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  • Claudia Burzoni - Matteo Valentini

La sera del dì di festa | Festa-spettacolo di Quando la terra dorme

Lo slargo davanti all’ostello è gremito di persone. Invitati, amici che scambiano qualche parola prima dell’inizio. L’aria che si respira è frenetica, agitata ma felice, insomma festosa. Gli interpreti si mimetizzano tra il pubblico, creando una piacevole confusione e provocando l’annullamento dei ruoli: gli attori sono anche pubblico e il pubblico può divenire parte della performance. «Inizia la festa – grida Valentina- aprite le porte, fateci entrare!». Ma il portone rimane sbarrato. Massimiliano D’Innocenzo, proprietario di alcuni terreni lì intorno e responsabile dell’ostello, apre una finestrella e dice che non può farci entrare, se non portiamo doni. La carovana parte, così, alla ricerca di qualcosa di prezioso per contribuire alla riuscita della festa.

TeatroVagante_Francesco Paolucci
Frame di Francesco Paolucci

Arriva alla piazzetta principale, dove regna un silenzio interrotto solo dai sussurri degli attori. I mormorii divengono sempre più alti, fino a diventare un insieme armonico di parole e voci diverse, come un’orchestra. Poi, un ululato – queste sono terre di lupi – e il branco di umani riparte, mentre il paese lo segue.

Si scende, ora, verso la terra che dorme, dove riposano i bulbi.

Nell’ora in cui il sole e la luna si incrociano, gli interpreti si affacciano sulle terre coltivate a zafferano e, alternandosi, recitano:


Angelo, ma è vera la storia del sonno? E quanto deve dormire la terra che ho visto fiorire?

Cinque anni, deve dormire. E tu, nel frattempo, che fai? Nella terra di zia lo pianto. Angelo, ma quanto dorme quella?

Angelo, dov’è la terra di Massi?

È lì, lì… lì… sotto dormono i bulbi.

Ora riposano tutti, presto li caveranno,

nell’altra li metteranno.

Agosto è il mese dei bulbi! Sempre lo stesso lavoro:

a scavà, a munnà, a repunne.


TeatroVagante_Francesco Paolucci
Frame di Francesco Paolucci

È il racconto della coltivazione delle terre di Civitaretenga, secondo le parole di Angelo Sarra, agricoltore della zona. È la storia delle famiglie, di intere generazioni che, una dopo l’altra, hanno custodito il loro oro rosso, “prestandosi” le terre per la rotazione dei campi.

È un momento magico, di grande emozione. La gente, fino a quel momento, aveva assecondato la carovana, mettendosi in fila, imitandone le gestualità; ora la ascolta, in silenzio, e c’è chi sorride e chi si commuove. Il gruppo, però, deve rimettersi in marcia, risalire la collina e intanto, ritmicamente, canta: a scavà, a munnà, a repunne! Il ritmo si insinua, va a occupare l’anima e il corpo: ora cantano tutti.


Ma torna il silenzio quando si giunge all’interno del ghetto ebraico, presente a Civitaretenga dal 1300 e ancora non del tutto ristrutturato dal sisma del 2009. L’impatto visivo ed emotivo è forte, ci troviamo in presenza di un fantasma e delle sue cicatrici. Ci si prende per mano, uno dietro l’altro e si passa per le strette viuzze, attraversandone il buio. Si intravede una luce, quella di piazza Guidea dove, davanti alla sinagoga di un tempo, un violino e una chitarra suonano Beautiful that way.


TeatroVagante_Francesco Paolucci
Frame di Francesco Paolucci

È necessario sbrigarsi, occorre tornare con qualche cosa all’ostello, altrimenti non si potrà far festa. Ed ecco che, dalla Casa Verde, si affacciano quattro donne, che della produzione dello zafferano seguono ogni passo. Loro non sentono più il suo profumo, dal momento che trascorrono la vita immerse in quell’aroma pungente e carico di significato. Spalancano le finestre di casa per farcelo sentire e chiedono che venga spiegato loro di cosa sappia, quali siano le immagini che evoca. E la carovana, pronta e armata di piccole poesie scritte per l’occasione, intona una serenata, una dichiarazione d’amore verso quegli aromi, quelle terre e quelle persone. Le signore della casa verde non possono fare a meno di ricordare, finalmente, il profumo dello zafferano; estremamente grate per le rievocazioni, fanno calare un cesto dal balcone. «Sono i bulbi! Sono i bulbi!». Si può tornare all’ostello con un dono, di corsa e danzando.


«Or la squilla dà segno

della festa che viene;

ed a quel suon diresti

che il cor si riconforta.

I fanciulli gridano

su la piazzuola in frotta,

e qua e là saltando,

fanno un lieto romore […]»


(Giacomo Leopardi, Il sabato del villaggio)


Me lo immagino, un qualche Leopardi, affacciato alla finestra a rimirare questa carovana di gente che balla e canta. Lo penso invidioso, ma di quell’invidia tipica di chi percepisce la gioia del momento e non sa come farne parte. È dispiaciuto, ma sorride, è comunque felice: i suoi compaesani festeggiano e lui, in qualche modo, vuole far parte di quel festoso gruppo.

Leopardi aveva scritto di quella sera del dì di festa nelle campagne recanatesi e le stesse emozioni risuonano qui, a Civitaretenga, con tutto il paese radunato, orgoglioso e pronto a brindare alla bellezza che lo circonda.


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Frame di Francesco Paolucci

Le massicce porte dell’ex-monastero si spalancano e le persone invadono il cortile interno, percorrono i porticati, si assiepano sul pozzo centrale, sui muretti o sulle tavole apparecchiate. Le nostre voci invitano tutti ad entrare, prendere posto, bere un bicchiere di vino. Il gioioso cicaleccio del pubblico, a un tratto, viene interrotto dal racconto corale, l’ultimo, che narra l’avvento dello zafferano a Civitaretenga. Secondo la leggenda, un antico monaco locale, giunto in Spagna, rimase talmente abbagliato dalla bellezza del fiore viola e oro, da rubarne un esemplare per portarlo nella sua terra natale. Dopo le battute finali degli attori, il ritmo quotidiano dell’ex-monastero si infrange definitivamente e la festa può avere inizio: e allora piatti di risotto fumante vengono serviti ai tavoli fitti di gente, e vino, e agnello arrosto, salsicce, ancora vino e ancora vino. Alla festa, è notevole la presenza di rifugiati ucraini ospitati nei MAP di Civitaretenga (Moduli Abitativi Provvisori costruiti dopo il terremoto del 2009): tra loro, una danzatrice ci insegna alcuni passi tradizionali, che mettiamo subito in pratica, impacciati ma entusiasti.

«Diman tristezza e noia recheran l’ore», scrive Leopardi,e preannuncia il ritorno al «travaglio usato» già alle prime avvisaglie della festa. È una visione cruda dell’esistenza, la sua, necessariamente materialista. Ma questa malinconia, durante i balli, i brindisi e le chiacchiere, non ha modo di assalirci. Forse lo farà al mattino, prima di chiudere gli occhi. «Ora bisogna bere, ora bisogna far risuonare la terra con piede libero»: questa, se la mente potesse ripercorrere i classici, sarebbe la nostra poesia.


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Frame di Francesco Paolucci

oca, oche, critica teatrale
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