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Alessandro Bernardini

INVISIBILI | Noi contorni d’ombra


«Alors, ô ma beauté ! dites à la vermine

Qui vous mangera de baisers,

Que j’ai gardé la forme et l’essence divine

De mes amours décomposés !»¹


Se il reale costituisce solo «uno degli aspetti più transitori e meno riconoscibili dell’infinita realt໲ la metafora è allora sempre quell’incontro con una verità che arretra, l’incursione in un segreto geloso di sé, l’incendio nel bosco delle corrispondenze, un arco teso tra due sponde che si abbaiano a vicenda: «Vieni qua, mio specchio sgretolato! Dove io scompaio, tu inizi. Dove io rivelo, tu nascondi. Vieni qua, mia fame incompleta: giochiamo a morirci addosso!» 


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Foto di Rosellina Garbo

Esistenza è spasmo di forme che si afferrano, per trasparire sul nulla che le allieta e le infuoca. L’invisibile, prima che un’ossessione, dev’essere una speranza, una vertigine da accogliere. Cieco è colui che non si pone nel cammino di un ente che si sottrae, che si nega il fiuto di una traccia di tenebra. Vedente è colui che presume un’altra cecità – disponibilità all’ulteriore – e tramite questa si espone alla minaccia di un abisso: se ogni cosa è visibile, ogni cosa è a portata di mano, dunque potenzialmente controllabile, in possesso; ciò che sfugge all’occhio, invece, ruggisce col suo sguardo d’incertezza nell’organo che solo può colmare e abbellire l’inganno: l’immaginazione, fibra d’eternità e disastro. 

 

Il linguaggio del teatro è l’idioma di un’oscura e intraducibile scienza, l’edificio concavo dell’invisibile.

Compagnie 111, nella regia di Aurélien Bory e animata dalla musica viva di Gianni Gebbia, ci guida al suo interno con la suggestione di chi sceglie di varcarne le stanze e osa staccarne un’immagine dalle pareti. 

Da Palermo, l’impronta fatale: l’affresco del Trionfo della morte di Palazzo Abatellis. Un telo, insieme sipario e fondale, si colora della sua macabra fantasia. Un persistente ticchettio, metronomo sghembo della danza che sarà, sembra scandire il ritmo cifrato delle frecce scoccate, sulla folla-mondo, dalla nera signora a cavallo. Inizia lo scenario vivente della rappresentazione, l’agone tra l’immanifesto e il suo dipinto. «Sono un giovinastro seduto, la mia mano è a terra, il mio volto rivolto all’insù. Mentre aspetto, intanto morite voi: io mi metto di lato», sibila un corpo-figura, sancendo lo scarto tra finzione ed enunciazione, tra la raffigurazione e il suo doppio, inaugurando così la rivolta sul drappo. Le figure, prestate alla scena, sfidano il pallore in agguato del tempo e dei muri, la fissità della materia che obbliga corpo e spirito alle pose. È la Morte. Da lei, e nella fatica che sorge dal fissarne la maschera, prende forma la drammaturgia visiva, minima ed essenziale, sia origine della partitura scenica che motore onirico della ricerca: il morbo silente e l’ostacolo turbolento, un gracile fiore macchiato sul seno e un destino condannato a sradicarsi, una moritura e un emigrante. 


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Foto di Rosellina Garbo

La tela si agita, si fa soglia e muscolo in azione. Così il passo, ravvivato dal tremore, si scatena in un carosello d’impulsi: il corpo si fa mente pervasa, tersa e traslucida osservazione del proprio caos. Mentre il suono si fa animale e le membra danzanti illustrano la consapevolezza del limite – che cos’è l’Arte se non un evaso confine? – delle icone strappate all’oblio dell’inconscio risalgono in superficie, coagulandosi nei gesti dei performer. Da un’ignota lontananza, i loro richiami vorticanti danno l’impressione della gioia, di una liberazione, e si siedono ad ascoltarsi. Ma è un rosso alleluia. Tutta la scossa che riposa al riparo della vita irrompe nella frontiera concreta delle anime e nelle loro coordinate corporali. Qualcosa sprofonda, qualcosa emerge: il parto è comunque la morte di chi non è ancora nato. La relazione col mondo è innanzitutto permeabilità. Dall’affresco alla scena, dal tumulto delle passioni all’esistenza delle cose, l’inquietudine raggiunge perfino il mondo inanimato. Il vuoto lasciato continua a inumidire le sedie, ridotte a lucciole tremolanti di materia, sostanze autonome di paura.

Ma non c’è tempo per il riposo, in chi soffre le leggi implacabili. 

Così lei sale a cavallo, prova a sostituirsi alla dama suprema, cerca un trotto che culli e dilati la scadenza. E qualcun altro presta finalmente la voce agli invisibili: i suonatori, sempre in procinto di ammaliare il tempo; il vecchio, con il suo mistero; le dame, unite per mano e nelle chiacchiere; il re, i preti, la consorteria del potere umano e divino; il passante, figlio dell’accidente; la donna incinta, di vita e di dubbi; i cani, il falco e l’acqua che ancora sboccia dalle fontane. Desideri diversi, angoscia comune.

Lo stesso corpo, ora rivestito di blu, buca lo sfondo e grida la giovinezza del sogno: dalla mimesi vocale, l’abito dell’incarnazione si fa più preciso. Così lui lancia il suo scafo, un tentativo d’approdo nell’oltre. La carena di salvezza, nera come i cimiteri in fondo ai mari, diventa la porta di un tempio in cui aspettare l’insperato. A volte, però, non c’è altro risultato che il verificarsi del probabile: si va giù, il cancro e l’onda fanno obbedire.

In un’estrema congiunzione di là dal concerto del visibile, entrambi si cercano, si consolano in un abbraccio tra quelle che furono luci passate e che saranno per sempre ombre future. Lei lo abbandona, lui continua il suo viaggio nel livido silenzio che li unisce e li separa. Oltrepassata la nube primordiale, intonato il canto del rientro – oh fanciulla furente, oh falce di luna! Torno come pasto e dono! – il frammento torna al suo luogo e gli coincide: l’effige raggiunge le due dimensioni, una telecamera consegna il suo volto al sipario, la morte raggiunge sé stessa e si rappresenta. La metafora si compie. La camera prosegue. Quell’invisibile svanire ora accoppia visi di sangue e volti di ossa, presenza e assenza, nel telo che è divenuto suolo. Infine, ricomposto il chiasmo, saldati i fati di chi è stato e chi sarà, la bellezza reclama i suoi interpreti dai vermi e li consegna alla meta. Ognuno trova il suo posto sulla nave nera: i canti si interrompono, il requiem prosegue dalle loro tenerezze intrecciate, respiro su respiro.

 


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Foto di Rosellina Garbo

Se la morte di Palermo era la peste – dopo la quale, secondo Artaud, come nel Teatro «non rimane altro che la morte o la purificazione assoluta»³ –, Compagnie 111 si prende la briga del contagio, nell’intreccio di una scenografia efficace e di un paesaggio sonoro in grado di valorizzarne i vuoti. E lo fa con l’esibizione plastica di un’indagine prettamente concettuale: quella sulla morte che si fa polo e innesco della disputa tra sfondo e figura cara alla riflessione della gestalt.  L’elemento drammatico, e dunque l’azione, è infatti ridotto all’essenziale – e, non a caso, nei tratti in cui l’oscurità e la polisemia del gesto concreto vogliono scavalcarsi in una verbosità prosaica (l’unico ‘parlato’ presente) il risultato è un’intensità attenuata, da digerire come un distensivo intermezzo. Le immagini riversate sulla scena in schegge di urla, tremori musicati e gorgheggi danzanti sono allora vivide colate di un’agitazione congelata e strabordante che traduce il nucleo speculativo dell’opera e che riesce a donare la vertigine della precarietà: dell’essere e dei contorni dell’individuazione – ovvero di ciò è possibile percepire con chiarezza – costantemente minacciati dall’oblio, dal caso e dalla superficialità di un occhio ineducato o semplicemente chiuso.

 

Come nel trionfo sulla tela, la prospettiva è assente, e la gerarchia è sommamente simbolica. Ciò che sfugge al sensibile, sempre striato dall’odore del massimamente sconosciuto – la nostra scomparsa –, ha bisogno della rapidità di uno spirito che sia al contempo nostalgia del presente e fuga in una foresta di emblemi organizzata su un ulteriore, su ciò che manca: l’artista, come la morte è a cavallo, porta il peso di un cuore galoppante in una radura d’ombra e d’assenza.

 

«Se un mistero è pieno di voci inizia l’invisibile»⁴. Di fronte all’infinità dei sussurri e degli amori decomposti che il tempo e la storia macinano con sé, il cemento divelto del Teatro Astra ci ricorda l’esito fatale di una vita non più ingenua e separata tra fatalità e ideale: l’arte e la morte come tentazioni di riposo comune.

 

Siamo trasportati sulla nave nera.

Ma l’esattezza di una finzione è più vera dei vermi che l’attendono; e il suo flagello giunge a volte a suggerire una veduta. Dove finisce l’invisibile e con esso l’occhio che lo insegue, riusciamo infine a viverci la chiarezza di un contatto: il calore delle anime appaiate, strette nel bacio dell’ultimo freddo. 

La vera bellezza non si avvista, ma sempre ci scosta. Diciamolo allora: beato chi non sa vedere!


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Foto di Rosellina Garbo

Pregi: ricerca intellettuale tradotta con intensità nella fantasmagoria delle immagini e dei gesti; scenografia ottimamente integrata nell’azione scenica e relazione feconda tra questa e altri mezzi rappresentativi multimediali; accompagnamento sonoro puntuale e coinvolgente.

 

Limiti: drammaturgia minimale, suscettibile d’espansione al fine di aumentare l’esattezza espressiva delle immagini adoperate.


Invisibili, visto a Torino, Teatro Astra, 11 aprile 2024


progetto, scenografia e regia Aurélien Bory

collaborazione artistica e costumi Manuela Agnesini

collaborazione tecnica e artistica Stéphane Chipeaux-Dardé

con Blanca Lo Verde, Maria Stella Pitarresi, Arabella Scalisi, Valeria Zampardi, Chris Obehi e Gianni Gebbia

musiche Gianni Gebbia e Joan Cambon

luci Arno Veyrat

scene Pierre Dequivre, Stéphane Chipeaux-Dardé, Thomas Dupeyron

direzione tecnica Thomas Dupeyron

direttori di scena Mickaël Godbille, Thomas Dupeyron

direttore del suono Stéphane Ley

direttori delle luci Arno Veyrat, François Dareys

produzione Teatro Biondo Palermo / Compagnie 111 – Aurélien Bory

coproduzione Théâtre de la Ville-Paris / Théâtre de la Cité – Centre dramatique national Toulouse Occitanie / La Coursive scène nationale de La Rochelle / Agora Pôle national des Arts du cirque de Boulazac / Le Parvis scène nationale Tarbes Pyrénées / Les Théâtres de la Ville du Luxembourg / La Maison de la Danse – Lyon / Fondazione TPE – Teatro Piemonte Europa


 

Note

¹ Charles Baudelaire, Une charogne

² Antonin Artaud, L’arte e la morte

³ Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio

Alberto Casiraghy, Squittìi

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oca, oche, critica teatrale
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