“A me non piacciono gli spettacoli con un attore solo” mi dice una bambina con le sopracciglia a punta come chi vuole affermare qualcosa di importantissimo. Non gliel'avevo chiesto, non la conoscevo neppure, mi limitavo ad essere tra il pubblico di Hans e Gret, riscrittura – che è termine sempre più bello e più preciso di “adattamento” - della celebre favola dei fratelli Grimm da parte di Emma Dante, firma prestigiosa del teatro internazionale e orgoglio tutto palermitano.
Lo spettacolo è inserito nella rassegna del teatro dedicato all'infanzia, che trasforma la sala Aldo Trionfo del Teatro della Tosse in un rifugio ideale da quei tipici ossimori climatici di certe domeniche pomeridiane di fine febbraio, freddissime e assolatissime.
La bambina è chiara già così com'è, ma insiste: “io voglio che ci siano più persone per...” qui vacilla la ricerca del lessico finora inappuntabile “...creare...” e la frase non finisce ma precipita in un breve attimo di incertezza, incalzato poi da altre bambine sue vicine che intervengono contando le persone del pubblico, sono cento, no sono mille, no un milione.
Non ho le parole sufficienti per tenere testa a certi spunti, mi commuovo e resto a osservare il teatro prima che inizi il teatro – la scena ancora vuota - e gli spettatori prima ancora di essere spettatori – i bambini – e mi rendo conto di essere di fronte a qualcosa di vivo, di speciale, che è già teatro e che gli spettatori che saranno, in realtà, lo sono già, da tempo e con molta competenza.
La famosa verità del teatro mi ipnotizza, il bisogno di più persone per creare, cento, no mille, no un milione.
E torno a sedermi felice, in attesa che inizi Hans e Gret ma dentro di me lo so, tutto è già cominciato, sono io in ritardo. Devo compensare con la massima attenzione, la presenza, la gratitudine. Sono uno spettatore, devo creare anche io.
E allora Hans e Gret.
Cominciamo con un punto fondamentale.
Un giorno, quando ogni etichetta sarà superata, ogni dubbio sarà svanito anche nei perplessi e negli scettici, quando ogni passione per le classifiche perderà la sua ragione d'essere, si parlerà di Emma Dante come una gigante del teatro italiano, punto e basta. Non del teatro internazionale, proprio italiano. Perché usa come nessun altro la tradizione italiana, quella accademica, serva della scena, quell'eredità insinuante e pericolosa del teatro dei primattori e poi di regia. Emma Dante ne abusa selvaggiamente, ne fa materia viva e la trasforma con amore, devozione, odio e rabbia in uno strumento trasparente, algido, un'intelaiatura invisibile e quindi perfetta in cui, alla resa dei conti, risaltano solo le cose che riguardano l'essere umano, i suoi sentimenti incarnate, le sue parole-azioni.
La voce, il corpo, la musica, il ritmo, sono un tempio apollineo in cui si esibisce il Dioniso più crudo, una palestra in cui si esercita il culto della semplicità senza retorica.
In particolare, Hans e Gret è uno spettacolo intelligente, da qualsiasi parte lo si prenda.
I nomi dei protagonisti, tanto per cominciare, tagliati con l'accetta, come per buttare via il superfluo, assecondano il suono spiccio e monco con cui si richiamano i ragazzi in tanti vernacoli meridionali. Le scene di Carmine Maringola, poi, sono ingegnose: la ricostruzione delle ambientazioni della favola convince in pieno, giocando in modo lucido con la casa del taglialegna, quella della strega e il bosco, senza rinunciare a un montaggio narrativo coraggioso, che rompe l'unità di tempo e di spazio senza timore di “confondere” il pubblico, anzi premiandone l'immaginario, attraverso l'uso di oggetti ricorrenti e semplici, immediatamente riconoscibili nelle loro trasformazioni - solo per fare un esempio, le sedioline di legno rappresentano la casa, il letto, il gabinetto, l'intimità, ma rovesciate si tramutano nel bosco lastricato di inganni e minacce, fino a diventare, nella casa della strega, persino la gabbia in cui Hans viene fatto perversamente ingrassare -.
La scelta dei personaggi è in direzione di una forte caratterizzazione, in particolare è degna di nota la riuscitissima strega, interpretata senza alcun timore da Clara De Rose che non fa finta di fare la stregaccia, al contrario modula il corpo nei suoi segni primordiali, curvando l'articolazione, leccando, mordendo, nascondendo il viso sotto il cappello, non esitando a sfidare l'ascolto del pubblico con strilli acutissimi e colpi fitti e sordi di tacco, creatrice di ritmi, trame, inganni, seduzione infernale, orrendamente agonizzante mentre i bambini infilano il suo corpo nel forno, al rogo. Tutto per gioco, ma per davvero naturalmente.
Infine, ma è un “infine” per modo di dire perché sarebbero molte le osservazioni di pregio di quest'opera, è stato splendido l'aggiramento nemmeno troppo nascosto della cosiddetta morale. La tetra favola che rivorrebbe i fratellini a casa, carichi di cibo e doni per il povero padre snaturato e smidollato, mentre la matrigna giace per terra, morta di fame e di stenti scandisce pienamente quello che solo apparentemente è l'insegnamento della vicenda: bisogna restare uniti nelle difficoltà.
Eppure questa morale non convince nessuno, né tra il pubblico, né in scena. In fondo, la famigliola protagonista aveva suonato e cantato allegramente per dimenticare la terribile fame appena la sera prima che il taglialegna decidesse di abbandonare i figli nel bosco.
Non era l'unione che faceva la forza prima e non lo sarà neppure alla fine, nonostante il carrubo torni a fiorire e il sole a brillare. Perché, come dicono i fratelli Grimm e Emma Dante con loro: Hans, Gret e il loro papà non diventeranno mai ricchi.
C'è qualcos'altro, più profondo e più intimo, che si muove tra i dialoghi dello spettacolo e che si insinua nello stomaco come il vero motore di tutto ed è la frase che Hans, all'ingrasso nella gabbia della Strega, rivolge alla piagnucolante sorella, che come suo padre accetta di farsi schiavizzare da una megera, perché priva di fiducia, di fantasia, di idee.
Hans dice a Gret “Smetti di piangere: ragiona”.
E Gret s'ingegna, ci pensa, il pianto finisce, il cervello costruisce un'idea, quella decisiva che ingannerà la Strega e libererà i due fratellini definitivamente.
La morale è nell'azione. E nel pensiero che l'azione porta con sé.
E questa, di fatto, è la base del teatro.
Nell'anno in cui il Direttore Artistico della sezione teatrale della Biennale di Venezia, Antonio Latella, ha insignito con il Leone d'Argento l'olandese Jetse Batelaan, autore di spettacoli per ragazzi, Emma Dante ci regala un piccolo gioiello per il pubblico dei bambini – per tutti, cioè – e lo consegna a una Genova ferita, snaturata, dolorosamente separata da ponente a levante, con una politica culturale piuttosto confusa, per non dire carente, un inevitabile accentramento sempre maggiore degli spazi teatrali negli uffici degli enti più grandi, una costante minaccia all'esistenza di centri di cultura alternativi e sotterranei e la sgradevole sensazione che il lamento, l’abbandono delle istituzioni e la rassegnazione prevalgano sulla lotta per l’arte e la cura degli strumenti per diffonderla in tutta la città, periferie comprese.
La grandezza di Hans e Gret di Emma Dante va ben oltre il significato dello spettacolo: è un invito a ragionare e a costruire un'azione vera.
A creare, cioè. Ed è questa l'intuizione rivoluzionaria di Hans, Gret e, speriamo, di quella bambina con le sopracciglia a punta, tra il pubblico.
Elementi di pregio: la regia, le scene, la direzione degli interpreti, la loro devozione alla causa, la poesia che resiste.
Limiti: non dello spettacolo ma del teatro ragazzi, almeno com’è concepito a Genova, un non-genere. C’è bisogno di una programmazione (e di spettacoli, quindi) che sostengano l’idea che un teatro per ragazzi debba in fondo parlare a tutti, senza porsi limiti e, soprattutto, senza porne ai bambini.
Visto al Teatro della Tosse domenica 24 febbraio
Drammaturgia e regia Emma Dante
Con Manuela Boncaldo, Salvatore Cannova, Clara De Rose, Nunzia Lo Presti e Lorenzo Randazzo
Scene Carmine Maringola
Costumi Emma Dante
Luci Cristian Zucaro