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Per tutta la durata del mio tragitto di ritorno a casa dalla visione di Extra Life, dell’artista franco-austriaca Gisèle Vienne, ho pensato a Dentro di Giuliana Musso, una delle drammaturgie italiane più intense che io abbia letto negli ultimi anni.
Ciò che accomuna queste due opere, per ogni altro aspetto diametralmente opposte, è il soggetto, doloroso, dell’abuso sessuale sui minori.
In particolare, l’operazione di Musso – di cui ho purtroppo solo letto la drammaturgia, senza mai essere riuscito ancora a vedere lo spettacolo, nonostante, a 4 anni dal suo debutto, sia ancora in circolazione – mi colpisce per la capacità di portare la metodologia della sua indagine all’interno della narrazione e, soprattutto, per il suo non cercare mai di mettersi da parte, di sparire, con l’alibi di sentirsi al servizio di una storia altra, ma di abitarla, piuttosto, di prendersi la responsabilità in prima persona di un lavoro scomodo e doloroso. Ecco, rievoco le mie impressioni su quella drammaturgia perché Extra Life di Gisèle Vienne è esattamente l’opposto di Dentro. Se in Dentro, al fianco della narratrice Giuliana Musso c’è una figura di una madre che fornisce la testimonianza di una figlia violentata e tutto, dunque, è lì esibito sul tavolo, sotto la luce inflessibile della parola e della verità, in Extra Life, la verità non ha parole, non ne trova, non ne conosce, piuttosto si ammettono solo suoni, esitazioni, sovrapposizioni, oppure si parla d’altro, in forma anche leggera, ma ricadendo poi nel silenzio, nell’afasia. In un'immaginaria ambientazione, se Dentro fosse il quotidiano di una dura vita tra i ghiacci, Extra Life sarebbe la cronaca di ciò che è sotto lo strato di ghiaccio, intrappolato. Nel primo caso, è possibile pensare a una vita estrema, nel secondo siamo condotti direttamente a una condizione impensabile, se non in uno stato di morte. E invece i personaggi di Extra Life non sono morti, anzi, al contrario sono giovani, belli, ascoltano la radio in un’automobile ferma con le luci accese, in una strada di cui si vede solo la terra intorno, illuminata dai fanali. Non ci sembrano affatto morti, insomma, anche perché sappiamo che, normalmente, i cadaveri non tornano da una festa, non chiacchierano, non fumano, non mangiano patatine, non ridono, e soprattutto i cadaveri non danzano. Eppure, se questa è la prova della loro esistenza biologica, quella esterna, che il pubblico del Théâtre Jean Louis Carriére al Domaine d’Ô di Montpellier riesce facilmente a riconoscere, raccogliendo gli indizi di un fratello e una sorella, di età tra i venti e i trent’anni, in una notte d’estate, ben presto la loro performance accede ad un livello così profondo e così totalizzante che nulla conta più, per loro, come per noi, se non la violenza sessuale che entrambi hanno subito. L’azione dei corpi di Gisèle Vienne è, dunque, quella non di raccontare una violenza, ma di mettere in scena la forma inaccettabile, incomprensibile, disperata, inumana – extraterrestre – del dolore, dal punto di vista di chi lo vive: un altro “dentro”, in fondo, ma con regole visive, narrative, sonore, temporali, spaziali, del tutto diverse da quelle di chi, in quel dentro, non c’è mai stato o non ne ha alcuna idea. Ci si muove in un altro modo, in questo dentro, come se il corpo fosse rallentato, alterato nel suo bioritmo intimo, nel quale i secondi e i minuti seguono battiti di durata differente da tutto ciò che non è dentro; lo spazio stesso della realtà assume sembianze fisiche diverse, altre dimensioni si sovrappongono a quella naturale e quotidiana, altri portali – in realtà sempre lo stesso portale, nero al centro, ipnotico e irradiante dappertutto – si aprono nel bel mezzo di un pensiero qualsiasi, di un momento come tanti; i rumori, la musica, i bassi, i ritmi assumono volumi e intensità differenti, ostinati e, a volte, davvero insostenibili, al punto di far alzare dalla poltroncina numerosi spettatori prima della fine per scappare via.
I performer sono quattro, tre in carne e ossa, uno in forma di marionetta – presente sin dall’inizio, ma pienamente visibile solo alla fine. Condividono tutti lo stesso destino scenico, ora frantumati, ora incastrati, ora ingabbiati dalla luce (di Yves Godin), tanto quanto avvolti – e spesso sconvolti emotivamente – dalle musiche (alla creazione sonora, Adrien Michel, alla composizione musicale Caterina Barbieri). Lavoro verbale e fisico vanno insieme, incessantemente, in modo minuzioso, coinvolgente: le parole, per esempio, non vogliono uscire, nonostante i microfoni funzionino benissimo, anzi il testo proprio non si fa, si disfa piuttosto, cerca di trovare una strada, di sciogliersi, di dire, ma senza successo. Il testo è come l'automobile che domina la scena, non va né avanti, né indietro, non è rotta, ma non funziona. Le reazioni del corpo, poi, sono quasi sempre nervose, a fior di pelle, i tormenti sono torsioni caravaggesche, gli scoppi d’ira sono improvvisi e ripetuti, come i pianti, i singhiozzamenti, che amplificati dai microfoni riempiono in modo disturbante la sala, come se venissero da qualche altra parte dello spazio, da ovunque. La coreografia isterica di abbracci negati, cercati, poi sottratti nuovamente, si combina con l’azione frustrante dell’entrare e uscire continuamente dall’automobile: il rumore degli sportelli, anch’esso artificialmente amplificato il più possibile, scandisce i momenti in cui i performer si consegnano al terribile “fuori”, esposti, in un’immobilità sinistra, angosciante, al vento, al fumo che si solleva dal suolo e fa mancare ogni appoggio, al dolore, sempre lui. Ed è un dolore, questo, che si ripresenta puntualmente, che ha una fisionomia molto familiare, manifestandosi sotto forma di un corpo così simile al proprio, così apparentemente umano, sensuale, innocente, misterioso. Una volta che la scena è dominata dalla sofferenza, a nulla sembra servire più rifugiarsi di nuovo in macchina e stare nel quotidiano in un vano tentativo di proteggersi: la radio accesa, le canzoni, le patatine non bastano, smettono di avere un valore drammaturgico, girano a vuoto. Elemento tutt’altro che marginale, la marionetta raffigura un bambino o bambina, si lascia manovrare, si fa sistemare su una sdraio da campeggio, sul proscenio ma lateralmente, offrendoci un profilo spettrale e al tempo stesso vivo, partecipante: qualsiasi cosa accada, fino alla fine, resta lì, perché in realtà è presente da sempre, cristallizzata in un momento specifico, in un passato molto diverso da questo presente. Quello della marionetta è l’ultimo corpo umano vivo che i personaggi ricordano, prima di diventare extra-terrestri, di accedere per sempre alla loro extra-life.
Leggo da recenti statistiche prodotte da un organismo d’indagine governativo (l’Institut National d’Études Démographiques) che le percentuali di abusi in Francia sono altissime: per semplificare, se ho interpretato bene i dati, si può immaginare che in un campione ideale di trenta minori, statisticamente due di loro hanno subito una violenza sessuale, considerando che nella maggioranza dei casi si parla di abusi compiuti all’interno delle mura domestiche, da padri, fratelli, zii, cugini, amici di famiglia. Da statistiche analoghe in Italia, sembra che le percentuali non differiscano granché, ma lascio a lettrici e lettori analisi più specifiche (a questo link). Quel che è certo e inopinabile è che, secondo i dati, in entrambi i paesi, chi abusa, per una quota abbondantemente oltre l’80%, è di sesso maschile. Mi chiedo quanti dei corpi reali intorno a me, tra il pubblico di Montpellier, facciano parte dell’una o dell’altra statistica.
Mi colpisce che all’uscita del (bellissimo) teatro Jean-Claude Carrière c’è un grosso quaderno, simile a quelli che si trovano generalmente fuori dai musei, in cui il pubblico, se vuole può lasciare una sua osservazione, un pensiero, una critica insomma – efficace, semplicissima idea: benché non manchi qualche commento entusiasta, la maggior parte delle opinioni è non solo negativa, ma addirittura feroce, si parla di “tradimento di un tema importante”, ci si auspica addirittura che questo spettacolo non venga più rimesso in scena, qualcuno scrive “Stop! Trop!”. Basta, è troppo.
Ed è vero, Extra Life è “troppo”, secondo me, per la semplice ragione che ciò che è intollerabile in Extra Life è esattamente l’intollerabilità del dolore dell’abuso – e, di conseguenza, la vita extraterrestre di chi sopravvive a un abuso – e la coerenza di Vienne, la sua mimesi empatica, inchioda a un prendere o lasciare che non lascia sospeso nel mezzo nessuno.
Extra Life
Conception, chorégraphie, mise en scène & scénographie Gisèle VienneCréé en collaboration & interprété par Adèle Haenel, Theo Livesey & Katia Petrowick
Musique originale Caterina BarbieriCréation sonore Adrien MichelCréation lumière Yves Godin en collaboration avec Gisèle VienneTextes Adèle Haenel, Theo Livesey, Katia Petrowick & Gisèle Vienne
Costumes Gisèle Vienne, Camille Queval & FrenchKissLAFabrication de la poupée Etienne Bideau-Rey & Nicolas Herlin
Régie plateau Antoine HordéRégie son Adrien Michel & Géraldine Foucault VoglimacciRégie lumière Samuel Dosière, Iannis Japiot & Héloïse Evano
Assistante Sophie Demeyer
Remerciements à Elsa Dorlin, Etienne Hunsinger, Sabrina Lonis, Sandra Lucbert, Romane Rivol, Maya Masse, Anja Röttgerkamp, Erik Houllier & Giovanna Rua.
Production et diffusion Alma Office Anne-Lise Gobin, Camille Queval & Andrea KerrAdministration Cloé Haas & Clémentine Papandrea
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