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  • Matteo Valentini

Terreni creativi 2023 | Andiamo a ballare

Molte cose possono essere trovate nel Ponente ligure. Clima temperato, purissimo olio d’oliva, borghi dove trascorrere romantici fine settimana, un vino un poco acidulo, che però sa piacere. Molte cose, ma non il teatro. Come se si trattasse di piantumare siepi ornamentali sul ciglio di un vulcano, il teatro nel Ponente ligure sembra non attecchire. Con “teatro” vorrei intendere centro di produzione originale, luogo di formazione e incontro attraversato da una visione artistica coerente, non soltanto, e non per forza, edificio con persone semoventi su un palcoscenico. Ma così come sulle pendici di ogni vulcano svettano, pervicaci, le ginestre, nel paesaggio lunare del Ponente ligure emerge Kronoteatro, compagnia fondata nel 2004 da, tra gli altri, Tommaso Bianco, Maurizio Sguotti e Alex Nesti. Ormai da 14 anni, a fianco di una costante produzione di spettacoli e dell’organizzazione di una stagione invernale, Kronoteatro cura il Terreni Creativi festival, portando una certa scena contemporanea italiana indipendente nelle aziende agricole dell’entroterra di Albenga, in spazi ai margini delle transumanze turistiche, ma centrali per l’identità e la crescita del territorio. Il Premio Garrone nel 2016, il Premio Rete Critica nel 2017 e, infine, il Premio Ubu nel 2022 hanno, pur simbolicamente, certificato la qualità e l’importanza di questo festival.


Collettivo Micorrize_Luca Del Pia
Foto di Luca Del Pia

Da alcuni anni a questa parte, le riviste e le webzine di critica teatrale, prima di entrare nello specifico di quanto visto a Terreni Creativi, si attardano in introduzioni del tipo appena letto qui sopra. Magari cambiano le metafore, la ginestra sul vulcano può diventare il soldato giapponese che resiste solitario nella giungla di Lubang, ma dopo le parole-chiave “provincia”, “spazi non convenzionali”, “teatro di ricerca”, arriva implacabile l’avverbio “inspiegabilmente”, l’aggettivo “non riconosciuto” e la sigla “FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo)” - divenuto FNSV (Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo). Lo stesso vale per questa edizione, che, come racconta Tommaso Bianco in un’intervista a Teatro e Critica curata il mese scorso da Andrea Pocosgnich, potrebbe essere quella conclusiva. Il suo titolo, Lascia l’ultimo ballo per me, non svela soltanto un attaccamento di Sguotti e i suoi alle sonorità beat di Shel Shapiro, ma denuncia sottilmente la cecità e l’insipienza di Ministero e Regione Liguria, tremendi più di Rocky Roberts nel 1968.


Sacchi di Sabbia_Foto di Luca Del Pia
Foto di Luca Del Pia

Il 7 agosto, le sventure della rete autostradale ligure non mi permettono di assistere a Oro del Collettivo Micorrize, spettacolo di danza itinerante che apre il festival; così, ad accogliermi nella vigna dell’Azienda Agricola dell’Erba trovo Massimo Grigò, attore unico sulla scena de La commedia più antica del mondo dei Sacchi di Sabbia. La pièce è una rivisitazione degli Acarnesi di Aristofane, presentata ad Atene in occasione delle feste Lenee nel 425 a.C. mentre imperversava la guerra contro Sparta. Una commedia che vede il protagonista, Diceopoli, stanco delle restrizioni belliche, stipulare una pace separata con lo storico avversario della propria polis: le reazioni sconcertate dei suoi concittadini non si fanno attendere, soprattutto quelle degli Acarnesi, vecchi eroi di Maratona, guerrafondai e moralisti. Nel finale, nonostante gli insulti e le sassaiole con cui viene vessato, sarà Diceopoli a spuntarla sul generale dell’esercito ateniese, Lamaco, giunto a ricondurlo all’ordine: se quest’ultimo uscirà di scena pregando i commilitoni di sorreggergli la gamba ferita, il primo lo farà invitando due ragazze a sostenere il suo glorioso membro.

La drammaturgia, curata da Giovanni Guerrieri, scorcia i passaggi della commedia più legati alla vita politica e artistica del tempo ed evita facili riferimenti alla realtà contemporanea. Piuttosto, concentra la propria attenzione sul comico scatologico che anima i testi aristofanei, sulla sua natura di vessillo apotropaico e di preghiera contro il male. Grigò assume un tono tra il televisivo e l’accademico, spiega che cos’è una parabasi e come si svolgevano gli agoni teatrali nell’antica Atene; gigioneggia con il pubblico, ne prende sottilmente in giro il perbenismo e la supposta levatura morale; lo diverte con la variegata manipolazione di una scultura fallica (opera di Noela Lotti); lo chiama a scagliare contro il protagonista sassi immaginari e ad acclamarlo, subito dopo, con il nome osceno di “Dickeopolis” – «Dick! Dick! Dick!». Questa mutevolezza di tono ed espressione esalta il pubblico e si adatta perfettamente a una riscrittura animata da molteplici piani di significato.


Sacchi di Sabbia_Foto di Luca Del Pia
Foto di Luca Del Pia

Ben più classica appare la messa in scena del Pluto di Aristofane, prodotta dai Sacchi di Sabbia e dalla Compagnia Lombardi-Tiezzi. Dopo i rapidi scambi iniziali tra l’accorto Cremiro (Giovanni Guerrieri) e il suo indolente servitore Carione (Enzo Iliano), accompagnati dagli efficaci accenti di ukulele di Giulia Gallo, lo spettacolo cala di ritmo e brillantezza, forse per il mancato allineamento tra il tono volutamente distaccato e monocorde di Guerrieri e Iliano e quello ilare e macchiettistico di Gabriele Carli (Pluto). Ma, soprattutto se confrontata con l’operazione di decostruzione e rimontaggio dedicata ad Acarnesi, è l’immediata aderenza al moralismo e ai meccanismi comici del testo originale a perplimere maggiormente. La commedia più antica del mondo riesce a rendere divertente la trasformazione di un fallo finto in un telefono e in una racchetta da tennis perché la inserisce all’interno di una cornice allo stesso tempo narrativa, didattica e metalinguistica. Così come la guerra del Peloponneso in Acarnesi, i rimbrotti ai ricchi disonesti e la demitizzazione delle divinità olimpie presenti in Pluto sono fatalmente distanti dall’esperienza del pubblico contemporaneo: le avances sessuali di Zeus al dio della ricchezza, le lamentele di una vecchia per la perdita del suo cicisbeo, i disordini di fronte al tempio del dio Asclepio sono episodi comprensibili, a tratti anche piacevoli, ma, senza una ricontestualizzazione, incapaci di creare un coinvolgimento che non sia prodotto dalla singola espressione facciale o da uno scambio di battute particolarmente riuscito.


Sorelle di damiano_Foto di Luca Del Pia
Foto di Luca Del Pia

Il giorno seguente sono i magazzini dell’Azienda Bio Vio ad accoglierci: al loro interno, le Sorelle di damiano presentano il loro studio, VARIAZIONE No. 1. Già dando un’occhiata al titolo, asciutto e privo di lirismi, è agevole interpretare la proposta di Sofia Pazzocco e Simona Tedeschini come un’intensa investigazione sul grado zero della danza: al suono delle forme d’onda modulate da Pazzocco con l’aiuto di un sintetizzatore, Tedeschini danza nello spazio indossando un costume di velluto nero, estremamente sensibile al rifrangersi più o meno intenso della luce. La nudità statuaria di Pazzocco, la natura primordiale del suono diffuso in sala, le movenze apparentemente non narrative di Tedeschini rimandano a un mondo di corpi che vogliono semplicemente aderire alle proprie qualità fisiche, senza significare niente di più. Stupisce, quindi, leggere nella nota di accompagnamento riferimenti a una «narrazione intima» sul «senso di non appartenenza» all’interno di uno «spazio di arresto della volontà». Come già altre volte, ci si trova a interrogarsi sulla modalità di utilizzo e di lettura delle note agli spettacoli, soprattutto di quelle legate alla danza contemporanea: lontane dalla loro funzione di contestualizzazione e introduzione al prodotto scenico, esse si trovano spesso a fornire al pubblico altisonanti e complicate indicazioni, foriere di perplessità e disorientamento. Se di non appartenenza si parla, è forse possibile vederla nel monadismo delle due artiste sul palcoscenico, apparentemente ignare della reciproca presenza, mentre lo spazio di arresto della volontà potrebbe essere riconosciuto nella danza fluente di Tedeschini, interrotta da momenti di apparente lucidità in cui la danzatrice si ferma per fissare il pubblico. Nonostante tutto, resta più forte la sensazione che questo studio si lasci apprezzare senza indicazioni ulteriori.


quotidiana.com_Foto di Luca Del Pia
Foto di Luca Del Pia

Chiude il festival l’ultima produzione di quotidiana.com, in collaborazione con Kronoteatro: I Greci, gente seria! Come i danzatori. La drammaturgia di Roberto Scappin e Paola Vannoni è pervasa da ragionamenti, aforismi, guizzi che intessono un arco tematico grosso modo riconducibile al legame tra mente e corpo, trascurato dall’individuo contemporaneo e, invece, centrale per la filosofia classica. I sussurri distaccati dei due, caratteristica costante di altri spettacoli passati, ora divertono il pubblico con l’acume dei loro interrogativi – «Ma perché se uno mi dice “cretino” ho una vasodilatazione? Che ne sa il mio sangue, i miei vasi sanguigni, della parola “cretino”? » – ora lo freddano con la radicalità di certe affermazioni – «Senza l’amore di sé non si sta neanche in piedi. I suicidi sono quelli che hanno deciso che non si amano più». I loro gesti svagati sono ciclici e semplici, eseguiti per essere abbandonati quasi sovrappensiero. Paiono segni grafici atti a vergare nell’aria le parole sommessamente pronunciate. Al termine dell’applauditissima performance, Vannoni prende la parola e ricorda al pubblico la delicata situazione del festival, la pesante responsabilità delle istituzioni, la tenacia della compagnia Kronoteatro. «Bisogna essere più decisi e lottare per quello a cui abbiamo diritto»: queste le ultime parole dell’artista, a cui fa seguito una sentita standing ovation rivolta agli organizzatori di Terreni Creativi, seduti al mixer sul fondo della sala. Dopo alcuni minuti di applausi, Tommaso Bianco alza una mano e fa per parlare. Tutti ci fermiamo, in silenzio. «Di là c’è la musica. Andiamo a ballare». Obbediamo.


Kronoteatro_Foto di Luca Del Pia
Foto di Luca Del Pia

oca, oche, critica teatrale
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