Chissà cosa rende un festival un festival. Si tratta senz’altro di più aspetti. Se è ben comunicato, ci sono tante persone; se generoso, dei rinfreschi; se di ampio respiro, diversi spettacoli, incontri, tavole rotonde, a volte in contemporanea. E poi, chissà cosa fa un festival, a cosa serve, perché ci sono persone che lo organizzano e persone che lo frequentano. A questo penso mentre, fuori dall’Elfo Puccini di Milano, mi incaponisco inutilmente sulla sigaretta che stringo tra le labbra: l’accendino sfrega a vuoto ed è ora di entrare. Altri, come me, abbandonano le piastrelle scivolose di pioggia fuori dal teatro e si infilano nel foyer.
Inizia la terza edizione del festival di “Hystrio”, trimestrale di teatro e spettacolo fondato nel 1988 da Ugo Ronfani e diretto da Claudia Cannella, qui in veste di direttrice artistica. Nel foyer, luogo di mezzo tra chi sta dentro e chi fuori, la gente si abbraccia, si stringe le mani, si schiocca baci sulle guance, sembra rivedersi dopo tanto tempo. Hystrio Festival rappresenta anche questo: un punto di incontro e di partenza. Prima che settembre finisca, con l’estate e tutte le sue rassegne, a Milano è possibile, per qualche giorno, continuare e concludere questa parentesi, trovarsi, riconoscersi, preparandosi all’autunno, alle stagioni teatrali, a tornare a casa. Hystrio è come questo foyer: uno spazio di incontro per incontrarsi, andare a teatro e uscire a fumare.
Durante i giorni di festival, il via vai all’interno dell’Elfo è ininterrotto: dalla mattina, compagnie e volontari in allestimento, tavole rotonde, selezioni di giovani attori per il premio alla Vocazione, fino agli spettacoli e alle letture sceniche della sera (queste ultime selezionate assieme a Tindaro Granata, curatore del Progetto Il copione di Associazione Situazione Drammatica), in cui autori e autrici under 35 trovano uno spazio di primo piano per presentare il proprio lavoro, al di fuori dei più periferici contesti di provenienza e distribuzione.
Dalle serate emerge una generazione a tratti cinica e disperata, a tratti malinconica, a tratti capace di prendere posizione rispetto all’esistente. Drammi di amori che finiscono, saghe famigliari borghesi e assurde, una società troppo veloce, un realismo troppo capitalista sono alcuni dei fili tematici che hanno cucito tra loro le letture e gli spettacoli.
Il linguaggio dell’amore sedimentato in una chat di Whatsapp tra due ex fidanzati, analizzato da un programma di linguistica computazionale e materializzato su migliaia di fogli A4 è, per esempio, il soggetto d’indagine di Andrea Dante Benazzo e Laura Accardo in end-to-end; Joanna Karol Paul di Giulia Massimini è la storia della relazione tra tre adolescenti acida, esagerata, fumettistica, e per questo estremamente intensa; Alice Sinigaglia ed Elena C. Pataccini, ne Il canto del bidone, raccontano la vita di un Everyman costellata di tappe obbligate, riti di passaggio che somigliano a svolte autostradali; in ILVA Football Club, la compagnia Usine Baug, con i Fratelli Maniglio, usa un registro tra il fantastico e il documentaristico per rievocare le storie che circondano l’ILVA di Taranto. E poi ci sono i già raccontati Afanisi di Ctrl+Alt+Canc, Witch Is di Landi/Mignemi/Paris, Luisa di Valentina Dal Mas.
Con il passare dei giorni, critici di diverse testate arrivano e se ne vanno, così come i direttori artistici di diversi teatri italiani, o gli attori di accademie milanesi e non, formando un pubblico curioso per un festival aperto a tutti, ma spesso attrazione per chi, già inserito tra gli addetti ai lavori, è interessato sia a indovinare quali saranno i nomi stampati sui cartelloni di domani, sia a capire se la categoria under 35, ideata ormai dieci anni fa, abbia o no una sua voce.
Organizzare un festival per accoglierla e farla sentire, questa voce, fa parte di una scelta politica ben precisa. Nel concedere uno spazio ad artisti e artiste giovani, nel coltivare una curiosità verso il nuovo e il possibilmente diverso, in uno dei teatri più importanti di Milano, affacciato al celebre e brutalizzato corso Buenos Aires, si intravede una precisa presa di coscienza, e quindi una volontà di opposizione rispetto alla tradizionale percezione del teatro e, in generale, della cultura e degli spazi a essa dedicati.
Tuttavia, arrivati alla cerimonia conclusiva di assegnazione dei premi Hystrio, lo spirito di questa ricerca sembra vacillare.
Non lo fa la sala Shakespeare dell’Elfo Puccini, anche se siamo in tanti e la musica è alta, quanto piuttosto ciò che Hystrio si era premurato di presentare al suo interno. Se il festival nasce con l’idea di offrire uno sguardo sulla nuova generazione teatrale, ci si sarebbe potuti aspettare che i suoi premi, assegnati da una giuria composta dai vari collaboratori della rivista, tentassero di rappresentarla. Quelli che lo fanno costituiscono sezioni specificamente dedicate: tra le compagnie emergenti, Putéca Celidònia; tra le scritture di scena per autori under 35, Matthieu Pastore; tra i giovani attori del Premio Mariangela Melato, Chiara Ferrara e Giacomo Ferraù. Non è in discussione la qualità dei lavori, degli autori o degli interpreti, ma la loro dignità all’interno del festival. La loro posizione sembra, infatti, essere isolata in una zona protetta, al di fuori della quale ci sono i premi veri, quelli senza aggettivi o notazioni anagrafiche, che sono assegnati ad artisti eccellenti, ma già premiati altrove: Carmine Maringola, Marco D’Agostin, Carmelo Rifici, Linda Dalisi. L’eccezione rappresentata dal centro di produzione Fuori Luogo La Spezia, il cui lavoro decennale, preziosissimo e ancora un poco nascosto viene riconosciuto dal premio Altre muse, destinato a progetti e professioni del teatro, non permette di evitare la sensazione di un’aspettativa tradita: siamo a conclusione della terza edizione di un progetto interamente dedicato alla scena italiana under 35 e a ricevere i Premi alla Regia, alla Drammaturgia, all’Interpretazione e alla Danza sono tutti artisti maturi, ampiamente conosciuti e riconosciuti, che non hanno presentato i loro lavori all’interno del festival e che non sembrano aver bisogno di ricevere il premio Hystrio per consolidare la loro carriera.
Partendo dal presupposto che esistono tipi diversi di premi per diversi tipi di festival, viene da chiedersi se ricevere un premio Hystrio sia mero riconoscimento formale, un titolo in più con cui presentarsi o un atto di sostegno concreto. E che cos’è un premio? A cosa serve? Si può dire sia uno strumento con cui creare valore, un tentativo di dare forma a un canone, una scommessa al futuro. Perché, allora, canonizzare il già canonizzato? Un premio, inoltre è un modo per legittimarsi e per esercitare un’influenza. Quello legato a “Hystrio” è nato nel 1989 e, con gli anni, si è arricchito di numerose nuove categorie. Solo da tre è stato inserito all’interno di un festival dedicato esclusivamente alle nuove forme teatrali, ma questa prossimità non sembra aver scalfito il suo assetto tradizionale per cui, riprendendo Maddalena Giovannelli nel primo numero de “La Falena”, i piccoli non possono sedersi alla tavola dei grandi: perché non usare la credibilità di “Hystrio” e la sua storia per riconoscere, fuori da ogni fascia protetta, la nuova generazione teatrale? Perché non osare?
Finisce la premiazione con un accorato monito da parte dei due presentatori: la premiazione sta volgendo al termine, al piano di sotto ci sarà un buffet con del vino, ma ricordiamoci soprattutto del privilegio di fare teatro, un certo tipo di teatro, in un paese democratico. Silenzio. Parte Alors on danse di Stromae. Le persone lentamente cominciano a defluire. Ritorno alle piastrelle scivolose di pioggia e al mio ostinato accendino. Non intendo rompere la sottile bolla di riflessione per la necessità di dover accendere una sigaretta. Perciò non chiedo soccorso e provo a cercare la fiamma. Provo ancora, e ancora, e a ogni scatto inerte cresce la mia frustrazione. Mi torna in mente un nome, un premio. Non era il premio ufficiale alla Vocazione, unico Hystrio dichiaratamente dedicato ad attori under 30 scelti da una selezione su quattrocento candidati, ma una sottospecie. Il premio Ugo Ronfani è pensato per riconoscere attori o attrici che ancora stanno seguendo un percorso di formazione in Accademia. Quest’anno, a vincerlo, è stata Anna Cipriani, una studentessa di ventun’ anni vestita in jeans e converse, che su quel palco, al momento della rappresentazione, ha portato un monologo tratto da Radici di Arnold Weske. Cipriani, tramite la voce di Beatie, adolescente curiosa, ragiona sulle conseguenze del compromesso tra cultura e opinione pubblica, più in generale sull’imparare a guardare certi processi, certi cambiamenti o adattamenti, da un punto di vista critico, che serve a crescere, a essere indipendenti, a imparare a camminare. Ed è camminando che Anna esce di scena. All’ennesimo tentativo, finalmente una scintilla quasi impercettibile resiste sotto la pressione delle mie dita. Porto la fiamma alla bocca, la sigaretta si accende.
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