Teatro Sotterraneo, Gli Omini, Marta Cuscunà, Licia Lanera, Menoventi, Collettivo Cinetico, I Sacchi di Sabbia, Teatro dei venti, Leviedelfool, Fratelli Dalla Via, Frosini/Timpano, Mario Perrotta, Fanny e Alexander, Cuocolo/Bosetti, Babilonia Teatri, Quotidiana.com, Maniaci D’Amore, Marco D’Agostin, Rezzamastrella e molti altri.
Nelle sue dodici vite, Terreni Creativi - il festival ideato, diretto e organizzato da Kronoteatro - ha portato ad Albenga, in spazi non convenzionali e con un sostegno economico e istituzionale parziale e comunque mai adeguato, alcune delle realtà più importanti della scena teatrale contemporanea italiana.
In molti casi, gli spazi concessi a questi artisti hanno abbondantemente preceduto blasonati e prestigiosi riconoscimenti nazionali, segno di un’attenzione particolare da parte di Maurizio Sguotti e del suo gruppo nei confronti di ciò che si muove metaforicamente nell’ombra: percezioni importanti di poetiche emergenti, tra la dispersione e la disperazione, strutturalmente fragili rispetto al pachidermico apparato ministeriale teatrale che - storia antica e di oggi - non pare particolarmente interessato a proteggere ciò che si sviluppa nella periferia dell’arte.
A proposito di questa scarsa cura istituzionale nei confronti del mondo culturale delle nostre città, suggeriamo la lettura di un lucido e necessario articolo della redazione di Ateatro, su precise scelte effettuate da un Comune a pochi chilometri da Albenga, quello di Genova, in merito a sostegni economici cospicui e mirati a discapito di altre esperienze, benché piuttosto storiche e radicate, come il Festival del Suq o il meritorio e sempre coraggioso Testimonianze Ricerca Azioni di Teatro Akropolis.
Chi governa decide, naturalmente, ma si dica, in definitiva, che si tratta di scelte politiche, senza azionare il vecchio grammofono rotto del “non ci sono abbastanza risorse” - che evidentemente ci sono.
Anche Terreni Creativi, nonostante il successo conclamato e la riuscita, tecnica, organizzativa, logistica, di pubblico, è rimasto privo del supporto del FUS per il “Riparto dei contributi a valere sul Fondo Unico per lo Spettacolo a favore di nuove istanze per l’annualità 2021”, come opportunamente raccontato da Roberto Rinaldi per Rumorscena e da Sguotti stesso: «Ci hanno scritto che manca la direzione artistica, il rischio culturale, l’incremento del turismo».
Noi oche abbiamo visto tutta la dodicesima edizione di Terreni Creativi, dal primo all’ultimo giorno, e possiamo testimoniare che: la direzione artistica c’è eccome; di pubblico ce n’era parecchio e assai vario; e ci è parso che, visti gli spettacoli, il rischio culturale sia un fattore centrale nella poetica di questo festival.
Insomma, lasciando a margine il riferimento genovese e limitandoci a questo caso specifico, resta da chiedersi se la Commissione Ministeriale che ha attribuito il punteggio insufficiente a Terreni Creativi abbia davvero compreso la natura di questo festival.
O, detta più francamente, se ne abbia mai vista almeno un’edizione.
«Immaginare la provincia come polo attrattivo, fertile e potenziale, capace di modificare la propria fisionomia e scardinare il pregiudizio di sé».
In questo estratto programmatico che introduce il dettaglio degli spettacoli di Terreni Creativi è contenuta la solida direzione artistica del Festival: ridiscutere un termine, quello di “provincia”, abitandolo e quindi restituendolo alla comunità in modo diverso, senza prenderne snobisticamente le distanze.
Sfida ambiziosa, a nostro avviso ampiamente vinta, anche visto l’entusiasmo del pubblico di cui siamo stati testimoni.
Il presente articolo non andrà a fornire una restituzione individuale di ogni spettacolo visto (abbiamo dedicato su facebook uno spazio apposito per ciascuna giornata di festival), ma a disegnare delle linee generali, a partire da concetti, che in qualche modo, secondo noi, possono riuscire a raccontare, sia pure in parte, ciò che è andato in scena a Terreni Creativi.
1. La “dimensione sonora”: una playlist possibile.
Un tempo, non troppo tempo fa, tra amici o fidanzati ci si regalava dei cd masterizzati con delle compilation personalizzate. Sarebbe interessante riprendere la consuetudine appositamente per Terreni Creativi 2021: c’è stata molta, moltissima musica. Spesso suonata, montata, attivata in scena, secondo modalità performative raffinatissime.
Eccone alcuni esempi. Il calore intimista del folk rivissuto e suonato in scena da Alessandro Berti in Negri senza memoria - ma anche la centralità che riveste il testo Papa was a Rolling Stone dei Temptations, in Black dick, primo capitolo del suo Bugie bianche. La potenza multicentrica delle sonorità ripetute e montate da Michele Baronio, in un angolo della scena di Dove tutto è stato preso, un episodio sonoro che ricopre un ruolo fondamentale in questo lavoro intimamente incentrato sul suono, anche laddove la musica non c’è.
Ancora, il legame fortissimo tra teatro e musica nel Tiresias di Giorgina Pi, il cui concept è esteriormente e intrinsecamente basato sulla sonorità, grazie alla “dimensione sonora” condotta dalla regista Giorgina Pi e dal Collettivo Angelo Mai e finalizzata in scena dal mattatore e dj, Gabriele Portoghese, straordinario attore “vocale” come pochi che attinge, forse inconsciamente, dalla fonte più difficile, quella per i veri intrepidi, Carmelo Bene. Il discorso va avanti con il cuore del gioiello di Marco D’Agostin, Best regards, che incastona all’interno di un play autoironico, eccessivo, caotico, emozionante, il sogno (realizzato) di una canzone scritta e dedicata al suo maestro Nigel Charnock e finalmente cantata - performata, meglio - davanti al pubblico.
Daniele Ninarello, a cui Terreni Creativi dedica una personale - comprensibilmente, visto il talento del coreografo e danzatore - la musica la fa addirittura danzare, per esempio in Kudoku, con le tortuose evoluzioni dei montaggi sonori del sassofonista americano Dan Kinzelman, che alla fine agisce egli stesso nello spazio, facendosi corpo scenico: anche qui si fa uso di una possente tecnologia audio, utilizzando fino in fondo il potenziale dell’effetto loop, costruendo un mondo sonoro parallelo, sì dissonante in sé, eppure in armonica analogia con l’esperienza corporea liminale del danzatore - e dello spettatore.
A completare il quadro, non può mancare Hit me! di Francesca Foscarini, che addirittura intorno al concetto stesso di playlist, utilizzando in modo ingegnoso il legame spontaneo e imprevedibile che il suo pubblico intreccia con i brani che si susseguono in ordine non precostituito, costruisce un’azione davvero massacrante, sul piano fisico ed emotivo, un’attivazione di ascolto e di visione non banale, di cui sicuramente, data la natura dell’esperimento, sarà interessante seguire gli sviluppi.
La musica, il canto, lo studio della vocalità, il suono appunto, in questi lavori sono organi vitali della performance, insostituibili, determinanti, specifici, come le parole di una poesia di Montale.
Restiamo con una curiosità: cosa verrebbe fuori da una compilation di tutte le principali esperienze sonore di Terreni Creativi 2021?
Sicuramente sarebbe un bel regalo.
2. Due parole sulle parole.
Nel vasto campo critico dei distinguo su ciò che è o non è drammaturgia, anche un Festival come Terreni Creativi può fornire un (inevitabilmente parziale) “stato dell’arte”.
Partiamo dalla dimensione apparentemente più semplice: quella del testo, pensato prima, dopo o durante un’azione scenica, ma comunque fissato e ripetibile.
Di tutto ciò che abbiamo visto, la trilogia delle bugie bianche di Berti, in questo senso, è forse il lavoro con maggiore radicamento nella tradizione, perché costruita, sia pure in modo personale e ricercato, secondo il codice riconoscibile del teatro di narrazione, che negli ultimi trent’anni il pubblico ha imparato a comprendere, sperimentandone di volta in volta l’ascolto: questa dell’artista emiliano è una proposta vitale e documentatissima, ricca di intertestualità, nel quale a conquistare in special modo è la freschezza della composizione del primo capitolo, Black dick, forse più equilibrato ed efficace rispetto a certe discontinue e faticose parentesi aperte in Negri senza memoria, il secondo capitolo, e anche più dirette e in un certo senso scomode rispetto all’affresco filosofico “a tesi” esibito nel cortometraggio Blind love, che chiude questa originale e intensa trilogia.
In relazione al concetto di una certa adesione ad alcuni stilemi tradizionali della drammaturgia, va senz’altro inserito il potente Tiresias di Bluemotion - che secondo me ha una fortissima vocazione operistica. Si tratta di un progetto intimamente drammaturgico, innanzitutto perché è l’unico lavoro che dichiaratamente trae ispirazione da un testo preesistente, Hold your own di Kae Tempest, tradotto per l’occasione da Riccardo Duranti, poi perché, su questo, elabora una tessitura narrativa esplicita, a metà strada tra un mito antico e una favola, con delle storie che, come strofe di una canzone “pop”, si intrecciano tutte in un analogo refrain. L’oscurità ricercata, semmai ve ne fosse una, consiste più che altro nelle modalità divertite e raffinate con cui Giorgina Pi, in costante dialogo con la sua compagnia, affronta la dimensione della temporalità, combinando il tempo della storia con quello della scena, la trasformazione narrata dei personaggi e quella effettiva della corporeità di Portoghese: è un’opportunità offerta da una drammaturgia aperta e irriverente, ma affidabile, perché fissa le sue trame saldamente sul perno di un’idea chiara e solida.
End to End di quotidiana.com e Dove tutto è stato preso di Bartolini/Baronio, pur in tutte le loro abissali ed evidenti differenze, sembrano davvero gravitare entrambi intorno allo stesso problema: quello del linguaggio, o meglio della parola.
In entrambi i progetti, la dimensione dello spazio, o meglio potremmo dire della corporeità, pare in totale funzione di quella della parola, intesa come espressione prevalentemente verbale in Bartolini/Baronio, soprattutto testuale invece nei dialoghi di whatsapp proiettati sullo schermo di End to End. La parola dunque è protagonista delle due drammaturgie, degradata o regredita, fagocitante fino al punto di costruire labirinti di non senso, vuoti e disperati.
End to End in questo territorio si muove con ferocia e senza ambiguità, facendo a pezzi l’umanità detta/scritta, lasciando cumuli di sofferenza senza peso, verità invisibili nascoste nel pieno di una comunicazione virtuale: horror vacui.
Il tema barocco dell'horror vacui attraversa con carattere tragico anche il lavoro di Bartolini/Baronio, che peraltro sin dal titolo pone l’accento su una mancanza faticosamente e inutilmente riempita, quel “Dove tutto è stato preso” che non si concentra sul “quando”, rischiando di aprire uno squarcio nella Storia, ma sullo spazio - assente -, su una casa che non c’è, che non è come e soprattutto dove dovrebbe essere, mentre le parole, i monologhi, la musica, come i “tarli” del testo, divorano ogni centimetro cubo dello spazio sonoro che hanno esse stesse generato. La rinuncia al linguaggio, che si sviluppa verso la fine dello spettacolo, non sembra coincidere con ciò che vorrebbe esplicitamente indicare. Il lirico monologo con cui Tamara Bartolini chiude “Dove tutto è stato preso” potrebbe suggerire un ritorno alle sonorità e ai bisogni dell’infanzia, ma forse incarna in realtà una sfida alla natura umana ben più grande: è una vera e propria rinuncia al desiderio (torna in mente la frase “stop craving” del rap di Kae Tempest). Non si tratta di fuggire verso un pianeta di purezza, ma forse è una condanna inesorabile al rapporto tra significato e significante, segno inevitabile di una natura umana macchiata da un tragico peccato originale - laico, universale - dal quale, finché si usa il suono per dire qualcosa, qualsiasi cosa, non ci si può salvare. E barocca è, con lo stesso colore, l’estetica drammaturgica di End to End, che gioca con la giustapposizione di opposti, dichiarando la presenza dell’attore in un non-spazio, e contemporaneamente alludendo alla sua assenza nel momento in cui, a fine spettacolo, Roberto Scappin e Paola Vannoni entrano effettivamente in scena, ma sotto forma di ombre, dietro uno schermo retroilluminato. Il gioco è violento e colto insieme, può non piacere, ma merita un attestato di stima per lo spessore, l’autenticità senza nascondigli.
Dal centro al cerchio, seguendo una traiettoria che si allontana ancora un po’, gradualmente, da soluzioni in qualche modo attinenti alla tradizione drammaturgica, troviamo senz’altro l’ultimo, appassionante risultato del percorso artistico di Marco D’Agostin: Best regards.
La sua natura è evidentemente affabulatoria, il che per un lavoro condotto da un danzatore è già sintomo di rarità.
Il testo di Best regards non è un vero testo - e forse nemmeno ne esiste una versione scritta, neppure abbozzata, chissà - anzi, sono gli stessi credits a suggerirci l’idea che alla base dell’opera non ci sia una drammaturgia, ma “testi” separati - dello stesso D’Agostin, Azzurra D’Agostino, Chiara Bersani e Wendy Houstoun.
Dunque è una combinazione di scritture diverse? Di certo, per comprendere a pieno la misura di questa combinazione, bisogna dire che Best Regards non ha nulla a che vedere con l’improvvisazione pura.
Il processo che è alla base di questo oggetto anfibio e sfuggente è anzi una studiatissima generazione di stimoli, una disseminazione di segni, la costruzione di un paesaggio sonoro, affannoso, caotico, dall’equilibrio fragilissimo, nel quale acquista valore, per contrasto, il gesto pulito, vivo, del corpo di D’Agostin, che abbozza continuamente possibilità, ipotesi, idee, anche sciocchezze, che gravitano intorno al concetto drammatico, inesorabile della morte (e della morte di una persona precisa, di un maestro per di più), così come satelliti, stazioni spaziali e spazzatura interstellare navigano parimenti intorno al nostro povero pianeta.
D’Agostin usa i testi per disegnare galassie e il corpo per farle roteare, disorganicamente e armonicamente insieme, nello spazio, replica per replica, di volta in volta - il work pare condannato a essere in progress, mai fermo.
Ritornano spesso parole chiave come “too much” o quel “death” disinvoltamente reiterato e proiettato, in modo giocoso e sinistro, sui neon colorati a fondo scena; la sua memoria è inibita da continui cortocircuiti, montaggi nei quali D’Agostin incarna a volte le parole dello stesso N. (Nigel Charnock, il coreografo e danzatore al quale è dedicato Best Regards), altre volte quelle di Wendy Houstoun, collaboratrice e grande amica del compianto artista inglese. Infine, in un prolungato finale nel finale (ne ho contati almeno tre possibili) l’artista apre davanti al pubblico una lettera scritta da Chiara Bersani, appositamente per questa prima regionale ad Albenga, e la legge per la prima volta con noi.
La lettera è lunga, ricca di immagini, piena di echi e rimandi, eccessiva, rispettando così, a distanza, per complicità artistica innata, lo spirito di Best Regards. E così la resa drammaturgica di D’Agostin sembra questa: farsi corpo, tramite, canale di parole altrui.
E il testo di D’Agostin, quello vero e proprio, forse sta solo racchiuso nella canzone scritta per Nigel. Con queste parole, le sue, di fatto, si chiude lo spettacolo. Proiettate sul fondo scena, nel buio, con la musica muta in sottofondo, come in un karaoke, le parole vengono prima mormorate, per timidezza, poi cantate da una platea un po’ confusa ma riconoscente.
Francesca Sarteanesi, invece, che abbiamo lasciato in fondo apposta, costituisce un unicum all’interno di questo festival. La personale a lei dedicata presenta al pubblico due lavori: Sergio e Bella bestia - quest’ultimo realizzato in collaborazione con Luisa Bosi, anche in scena.
Non conosco naturalmente la gestazione dei due testi, se siano stati scritti e poi provati o costruiti durante improvvisazioni e poi fissati, eccetera, ma ne posso registrare senz’altro l’enorme diversità. I singoli meccanismi dialogici che tengono insieme la solida struttura drammaturgica di Bella bestia, ovvero le giunture brusche e arbitrarie con le quali una parte del dialogo viene quasi interrotta e reindirizzata da quella successiva, in un tentativo continuo di depistamento della narrazione, conducono, con effetti innegabilmente comici, a un progressivo svelamento dei nervi e dei dolori di cui sono fatti i personaggi raccontati da Bosi e Sarteanesi. In Bella bestia, lo sviluppo è frammentato, quasi aggredito, da una ricerca di un colloquiale credibile, di una sorta di autenticità che spesso, nella vita di tutti i giorni, pone in collegamento luoghi distantissimi della nostra mente. Tuttavia, seppure ostacolato da lapsus, labirinti e ossessioni, l’andamento di Bella bestia segue comunque tracce molto riconoscibili di una drammaturgia tradizionale.
Per Sergio, invece, il discorso drammaturgico si fa più profondo. E più semplice.
Sergio attinge dalla natura orale della realtà. E le origini di questo spettacolo sono misteriose, non intendendo come “origini” la semplice idea che ha preceduto l’azione, ma le radici profonde, innegabili, la forma mitica, arcaica che questo lavoro porta con sé.
Sarteanesi è cantastorie - perché la sua voce è un canto popolare, forte di secoli di silenzio e di ascolto - di un’atmosfera, più che di una quotidianità specifica.
Non è vero che sia Sergio, il destinatario invisibile - non reale, ma vero - del flusso di immagini, costruzioni, omissioni, interruzioni, divagazioni, espressioni ora di rabbia, ora di ammirazione, ora di semplice complicità da parte dell’attrice in scena. Non è la sua vita che ci riguarda davvero, né i personaggi citati nel corso della composizione di questo mosaico di bozze, né un episodio in particolare anziché un altro.
A parlarci direttamente al cuore è il miracoloso legame che, sin da subito, Sarteanesi stabilisce con noi: è la sua presenza, promessa di una luce fissa, invariabile, di un cammino lento e con un ritmo costante, in cui ogni passo produce nient’altro che un altro passo, senza possibili cadute né voli improvvisi (perché anche questi, nell’universo di Sergio sono semplici passi). E sotto l’apparenza di un testo “facile”, ecco l’eversione ribelle di una drammaturgia che sembra generata dalle cicale, dagli alberi, dalle pietre, che si potrebbe distendere ancora per ore, senza farcene sentire il peso, ma che prima o poi finisce, non all’improvviso, ma proprio come finisce il canto delle cicale o dei grilli. Finisce e basta. E l’ultima parola di “Sergio” è forse la chiave dell’incanto di questo testo: “equilibrio”. E il silenzio del pubblico dopo l’ultima sillaba si carica della stessa forza, della stessa intensità della voce della Sarteanesi. Eravamo insieme. Parlavamo con Sergio, da millenni.
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