top of page
Eva Olcese

Teatro Vagante | Black out

carovana_ Ph Roberto Rinaldi
Foto di Roberto Rinaldi

Black-out /'blækaʊt/, it. /blɛ'kaut/ locuz. ingl. [propr. "oscuramento", comp. di black "nero" e out "fuori"], usata in ital. come s. m. È un'interruzione della fornitura di energia elettrica in una determinata area geografica. 


Per estensione: l’interrompersi di un servizio pubblico o di un'attività. Interruzione, sospensione, paralisi. 

Figurativo: silenzio (imposto dalla censura o per autocensura) dei mezzi di informazione. 

Personale: Tutte quelle esperienze che rilasciano una grande quantità di energia, per cui alla fine vi è sempre una sorta di sospensione, che non arreca danni, ma richiede un po’ di tempo affinché tutto ritorni alla normalità, affinché tutti i pezzi del puzzle di cui siamo fatti riprendano posto (magari con disegni diversi).


Periodo di buio, oscuramento.


Il 9 novembre del 1965, negli Stati Uniti avvenne il primo black-out documentato e un'area di 200.000 km² rimase al buio per 12 ore. Si registrarono tre morti, due per arresto cardiaco e l’altra per una caduta dalle scale. Nelle 12 ore di buio, il tasso di criminalità scese invece di aumentare. Al contrario, leggenda vuole che nove mesi più tardi ci sia stata un’impennata nelle nascite. Aneddoto o meno,  Robert Wagner, all'epoca sindaco di New York, definì l'episodio «la più bella notte della città» e nel 1985, per commemorare il ventennale dell'avvenimento, si tennero feste e cerimonie.


Giugno 2022, Italia. “Blackout, siccità e reti elettriche in sofferenza: non inizia bene la stagione nelle principali città italiane, costrette a fare i conti con una richiesta di energia superiore alle attese.” 


Proprio mentre sui giornali campeggiavano notizie allarmanti sulle reti elettriche nazionali in sofferenza e su possibili black out prospettati nelle principali città italiane, io stavo vivendo una mia particolarissima esperienza di "sospensione" in Abruzzo, insieme a una carovana mista di persone e asini, durante il viaggio 100 anni dopo sulle tracce di Estella Canziani – Viaggio d’arte nelle Terre della Baronia a passo d’asino, a cui sono stata invitata da TeatroVagante. Questo è il nome della compagnia fondata da Sara Gagliarducci e Valentina Nibid, due performer accomunate da un processo di ricerca sulla maschera del clown e sul teatro in contesti non convenzionali, che si sono ritrovate artisticamente solo nel 2020. Il loro progetto “Diario di un viaggio teatrale” nasce come una sfida durante il lockdown. Dopo aver incontrato il manifesto del gruppo facebook “Spazio Pubblico dal Vivo”, iniziano a domandarsi come sia possibile riappropriarsi dello spazio pubblico, per viverlo da cittadine prima ancora che da artiste. Comincia così il loro errare attraverso alcuni paesini dell’entroterra abruzzese. Nel 2020 il progetto ha la forma di un “viaggio-baratto”: le due attrici offrono performance teatrali a cappello, incursioni e spettacoli itineranti in cambio di vitto, alloggio e permessi per esibirsi. In un mese di viaggio riescono a raggiungere sette paesi, sostando tre giorni in ognuno dei piccoli borghi. Il venerdì è solitamente il giorno del loro arrivo nel borgo prescelto, quello delle prime relazioni, dell’immersione nelle viuzze e del perdersi tra racconti singoli e collettivi. La partenza è fissata per lunedì mattina. Nei tre giorni di permanenza la compagnia ha il tempo di vivere il paese e la comunità che lo anima, di osservare e porre domande, alla ricerca di percorsi inediti che solo gli abitanti possono regalargli. Due anni dopo proprio in quel giugno 2022 di blackout e di reti elettriche sovraccariche, mi viene proposto di partire con loro. Il progetto nel frattempo è cresciuto, nel 2021 ha incontrato l’interesse del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Inoltre, Sara e Valentina hanno ottenuto alcuni fondi dall’Incubatore di creatività dell’Università dell’Aquila con cui realizzano una residenza artistica itinerante rivolta agli studenti. 


Il viaggio d’arte “100 anni dopo sulle tracce di Estella Canziani” nasce come frutto della collaborazione tra TeatroVagante, l'Università dell’Aquila e l’associazione Gira e Rigira (Luigi Calabrese e Chiara Caglia), che dal 2017 organizza trekking someggiati nel Parco del Gran Sasso. Il ruolo di quest’associazione è centrale nell’organizzazione del progetto: dietro alla loro idea di trekking non vi è soltanto l’intento di creare una relazione tra uomini e animali (durante tutto il viaggio cammineremo al fianco di un asino), ma da tempo tra le loro proposte ai turisti delle terre della Baronia (quella porzione del Gran Sasso meridionale che, parte della Baronia di Carapelle nel basso Medioevo, comprendeva i borghi di Santo Stefano di Sessanio, Calascio e Rocca Calascio, Castelvecchio Calvisio e Carapelle Calvisio e costituiva un bacino pastorale tra i più importanti d’Italia) spiccano le escursioni con approfondimenti culturali, tra le quali spicca una sulle orme di Estella Canziani. L’idea di mettere il testo della pittrice e antropologa inglese al centro del nostro trekking teatrale è venuta infatti a Chiara Caglia, che da sempre ne è grande amante e fervida studiosa.


Through the Apennines and the lands of the Abruzzi. Landscape and peasant life, questo è il titolo del diario - pubblicato in Inghilterra nel 1928, in cui la Canziani riporta fedelmente il viaggio compiuto in compagnia del padre e di un mulo. Per l’Abruzzo costituisce ancora oggi un importante archivio storico della vita contadina e pastorale nel periodo tra le due guerre. La curiosità fervida della viaggiatrice inglese traspare dalle minuziose descrizioni dei borghi e dalle 24 illustrazioni che accompagnano il testo. Tra canti popolari, detti e credenze, giochi da ragazzi e amuleti, molte sono le parole italiane prese in prestito dall’artista che osserva, scrive e dipinge.


L'aria cambiò, le nuvole fluttuavano veloci al di sopra e al di sotto delle cime; le nitide montagne azzurre, le pietre e il castello in rovina assunsero tutte le sfumature del rosa, del violetto e del grigio.


Il primo giorno del progetto incontriamo la prof. Doriana Legge, che all’Università dell’Aquila insegna Storia del teatro e il cui campo di ricerca sono i problemi storiografici. Per conoscerci chiede ad ognuno di noi di racchiudere la propria idea di teatro in una frase. Valentina descrive il teatro come uno spazio: da abitare, che si può creare o portarsi dietro. Per Martina, il teatro è ascesa e discesa; per Eleonora, invece, è vertigine, un posto senza sicurezze, in cui è possibile perdersi e lasciare che le sensazioni prevalgano. La professoressa Legge descrive gli attori come “statue di sale”: spesso non lasciano tracce, se non alcuni riflessi che negli attori di oggi possiamo scorgere degli attori di un tempo. Verso il mondo del teatro e in particolare quello degli attori, c’è sempre un misto di fascinazione e disprezzo, dato dal fatto che si muovano nel mondo con regole diverse, dal loro essere outsider, come testimonia la connotazione negativa che aveva spesso, nei secolo, caratterizzato i termini di “comico” o “istrione”, antenati della parola “attore”, diffuso nel processo di rivalutazione etica e morale a partire dall’Ottocento.



È con le parole della prof. Doriana Legge che la carovana ha iniziato il suo viaggio a fine giugno, ma Sara e Valentina erano già partite da vari giorni. Le sento al telefono, mentre sono in residenza a Carapelle Calvisio, mi rassicurano sull’essenzialità dello zaino e raccontano che stanno facendo dei sopralluoghi nei paesi in cui saremo da lì a pochi giorni. Prima che il gruppo si metta in viaggio sulle tracce della pittrice e antropologa inglese decidono però di fare due giorni di laboratorio nel borgo di Civitarenga negli spazi restaurati dell’ex convento di S. Antonio da Padova, ora Ostello sul Tratturo, che prende il nome dal Regio Tratturo, il cammino della transumanza che collegava L'Aquila a Foggia e passava proprio per la frazione di Navelli. Ci accoglie una facciata rinascimentale e ci immergiamo negli esercizi propedeutici proposti dal duo di Teatro Vagante tra gli affreschi del chiostro all'interno. Così conosco i ragazzi e le ragazze con cui condividerò questo viaggio. C’è Gianmarco, di origine laziale, ma a L’Aquila per studiare ingegneria chimica e Jasmin, viaggiatrice incallita, qui in Erasmus, come l’indiano Megha Shyam, che studia Fisica ma sogna il mondo del teatro. C’è Gianluca che, dopo anni di lavoro, ha ripreso gli studi e nonostante i vent’anni di differenza che lo separano dalla maggior parte di noi, si professa ancora un camminatore irriducibile. Jai dal Gambia è volata fino in Italia per poter continuare i suoi studi in Matematica. Martina studia Biotecnologia e l’unica che sembra più vicina al mondo teatrale per la materia di studio è Sara, studentessa di Scienze Umane.


Per alcuni dei ragazzi è il primo laboratorio teatrale in assoluto (per altri si tratta, invece, del primo trekking), per me si tratta di un alfabeto noto: gli esercizi possono di poco variare, ma si ritorna sempre all’occupazione dello spazio e alla gestione dello sguardo. Trovo molto divertente come questi due compiti, sotto un certo punto di vista apparentemente elementari, una volta messi sotto una lente di ingrandimento, attraverso degli esercizi specifici, finiscano per farci muovere in modo goffo e innaturale. Sara e Valentina correggono i nostri arti e i loro slanci. Ci chiedono di emettere suoni buffi, di seguire correnti energetiche che sentiamo soltanto noi e di agganciare gli sguardi per poi romperne il contatto. Ci affidiamo alle loro indicazioni e scaldiamo il corpo, prima di passare alla costruzione dello spettacolo. Di questa parte sarò testimone privilegiata, ho deciso di tenermi un passo indietro e non recitare, per osservare con più attenzione il processo creativo. 


valentina nibid_ Ph Roberto Rinaldi
Foto di Roberto Rinaldi

Il teatro di Sara e Valentina è un teatro essenziale, privo di troppi orpelli, gli strumenti in scena sono d’accompagnamento alla narrazione: un paio di cembali, un cuatro venezuelano, che Valentina usa per accompagnare le poesie cantate, suonandolo a mo’ di chitarra e, ultimo ma non di importanza, il kamishibai. Kamishibai (纸 芝 居), termine traducibile come "dramma di carta", è un teatro d’immagini di origine giapponese utilizzato dai cantastorie tradizionali. Si presenta come una valigetta lignea nella quale, una volta inserite lateralmente delle tavole stampate, queste vengono via via sfilate in una lettura che diventa animata. Di creare le immagini per il kamishibai si è occupata Sara, mentre Valentina ha scritto di suo pugno un paio di canzoni. Nei giorni di prova a Navelli i miei compagni si vedono consegnare un copione (tratto dal diario della Canziani), ma viene più volte ribadito loro che quello che hanno in mano è solo un canovaccio e dovranno invece mettere nello spettacolo qualcosa di personale. Lo spettacolo finale si vedrà soltanto una volta incontrato il pubblico dei vari borghi. 

Le due serate passano tra uno scambio interculturale di danze e il conforto dato dalla genziana di Gianfranco, in un antico convento che dal 2012 è tornato a vibrare dopo anni di silenzio. Il primo giorno di cammino è preceduto da alcune presentazioni: conosciamo Luigi, la nostra guida escursionistica e i suoi quattro asinelli (Scilla, Donatello, Riccardina e Dafne). Purtroppo Chiara Caglia (di Gira e Rigira) non sarà con noi, ma nel viaggio ci accompagnano il loro collaboratore Mario Fracasso e il blogger Roberto Rinaldi. Carichiamo i nostri zaini sugli asinelli e ci mettiamo in cammino. Ci aspettano 4 giorni di trekking, ognuno dei quali si chiuderà con un “incontro spettacolare”. È con questa espressione, infatti, che Sara e Valentina hanno voluto chiamare le incursioni nei paesini. Alla base di ogni intervento teatrale vi è, infatti, la strenua convinzione che l’idea classica di pubblico vada sovvertita e che lo spettacolo frontale venga sostituito con un’idea di scambio. Negli "incontri spettacolari" di Teatro Vagante, la componente rituale assume un ruolo centrale, travalicando così le distanze fra scena, attore e spettatore, attraverso un'azione che si svolge nel qui e ora insieme agli abitanti del luogo. In ogni paesino, la compagnia reciterà lo spettacolo costruito all'ostello del Tratturo, ma il finale e l'apertura avranno di volta in volta una modalità diversa, in base agli abitanti del borgo, quindi lo spettacolo stesso è destinato a cambiare sempre.


I borghi sono paesini piccoli, sottopopolati, un po’ ai margini, non interessati da un turismo di massa (a eccezione di Santo Stefano di Sessanio, la meta finale del nostro viaggio).

A Castel del Monte incontriamo un coro di bambini e bambine che finiscono per cantare e ballare con noi, a Calascio il maestro orafo Giampiero Verna che ci svela i segreti dell’arte orafa e insegna a costruire un nostro amuleto personale. Lì siamo ospiti degli Amici di 

Calascio che si prendono cura e animano l’antico convento del paese. Mettiamo la sveglia all’alba di comune accordo e in gruppo, o quanto meno quanti fra noi se la sentono, camminiamo verso Rocca Calascio per osservare il suo castello in rovina risplendere con le luci dell’aurora.

E poi via! Zaino in spalla e si riparte. A Castelvecchio Calvisio, un borgo che da lontano ci appare come un castello di sabbia (così lo descrive Martina), arriviamo stravolti, c’è anche chi è caduto lungo il sentiero per colpa di un asinello impazzito. Ad attenderci troviamo Romeo Battisteli, l’ultimo fornaio del paese - che ci racconta come il borgo e il pane negli anni siano cambiati - e un’atmosfera da fiaba: la parte medievale del borgo è ormai spopolata, dopo il terremoto del 2009 (all’epoca del nostro viaggio l’intero borgo conta solo 120 abitanti), ma c’è ancora qualcuno che annaffia le piante sulle ripide scale con gli archi a collo d’oca che abitano i vicoli del paesino, un tempo usate per il passaggio degli animali da soma.

A Santo Stefano di Sessanio ci aspettano con le loro storie e intrecci le Ciaole, un’associazione di donne accomunate dalla passione per i gomitoli. Ci insegnano a fare a maglia braccialetti e collane con la lana. Mangiamo alla Locanda sul Lago, ai piedi del borgo, con i tavoli disseminati tra i pini e un venticello che ci ristora. E siamo già giunti alla fine del cammino.


Nella sua osmosi continua tra vita e azione teatrale, il Teatro Vagante di Sara e Valentina deve molto alla poetica di Giuliano Scabia (da cui prende anche nome il progetto), per cui il teatro scende dai palcoscenici e si dilata fino a comprendere il mondo intero, luogo dove si osserva e si viene osservati. È un teatro che non vuole lasciare una traccia di sè pesante (anzi si può dire che si tratti di azioni quasi invisibili, a volte notate poco dagli stessi comuni, come nel caso di Castelvecchio Calvisio) né imporsi o “colonizzare” i borghi che incontra, bensì porsi in ascolto e costruire alfabeti e immaginari comuni tra spettatori, artisti e studenti. Ho avuto la sensazione che attraverso questo trekking le due artiste-clown abbiano voluto restituire agli studenti dell’Aquila una memoria storica dei luoghi che abbiamo incontrato e insieme dargli un significato del tutto diverso rispetto al solo attraversare dei luoghi che avrebbero potuto fare in solitaria. È un teatro che si nutre di quel sottobosco culturale dei borghi, fatto di aneddoti, canti, leggende e ancora di simboli, amuleti e bozzetti. La camminata del nostro trekking è esplorativa e silenziosa, è quasi un esercizio fisico e spirituale. Ci viene chiesto di provare a isolarci per osservare meglio il paesaggio tra un borgo e l’altro e riconnetterci con la natura, dentro e fuori dal tessuto urbano. Ciò che davvero fa la differenza è il saper guardare e ascoltare, essere presenti e in contatto con chi vive il cammino con noi: gli asini, la nostra carovana multietnica e chi di volta in volta ci accoglie nei borghi. E, a fine viaggio, sotto i chili di arrosticini mangiati e il sudore versato nei pendii sotto il sole, qualcosa sembra davvero cambiato. Quando ci salutiamo con un ultimo aperitivo a L’Aquila sento che il mio cuore si è fatto un po’ più grande e respirando, mi sembra di provare come un soffietto. Si è creato uno spiraglio. E ci vorranno giorni, intere settimane per riabituarmi alla quotidianità cittadina, perché il viaggio che abbiamo intrapreso con Sara e Valentina nei luoghi della Baronia non è stato un semplice attraversamento di questa terra di pietra e poesia, né ha rappresentato soltanto una rapida scarica di dopamina. Per me è stato un terremoto e, una volta tornata a casa, niente era più simile a se stesso: è come se dentro di me fosse avvenuto un black-out. L'incontro con Sara, Valentina e questa assurda carovana, infatti, ha “mangiato” tutte le energie emotive che avevo come accumulato per mesi - e come tutte le esperienze così intense, seppur brevi, si è cristallizzata nei miei ricordi -, costringendomi a fermarmi per un momento prima di poter riprendere la routine quotidiana.



Foto di Roberto Rinaldi ed Eva Olcese

Comments


oca, oche, critica teatrale
bottom of page