mia nipote, tre generazioni diverse, non sono appassionate di teatro, vengono a vedere solo i miei spettacoli. Recentemente hanno visto la nostra versione di Chi ha ucciso mio padre di Édouard Louis. Il testo è una scrittura chiara: la figura di un figlio che parla con suo padre, uno è il figlio, l’altro è il padre. Sono uscite entusiaste, avevano capito tutto. A volte invece escono dagli spettacoli che scriviamo noi un po’ più confuse, con più dubbi. Ma è proprio in questo spazio di incertezza e allo stesso tempo di intimità che creiamo con lo spettatore che noi costruiamo il nostro lavoro.
Lo spettacolo che presentiamo qui alla Triennale in questi giorni, Avremo ancora l’occasione di ballare insieme, è più complesso, ci sono più figure che si sovrappongono sullo stesso interprete: Ginger Roger e Fred Astaire, Giulietta Masina e Marcello Mastroianni, Federico Fellini, Pippo e Amelia, Daria e Antonio, ci sono vari strati che incorporiamo e che non abbiamo voluto semplificare e schematizzare.
O.C.A.: Anche in Quasi niente, voi lavorate “partendo da”...
Antonio: In Quasi niente eravamo tutti innamorati di Giuliana [il personaggio interpretato da Monica Vitti in “Deserto Rosso” di Michelangelo Antonioni, ndr]. C’è stato un momento all’inizio delle prove in cui Daria aveva proposto che le tre attrici incorporassero Giuliana in tre momenti diversi della sua vita. E io ho detto: eh no, anche io sono Giuliana! Cerco di spiegarmi. Anche a me interessava incarnare la figura di Giuliana per la questione che lei solleva, una questione che tutti abbiamo toccato una volta nella vita: il non riuscire a stare nella realtà, il sentirsi sopraffatti dalla propria emotività, da una depressione invisibile ma potente. E alla fine così è stato, sia le tre interpreti femminili sia i due maschili dello spettacoli incorporavano questa questione declinata e filtrata dal sé. Devo dire che finché eravamo solo io e Daria questa specie di sconfinamento tra noi e la figura, era un po’ più semplice; quando abbiamo cominciato a essere in scena in tre, o cinque o sei, è stato necessario fare delle ipotesi drammaturgiche più complesse.
O.C.A.: Sia nei lavori in cui siete tu e Daria, sia in quelli in cui sono coinvolti anche altri attori, c’è un uso dello spazio scenico che può sembrare semplice e spontaneo, ma che già a una seconda visione appare preciso, rigoroso.
Antonio: Sì, lo spazio scenico è assolutamente preciso e rigoroso, anche se semplice alla prima visione. All’inizio di ogni creazione con tutto il gruppo si lavora tantissimo con improvvisazioni sullo spazio, sulla prossemica. Lavoro che poi rimane più invisibile ma che è fondativo. Faccio un esempio: il punto di partenza per lo spettacolo Quasi niente è il film Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni. Il cinema ha la possibilità di dirigere lo sguardo dello spettatore attraverso la telecamera: campi lunghi, primi piani, ecc…
In teatro questo non è possibile. Lo spettatore si siede ed ha una visione intera di tutto lo spazio scenico. Questo limite è diventato per noi oggetto di studio, di ricerca e da limite si è trasformato in una risorsa creativa, spaziale e drammaturgica molto feconda.
O.C.A.: Lavorando su un tema come fate voi, poi succede che la vita di quel periodo la leggi un po’ alla luce di quello.
Antonio: E’ assolutamente così!
Diciamo che è un processo omeopatico, perché ti immergi in un tema e devi imparare a farne i conti intimamente. Inoltre, spesso, ti rivela qualcosa di te stesso e del mondo che forse non conoscevi. È un percorso di conoscenza.
La scelta stessa del tema e delle cose in cui immergersi rivela qualcosa di noi. Se le abbiamo scelte non è un caso, però inizialmente è una scelta intuitiva, un salto nel buio.
È un po’ come quando entri in una casa e dici sì, questa potrebbe essere casa mia, poi entri in un’altra casa e dici no, questa no. Non sai perché, ma lo sai. Poi dopo ritorni nella “casa del sì” e cerchi di capire perché hai detto sì. È come se cogliessi qualcosa e poi devi verificare e verificandolo la cosa sorprendente è che scopri dell’altro. Proprio come quando metti in moto un processo di ricerca o di investigazione. Io devo dire che Ginger e Fred non è uno dei nostri film preferiti, però il fatto che si parlasse di una coppia di artisti ormai anziani, non delle star ma degli artisti dimenticati da tutti che si rincontrano dopo trent’anni, conosciuti per un numero di tip-tap in cui imitavano le due star Ginger Rogers e Fred Astaire, ha aperto tra me e Daria delle domande creative molto fertili e ci siamo buttati in questa nuova avventura. All’inizio è sempre un salto nel buio in cui devi ritrovare quella intuizione luminosa che in un momento hai intravisto.
O.C.A.: Voi portate spesso in scena il come delle cose più che le “cose”.
Antonio: Forse perché in qualche modo è una domanda viva che sentiamo.
Prendiamo Reality, un nostro spettacolo in cui ci siamo immersi nei 748 quaderni che Janina Turek ha compilato tutti i giorni per più di 50 anni, in cui lei annotava tutti quei piccoli fatti del quotidiano che sarebbero sicuramente stati dimenticati. Pranzi, cene e colazioni, visite fatte e ricevute, programmi televisivi, oggetti trovati per strada, persone viste di sfuggita a cui si è detto buongiorno, telefonate fatte e ricevute…
Questa normale casalinga di Cracovia ha creato un archivio incredibile di piccoli fatti del quotidiano che incrociavano la grande storia: l’occupazione nazista, il blocco sovietico, la caduta del muro di Berlino. Io e Daria eravamo entusiasti e allo stesso tempo sconvolti di fronte a questo gesto incomprensibile: perché lo ha fatto? Poi ci siamo chiesti: come lo restituiamo in teatro tutto questo? Se ci pensi troppo ti blocchi. Ma le risposte le trovi soltanto lavorando, immergendoti in un processo di ricerca creativa. La cosa meravigliosa penso sia proprio questa, da una parte pensare, fare delle ipotesi e nello stesso tempo darsi un tempo per aprire qualcosa che tu ancora non conosci. Ti devi sorprendere e ti sorprendi quando stai per un po’ sulla stessa cosa in tempi diversi, per cui hai la giornata buona, la giornata cattiva, la giornata che sei disperato, la giornata che invece hai un’intuizione drammaturgica fondamentale e ti sembra che allora tutti quegli sforzi abbiano avuto senso.
Abbiamo avuto quest’anno l’occasione di rifare per due settimane Reality a Bruxelles e a Ginevra ed è meraviglioso vedere come uno spettacolo di 10 anni fa sia assolutamente attuale.
A proposito del “come delle cose” è una questione, sottile ma fondamentale, anche di quando vai in scena, la presenza scenica. Come attraversare una struttura di fronte a un pubblico rimanendo sempre vivi e mobili? È mettersi sempre un po’ a rischio sapendo che hai una struttura che ti sostiene. Più la struttura la conosci e più ti puoi permettere di avere libertà sapendo dove stai andando. Se ti metti troppo al sicuro e hai paura, ti succedono meno cose; se lo sei troppo poco cadi e ti fai male. Devo accogliere come oggi mi sento intimamente e allo stesso tempo accogliere l’altro che dialoga con me in scena. È sempre una materia viva, imprevedibile ma allo stesso tempo organizzata.
O.C.A.: Un aneddoto per chiudere?
Antonio: A proposito di cadute: l’altro giorno qui sul palco della Triennale di Milano durante la prima io sapevo che per ragioni tecniche non era possibile avere il legno ma il linoleum e io sapevo che dovevo danzare con delle scarpe che sul linoleum funzionavano malissimo. Ero preoccupato, non sapevo come avrei potuto danzare. Mi sono preso un rischio, ho cambiato la dinamica della danza ma ad un certo punto sono caduto in scena. E ho deciso di tenere quella caduta, anche perché Pippo, il personaggio meravigliosamente interpretato da Marcello Mastroianni, alla fine del film mentre balla ad un certo punto cade e quella caduta racconta tante cose. Dobbiamo sempre accogliere l’imprevisto sia sulla scena che nella vita. Intervista a cura di Francesca Picci
Domande di Francesca Picci e Matteo Valentini
Foto di Eva Olcese
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