Pueblo è un racconto in una giornata di pioggia. Ascanio Celestini rimane alla finestra, scosta la tenda e sbircia nella vita delle persone: «Io non so nulla, Pietro, ma se vuoi, ti racconto tutto. [...] So che è così». Dopo il successo di Laika, l'attore-autore romano torna al Teatro dell’Archivolto per affrescare una galleria di ritratti degli ultimi, del popolo reietto che, trasparente e senza più radici, abita i quartieri ai margini, e attraverso rapide pennellate gioca a immaginarsi la loro quotidianità. Vede Violetta, la dirimpettaia, chiusa da anni nello stesso supermercato, come una «regina sul trono di cassa», la madre che in cucina prepara una zuppa liofilizzata mentre le parla del padre che sapeva fare tutto, «persino la pasta con il tonno». Sullo stesso marciapiede di questa Roma di periferia, fatta di supermarket, collegi di suore bastarde, magazzini enormi, slot machine dai nomi esotici e mercati caotici, intravede Said, il facchino africano che per lavoro sposta pacchi di cui ignora il contenuto, innamorarsi di Domenica, la stessa barbona che non chiede mai l'elemosina ma recupera dai cassonetti ciò che il capitalismo abbandona.
La scenografia è essenziale - un paio di tende e un tavolo da cucina -, a travolgerci è la voce ritmata di Celestini che, accompagnata dalle note di Gianluca Casadei a fisarmonica e pianola, è la vera protagonista dello spettacolo. Una prova autoriale che non fa testo: senza neppure un brandello di copione - «Con un testo in mano non potrei girare allo stesso modo intorno alle parole», afferma dopo lo spettacolo -, l’attore si addentra in un monologo incontenibile, in cui unendo trame di diversi tessuti, talvolta a perdifiato, rischia persino di confondere il pubblico, ma mai si lascia sfuggire le fila dalle mani. Un vero e proprio arazzo variopinto che viene tessuto con grazia sul palco della Sala Modena e di cui a essere importanti non sono i singoli fili, le singole storie, ispirate da interviste sul campo e letture, quanto invece la collocazione - la Roma del mercato coperto di viale Spartaco -, la firma del tessitore - Ascanio Celestini - e il ricamo disegnato - una serie di personaggi naif accomunati da una straordinaria umanità.
Volto noto della tv e tra i massimi esponenti nostrani della narrazione a teatro, Celestini costruisce con cura la cornice, si pone nei panni di narratore-giullare e inserisce un paio di battute - poche e brevi puntualizzazioni - attraverso una voce off registrata, quella del figlio Pietro, un elemento straniante di certo, ma non abbastanza presente da costituire un dialogo, né abbastanza potente per distogliere l'attenzione dall’attore. Gli stessi personaggi rimangono macchie sbiadite, quasi «una festa di fantasmi tascabili» di fronte alla presenza istrionica del romano, in un quadro dove viene assegnata un'importanza significativamente maggiore al mittente rispetto al messaggio, alla sorgente rispetto al segnale.
Questo e il procedere per spot della narrazione impediscono una totale partecipazione alla storia e fanno ricadere Celestini proprio nell'errore che vorrebbe evitare: quello di raccontare la verità, sentirsi dare ragione e poi vedere il proprio pubblico, a fine spettacolo, abbandonare la sala sollevato, immobile nella sua indolenza civile.
Elementi di pregio: l'uso accurato della parola e la scorrevolezza del monologo, nonostante la mancanza di un copione.
Limiti: la velocità nel passare da un riquadro all'altro all'interno del racconto; la presenza di personaggi - fantasmi, spesso troppo stereotipati; la sopraffazione dell'autore nei confronti del suo stesso spettacolo.
Di Ascanio Celestini Con Ascanio Celestini, Gianluca Casadei Suono: Andrea Pesce Una produzione di Fabbrica srl In coproduzione con Romaeuropa Festival 2017, Teatro Stabile dell’Umbria Distribuzione Ass. Cult. Lucciola
Foto di Diletta Nicosia©
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