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  • Chiara Mannucci

Giardini d’Infanzia | Il segno indelebile dei luoghi in cui si nasce


Attori e attrici di Giardini d'Infanzia, con in mano palloncini

ph Ada Özsar


Siamo alla Casa delle Culture e dei Teatri di Bologna per la stagione teatrale 2023 CHIMERE. Il palco è ancora avvolto nella penombra ma è tutto un rigoglio: variegate composizioni floreali contornano la scena, metonimie di quel giardino evocato nel titolo. Arrivo in affanno, mi ha portato qui un azzardato viaggio in bici attraverso la tangenziale - smarginare dal centro di Bologna per arrivare al Teatro Ridotto è impresa per intrepidə. Per aggiungere altro rischio all’azzardo cerco un coinvolgimento diretto. Scelgo il posto più avanti possibile, una sedia separata dal resto della platea, appoggiata sul limitare della quarta parete. Vedo brillare il sudore sulla fronte dei/delle performer, sento i loro respiri, avverto gli affanni e l’aria spostata dai corpi in movimento. Sul palco, il Collettivo Hospites per il debutto del loro secondo spettacolo, Giardini d’Infanzia, seconda drammaturgia collettiva dopo La Cena, con la regia e il coordinamento di Eduardo Oliveira Landim.


Nulla di amplificato, nessuna base musicale nonostante sia il canto a sostenere azione e storia: il compito difficilissimo di misurare e nutrire il tempo è affidato alla voce, strumento poderoso e poliedrico usato dai/dalle performer in tutte le sue sfaccettature. Ora è un canto, ora polifonica e rigorosa cadenza dialettale, ora un fonema di incitazione, poi un sussulto, una profonda inspirazione. Qualche passo energico risuona come un metronomo, un affioramento del ritmo serrato che ordina la composizione. Poi un battere di mani, un “Su! Su!” incalzante, una leggera filastrocca infantile, di quelle che si canticchiano facendo finta di essere un equilibrista su un filo invisibile. Poi una canzone dedicata alla primavera eseguita a pieni polmoni, che solo i raggi del sole novello sanno risvegliare. Il buio che cala e un ragionamento pacato e trasognato sui dilemmi della vita si leva: “Mama, non so do’ andà! Papa, io sto a tornà! Ma chi me l’ha fatto fa’! De partì e poi tornà e diglie che sto a diventà! Che me sto a consumà!


La lenta melodia sottoscrive le esitazioni quasi rassegnate di un giovane uomo che guarda indietro la strada che ha fatto, pronto a renderne conto di fronte allo sguardo amorevole ma giudicante dei genitori - che in fondo vorrebbero solo il suo bene. L’amarezza che trasuda dal tono della sua voce tradisce l’asprezza del percorso che ci porta a crescere e maturare tra bivi, esortazioni non richieste, scelte ponderate o prese ad occhi chiusi, a lasciare da un lato la sicurezza del nido e aspettare dall’altro di trovare finalmente la vita vera.


L’essenzialità tecnica è uno dei punti distintivi del lavoro della compagnia che concentra la sua ricerca sulle possibilità narrative del canto, scandagliando i materiali della tradizione popolare in relazione ai differenti territori di provenienza dei/delle performer, dalla Toscana all’Emilia, da Ancona a Brescia, da Napoli al Veneto. In quanti modi l’impronta della realtà da cui si proviene informa e trasforma le situazioni della vita quotidiana, anche quelle più lontane dai vissuti dell’infanzia? Lo spettacolo sembra volerci confidare che il segno dei luoghi in cui cresciamo impronta, sforma e inscrive in modo inconfondibile il nostro modo di affrontare la vita. Quanta influenza hanno schemi sociali, convenzioni e tradizioni familiari? Quanto potere abbiamo di smarginare dal sentiero battuto a costo di incorrere nel biasimo, nella critica, nei consigli fin troppo spassionati di chi vorrebbe tracciare per noi un cammino diverso?


Attori e attrici di Giardini d'Infanzia sdraiati sull'erba

ph Margherita Rigolli


Il giardino, locus amoenus per eccellenza, è il luogo del brutto e del bello, pieno di germogli, frutti e rigogli, ma anche di insidie, tumulti e inquietudini. Ora campo da gioco, ora dimora di segreti e nascondigli, ora passaggio di formazione dove crescere e imparare insieme, ora ricettacolo di delusioni e sepolcro di morte. Con toni esilaranti e a volte dissacranti, tra corse e rincorse, frenetici calpestii, sospensioni, occhiatacce, cenni di rifiuto, l’azione procede serpeggiando attraverso le fasi, le situazioni e i sentimenti della vita. Tra cliché e qui pro quo, i quadretti per lo più cantati ritraggono l’umana natura mentre si forma e si conforma agli schemi del buon vivere comune. Non troppo velata la critica al sistema, affatto scontate le conclusioni fuor di metafora.


I palloncini scandiscono il passare del tempo, turgidi e colorati ad ogni festa di compleanno, sempre leggeri loro. Sempre più pesante invece è il carico e la pressione delle aspettative, dei desideri che gli/le altrə ci proiettano addosso, delle attese disattese, delle previsioni di un disegno non nostro. E quello che sembra essere nostro, fino a che punto lo è davvero se di quelle tracce, di quelle abitudini, di quelle parole che ci sono state ripetute da piccinə portiamo solchi profondi nella quotidianità del nostro diventare adultə?


La scenografia artigianale si intona alla tecnica essenziale e al sottotesto pungente, strizzando l’occhio al teatro di tradizione e alla commedia dell’arte che riprende nei tempi comici, nelle gag e nell’uso simbolico di oggetti della quotidianità. Una scala pieghevole in alluminio diventa il balcone cui levare il canto all’amata: la promessa di non arrendersi davanti alle occhiate minacciose di lei, fredda e impassibile, suonano degne eredi della migliore tradizione cortese.


Pedala, pedala!”, “Devi mangiare, sennò come fai?”, “Che modo è mai questo?”, “Ma come l’artista!? Non hai mai pensato a un lavoro d’ufficio?”: quanto a lungo restano inviolati i germogli dell’infanzia? Il pubblico si abbandona al riso ma dietro alla piacevolezza delle scenette avverte serpeggiare tanti spunti di riflessione la cui urgenza lascia alla fine una punta di amaro in bocca. In queste emozioni contrastanti si annida il parallelo tra il giardino e la vita, luoghi e tempi delle delizie, ricchi di opportunità di crescita ma anche pieni di interstizi che celano insidie, prove, dilemmi e difficoltà. Guardato dall’alto, il percorso che ci conduce verso l’età adulta è tutt’altro che lineare, anzi si incaglia, torna indietro tortuoso e impetuoso, avanza inaspettato, di colpo si ferma e poi sfocia dove mai ci si aspetterebbe. Le esperienze dell’infanzia, anziché restare relegate a quella specifica fase della vita, impreziosiscono tutta la strada come pietre incastonate, riappaiono e ritornano a forgiare il nostro sé maturo aiutandoci a non dimenticare il valore dei giochi, delle amicizie, dei battibecchi, dei rimproveri e degli insegnamenti.



Pregi/limiti: l’uso dei dialetti in parti fondamentali per lo sviluppo dell’azione. Le scene in napoletano stretto o quelle in lingua cimbra risultano pressoché incomprensibili al pubblico che non proviene da quelle terre ma allo stesso tempo, richiamando il sottobosco popolare comune a tuttə, si fanno sorprendentemente accessibili e familiari - un’arma a doppio taglio usata in modo magistrale. Altro fattore inespugnabile è il ritmo serrato che non cade mai e tiene in pugno chi guarda. Proprio per la sua vorticosità, non risulta sempre facile scovare il percorso della trama che vive invece di spezzoni e ritagli a richiamare ingegnosamente i mille modi in cui le reminiscenze dell’infanzia riemergono nel corso della vita.




Giardini d’Infanzia

drammaturgia collettiva Collettivo Hospites

regia e coordinamento drammaturgico Eduardo Oliveira Landim

canti originali Collettivo Hospites

disegno luci Raphael Janeiro

costumi Astrid Giuni Strambi

composizioni floreali Giuseppina Peretti

con Laura Astarita, Leonardo Balestra, Federica Benini, Chiara Comis e Roberto Giani

produzione Collettivo Hospites


oca, oche, critica teatrale
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