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Matteo Valentini

Stare nel mormorio | Primo giorno a “Quando la terra dorme”


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Sara Gagliarducci ci sta guidando a casa propria per pranzo. Nel 2020, assieme a Valentina Nibid ha fondato la compagnia Teatro Vagante, che quest’anno, dal 24 al 28 luglio, in collaborazione con l’Università dell’Aquila, il Teatro Stabile d’Abruzzo, il Comune di Navelli e altri partner, realizza Quando la terra dorme, laboratorio teatrale incentrato sulla coltivazione dello zafferano come motore di comunità a Civitaretenga, piccola frazione del comune di Navelli. Come redazione, siamo stati invitati ad assistere alla residenza, che vede impegnati otto studenti e studentesse dell’università cittadina e non.

Mentre Sara ci precede tra i vicoli dell’Aquila funestati dal sole di mezzogiorno, racconta di quando il suo amico Marcello Gallucci, allora studente alla scuola media Carducci, incuriosito dal lavorio di alcuni suoi compagni nella palestra dell’istituto, fece capolino all’interno della struttura e si sentì apostrofare così da Giuliano Scabia: «Cosa ci fai qui? O partecipi o te ne vai».


Nella formazione di Teatro Vagante, Giuliano Scabia ricopre un ruolo fondativo, quello che solitamente si dà all’eroe eponimo nella storia delle città. Nel libro Forse un drago nascerà. Un avventura pedagogica di teatro con ragazzi (1973), il drammaturgo padovano racconta le metodologie messe in atto all’interno di un dispositivo scenico (chiamato, appunto, “Teatro Vagante”) che nella primavera del 1972 aveva attraversato dodici centri urbani abruzzesi coinvolgendo i suoi giovani partecipanti a rifondare le rispettive città di appartenenza sotto forma teatrale. La corrispondenza nominale tra le due esperienze è puramente fortuita - Sara e Valentina raccontano di aver trovato e letto il saggio, perso nei meandri di un trasloco, mesi dopo la nascita del gruppo - ma risulta assolutamente illuminante per quel che riguarda il loro percorso formativo: attraverso la lezione di Ferdinando Taviani, professore alla facoltà di Discipline dello spettacolo dell’Università dell’Aquila, infatti, le fondatrici della compagnia sono entrate in contatto con un teatro costruito dal basso, radicato nel territorio e nelle sue comunità, legato al processo piuttosto che all’evento, come quello di Eugenio Barba e, appunto, di Giuliano Scabia.

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«O partecipi o te ne vai»: con la sua coinvolgente radicalità, questo imperativo mi pare risuoni in tutti i luoghi attraversati durante il primo giorno di residenza.

Risuona nel metodo Feldenkrais, pratica di ginnastica posturale qui introdotta da Francesca Picci – responsabile anche della parte drammaturgica – in cui ciascuno è invitato, attraverso il movimento, a prendere coscienza della propria matericità nello spazio, ad avvertire il peso del proprio corpo, la sua distribuzione su talloni e avampiedi, il suo bilanciamento rispetto al proprio baricentro.

Risuona nelle parole di Roberta Gargano, responsabile della comunicazione del Teatro Stabile d’Abruzzo, che, di fronte al Teatro Comunale ancora in via di ristrutturazione dopo il sisma del 2009, ci racconta la caparbietà della popolazione locale nello scegliere di ricostruire la città secondo il principio “dov’era, com’era”, il districarsi dell’amministrazione del teatro nella selva della burocrazia italiana, l’avventura di prendere una posizione.

Risuona negli esercizi di aggregazione proposti da Sara all’interno del MAXXI (Museo nazionale delle arti del XXI secolo): un battito di mani e il lancio di un bastone segnano un ritmo collettivo; indicarsi col dito ad occhi chiusi significa avvertimento della propria presenza e ricezione dell’altro da sé.

Risuona nel coro condotto da Valentina a partire dalla lettura ad alta voce degli appunti presi durante il giorno: come una direttrice d’orchestra, ci invita ad alzare o abbassare il tono della voce, singolarmente o a gruppi, cambiare posizione, camminare salmodiando le nostre parole sconnesse, uscire nel cortile del museo, formare un cerchio e, infine, ridurci gradualmente al silenzio.


Terminata la giornata, seduto al tavolo del salotto di Sara, una quantità di segni barbaglia vorticosamente nella mia testa, il dettaglio di un luogo mi conduce a un volto, poi a una parola, a un’immagine, di nuovo a un luogo, fino a sciogliersi in un compatto rumore di fondo, lo stesso sperimentato poche ore prima. Cercando di concentrarmi, apro Forse un drago nascerà e trovo una citazione di Scabia da un articolo del 2019 intitolato Dialogo con Kublai Khan sulle infinite città invisibili: «Quando sarete arrivati all’origine scoprirete quello che io ho scoperto col Teatro Vagante: all’origine del tempo e dell’universo c’è un mormorio». A questo intendo partecipare.

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