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Francesca Torre

Miseria e nobiltà


Miseria e nobiltà

Come rileggere in maniera stimolante un soggetto iconico del teatro comico italiano, consacrato dal celebre film del 1954 con Totò, e proporlo in veste di opera lirica? Marco Tutino, Luca Rossi e Fabio Ceresa hanno deciso di adattare la vicenda a un momento storico preciso e più riconoscibile per il pubblico di oggi rispetto all’Italia post-unitaria di Scarpetta: il referendum del 2 giugno.

Il sipario si alza su uno scorcio di Napoli ferita dai bombardamenti, rivelando lo scheletro di un enorme edificio popolato da un’umanità in fermento. Se oggi il popolo si divide fra sostenitori della monarchia e della repubblica, da quando è finita la guerra la fame non lascia tregua. Leitmotiv e motore dell’azione, la fame si manifesta nel coro del I atto, in linea con un gusto per l’enumerazione più volte riproposto nel corso dell’opera, sotto forma di un crudo e martellante elenco di cibi prelibati che è lecito solo nominare e desiderare. A lato di questa umanità c’è chi prova a rialzare la testa: Felice Sciosciammocca, ex maestro caduto in disgrazia per aver rifiutato la tessera del fascio, cerca di sbarcare il lunario come scrivano per poter sfamare il figlio Peppiniello.

L’adattamento di Miseria e Nobiltà si inserisce nel solco della tradizione operistica: lo dimostrano le reminiscenze musicali che attingono a pagine del grande repertorio; il numero drasticamente ridotto dei personaggi rispetto all’originale, in linea con la sintesi drammatica che il genere richiede; l’espediente dell’elenco che ricorre in alcuni punti topici; la sublimazione del tema della povertà che, adattato alle convenzioni dell’opera, finisce per ricalcare un vero e proprio modello (Felice che decide di vendere il cappotto per poter mangiare non può non ricordare la “vecchia zimarra” di Colline nella Bohème). Questo stesso motivo, finora più evocato che rappresentato, si fa concreto nella famosa abbuffata, resa in maniera corale e iperbolica senza per questo cadere nel farsesco. In compagnia degli abitanti del quartiere, che compongono un intreccio di mani e spaghetti, Sciosciammocca può finalmente avventarsi su uno dei piatti di pasta offerti dai giovani Gemma ed Eugenio proprio per convincerlo a cedere alla loro richiesta.

Miseria e nobiltà

La forza di questo finale d’atto sta nel taglio quasi cinematografico determinato dalla scelta registica di sottoporre la scena a un effetto ralenti. L’evocazione di un contesto storico preciso e prossimo al nostro tempo conferisce alle “maschere” dell’originale un’inedita sostanza sociale, morale e psicologica che non può prescindere dalla scelta di focalizzarsi su un numero ridotto di personaggi e che risulta ben calibrata nello svolgimento dell’azione: il Principe di Casador, emblema dell’ipocrisia e dell’arroganza sconfinante nell’abuso di potere di cui può essere capace un membro del suo rango; Bettina (a cui Tutino dedica un lungo arioso di grande espansione melodica e impatto emotivo) che da semplice fantesca si rivela essere la moglie ripudiata di Felice, ignaro dei motivi che l’hanno spinta a concedersi al Principe di Casador; Don Gaetano, pronto a difendere la dignità della figlia Gemma senza per questo fuggire dall’arte del compromesso. Felice, insieme alla propria identità, svela compiutamente anche quella, finora solo intuita, di antifascista, quando esulta alla notizia dei risultati del referendum: vero e proprio coup de théâtre che riannoda i fili delle “storie” con la “Storia”, oltre a mutare il corso della vicenda.

Caratteri a tutto tondo e in continua evoluzione, le cui storie contribuiscono a svelare il fondo tragico della vita e della storia racchiuso nell’eterno conflitto fra “miseria” e “nobiltà”, che può essere esorcizzato solo attraverso la chiave dell’ironia, presa coscienza della sua ineluttabilità anche di fronte a un cambiamento apparentemente epocale come la nascita della Repubblica Italiana. Emblematiche del trasformismo tipicamente italiano le battute di sapore gattopardesco fra quelle che anticipano la chiosa finale: «Va bene, si faccia un’Italia fasulla: / cambiamo ogni cosa per non cambiar nulla. / E sia benvenuta sull’arca nostrana / La democrazia… / purché sia cristiana!».

La regia di Rosetta Cucchi, che propone un impianto a scena fissa per ciascun atto, si muove sui binari della tradizione, ma è capace di valorizzare i momenti salienti anche grazie a un uso sapiente delle luci. Se il grande edificio del primo atto ricorda quello che inserisce Zeffirelli nel suo celebre allestimento dei Pagliacci, ambientato proprio nel dopoguerra, la Cucchi sembra essersi ispirata al celebre Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo nella scena in cui Felice, spiegando a Eugenio in maniera sibillina il motivo dell’ostilità che nutre nei confronti di suo padre, avanza verso il proscenio con un seguito di popolani.

Fra gli interpreti emergono Alessandro Luongo (Felice Sciosciammocca), Francesca Sartorato (Peppiniello), Valentina Mastrangelo (Bettina) e Alfonso Antoniozzi (Don Gaetano).

Elementi di pregio: capace di fotografare un’epoca storica senza risultare didascalica, la nuova opera di Tutino riesce a trovare una propria identità pur rimanendo ancorata a una precisa tradizione.

Limiti: Un certo scollamento fra coro e orchestra ha inficiato una resa musicale nel complesso molto buona.

Visto al Teatro Carlo Felice il 27/02/2018 Opera in due atti, liberamente tratta dalla commedia di Eduardo Scarpetta Soggetto, sceneggiatura e libretto di Luca Rossi e Fabio Ceresa Musica di Marco Tutino

Bettina Valentina Mastrangelo Peppiniello Francesca Sartorato Gemma Martina Belli Eugenio Fabrizio Paesano Cameriere/Contadino Nicola Pamio Felice Sciosciammocca Alessandro Luongo Don Gaetano Alfonso Antoniozzi Ottavio Andrea Concetti

Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice di Genova Direttore Francesco Cilluffo Maestro del coro Franco Sebastiani Regia Rosetta Cucchi Scene Tiziano Santi Costumi Gianluca Falaschi Luci Luciano Novelli Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova e Teatro Verdi di Salerno

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