Con quella non servile ospitalità antica che mette gli uomini alla pari.
(Cristo si è fermato a Eboli, Carlo Levi)
Restituendomi l’automobile rimasta ferma nel mezzo della campagna emiliana, l’efficientissimo meccanico di Polinago mi assicura che, da quel momento, con lei posso raggiungere il capo del mondo. Dopo aver ridimensionato le mie prospettive esplorative, decido di toccare, nella conchiusa ma affollata estate festivaliera italiana, tre occasioni teatrali: il Trasparenze Festival, organizzato a Gombola dal Teatro dei Venti e da ATER Fondazione; La Luna nel Pozzo, non lontano da Ostuni, di cui già ero stato ospite un anno fa; l’autodramma messo in scena dal Teatro Povero di Monticchiello, attivo nella provincia senese dagli anni ’60.
In tutte e tre, assisto alla messa in scena di una comunità.
Questo è un termine ricorrente quando si parla di teatro – e, in particolare, di festival. Si tende a raccontare di averne fatto parte quando si è stati particolarmente bene accolti, quando si sono condivisi spazi, pasti e pensieri con altri spettatori o artisti, quando si sono create comuni consuetudini quotidiane.
Qui, nello specifico, per comunità intendo un gruppo che si organizza per un compito teatrale e, contemporaneamente, ne prescinde, essendovi al suo interno un vissuto e un processo quotidiano che vanno al di là della mera performance.
Non è un gruppo fondato sul professionismo, innanzitutto perché spesso chi lo anima non è un professionista e poi perché, pure se effettivamente lo è, ne trasgredisce le regole e le manifestazioni.
Non è un gruppo di semplici appassionati o di amatoriali, perché la mole di lavoro e di attenzione pubblica a cui è sottoposto somiglia a quella di una compagnia vera e propria.
In tutte e tre le occasioni, in modi molto diversi, il mio sguardo e, a volte, la mia presenza sono stati sfidati. Come rapportarsi con una comunità teatrale che allontana da sé sia il professionismo sia l'amatoriale? Come riprogrammare il proprio sguardo di fronte a una ricercata infrazione del canone? Come riconoscere la bellezza quando esorbita dal codice?
Una prima risposta viene dall’Amleto visto a Trasparenze e prodotto da Teatro dei Venti con attori e allievi della compagnia e con i detenuti della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia. È dal 2006 che Teatro dei Venti propone all’interno del carcere laboratori guidati da Stefano Tè, regista, nonché direttore artistico del festival. Per Amleto professionisti e non condividono il palcoscenico, progettato da F.M. (dei nomi dei detenuti si conoscono soltanto le iniziali) secondo un doppio registro che vede gli interpreti fuori scena attendere seduti sullo sfondo. Sulla sinistra, ben visibile, un pianoforte a coda viene suonato ininterrottamente da Alessandra Fogliani, che trasporta gli eventi in una dimensione radicalmente altra, dove “Muori, dannato danese lussurioso”, nella sua enfasi allitterante, è una battuta credibile, come in un vecchio sceneggiato, così come l’incedere azzimato di Polonio (G.D.Y.), le corporature rigide e minacciose di Rosencrantz e Guildenstern (G.D.R. e M.A.), gli occhi ferocemente malinconici di Amleto (A.D.R.).
Questa dimensione straniante, creata anche dai tradimenti della postura, della dizione o dell’intonazione accademiche, fa sì che i personaggi non occupino, come di consueto, l’intero spazio scenico a loro disposizione, ma che al loro fianco lascino posto per gli uomini, facendo indovinare appena a chi li guarda le loro vicissitudini e sofferenze in un altro tipo di universo parallelo.
Anche Babilonia Teatri sfida il mio sguardo portando a Trasparenze Pinocchio, prodotto nel 2012 dopo un laboratorio presso la Casa dei Risvegli Luca De Nigris. Lo spettacolo racconta la vicenda di Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli, risvegliatisi dal coma dopo un grave incidente stradale e costretti a un difficoltoso riadattamento al mondo e alla società. Il romanzo di Carlo Collodi è qui utilizzato in via simbolica (a ricordarlo, un mastodontico Luca Scotton siede sul fondo con indosso soltanto un paio di pantaloncini e un lungo naso di plastica) e strutturale: i tre, allineati sul palco, vengono intervistati dalla voce fuori scena di Enrico Castellani (autore e regista, con Valeria Raimondi) ricalcando i passaggi-chiave del libro che, metaforicamente, richiamano momenti della loro biografia (la fallita impiccagione di Pinocchio come intervallo tra la vita e la morte o la presenza della Fata Turchina come espressione dell’eros).
Pur imbeccati da un invisibile Mangiafuoco, i tre non sembrano abbandonarsi, quanto piuttosto affidarsi alla scena e alle sue dinamiche. Attraverso il teatro essi narrano la propria vicenda umana in modo diretto, quasi sfacciato, e contemporaneamente se ne distaccano. Il passaggio in cui, sulle note di Vita spericolata, Scotton solleva Facchini in una sorta di ascesi, Ferrarini, con le spalle al pubblico, fa ondeggiare sopra la testa un camion giocattolo e Sielli percuote al suolo un peluche, scomoda senza dubbio la categoria del cringe. Ma questo non può dirsi un difetto. Il patetico, l’esaltato, il cinico, sono qui sfumature di un eccesso che permette al pubblico di scontrarsi con la finzione teatrale e, come per Amleto, di stanare l’umanità che vi si trova al centro.
Non sempre la vertigine scenica e l’estenuata artificiosità portano a un estraniamento di questo genere. A volte accade il contrario. Come comincia il mondo di Teatro dei Venti, frutto del lavoro condotto durante l’anno con gli abitanti di Gombola e dintorni, parte da una domanda che richiama le cosmogonie del passato (non sembra un caso che l’anno scorso la compagnia abbia ragionato attorno a Le opere e i giorni di Esiodo, autore anche di una Teogonia). Ogni attore è chiamato a raccontare un momento della vita in cui ha percepito l’inizio del mondo, ossia di un ordine, di un universo di senso. A questi frammenti di memoria personale vengono accostati episodi di fiabe famose (Alice nel Paese delle meraviglie, Pinocchio, Hansel e Gretel) riguardanti il trascorrere del tempo, la pericolosità del mondo e la necessità di un legame fraterno per affrontarlo. Dopo la messa in scena di queste fiabe, avvenuta all’interno del cerchio di sedie in cui siamo seduti dall’inizio, veniamo condotti a coppie all’esterno dell’edificio in un tendone a metà tra un circo e l’antro di una cartomante. A ognuno di noi viene data una pietra con su scritta una parola (“Fiducia”, “Poesia”, “Amicizia”…) che ci dovrebbe servire da guida una volta usciti.
Il racchiuso contesto iniziale in cui ascoltare, quasi come in confessione, delicati ricordi personali non regge al peso di tutto l’universale e il simbolico che vi sono stati appoggiati sopra. Anzi, esso è oscurato fino a essere lentamente dimenticato, portandosi via le voci della comunità che lo popolava.
Ma negli spazi liminali tra professionismo e amatorialità che ho visitato quest’estate non per forza l’individuo o la comunità sono emersi per via di iper-rappresentazione o straniamento. Nel caso dell’autodramma inscenato dal Teatro Povero di Monticchiello, ciò è avvenuto, al contrario, grazie alla drammaturgia. Il Teatro Povero di Monticchiello è un’associazione di cittadini nata nella seconda metà degli anni ‘60 in reazione alla crisi della mezzadria, sistema che regolava gli equilibri economici e sociali della zona limitrofa al paese. Si trovò nel teatro un legame impossibile da cercare altrove, che contrastasse lo spopolamento che imperversava nella campagna circostante. Dal 1967, ogni anno, l’associazione riordina le storie che la attraversano, discute i problemi a lei contingenti, scrive, organizza e mette in scena un autodramma, secondo la formula coniata da Giorgio Strehler, da presentare in circa due settimane di repliche quotidiane quasi sempre, almeno in questa edizione, da tutto esaurito. Ancora, l’amatoriale – o, meglio, il volontario – fa proprie le modalità ricettive del professionista.
I tre atti in cui, come da tradizione, è diviso l’autodramma di quest’anno, Il velo della sposa, raccontano del passaggio avvenuto nella società locale dalla mezzadria al capitalismo: la civiltà contadina, spazzata via dall’industrializzazione, resuscita oggi sotto forma di immagine per turisti facoltosi pronti a viverne l’esperienza; i suoi eredi, quelli che non si sono rifugiati nelle città, sono ridotti a figuranti e a guide nel parco giochi del proprio passato.
Se si avverte una certa patina nostalgica per gli antichi valori e una concezione catastrofista del presente, è vero anche che i problemi sollevati non trovano un lieto fine o una morale rassicurante ad accoglierli, bensì restano in discussione di fronte al pubblico e all’interno degli abitanti del paese. Si percepisce, quindi, dietro presenze sceniche in certi casi fulminanti, in altri macchiettistiche, una costante interrogazione di sé, una rielaborazione di dubbi e conflitti sulla scorta dei propri predecessori, gli stessi che, nei primissimi autodrammi misero in scena episodi della Resistenza che, quindici anni prima, li avevano visti protagonisti.
La comunità che ho trovato alla Luna nel pozzo, stanziata nella provincia brindisina, non è basata su un’eredità culturale o sull’appartenenza territoriale, come per gli abitanti di Monticchiello e Gombola, né su una condizione biografica ed esistenziale condivisa, come per gli attori/non attori di Amleto o di Pinocchio, ma su una condivisione del dono e del compito, del munus (secondo la definizione di Roberto Esposito in Communitas. Origine e destino delle comunità).
Il direttore artistico Alessandro Lucci, infatti, ha inteso ricostituire per la Luna nel pozzo il principale meccanismo che regolava le antiche sagre, dove a una grande abbondanza, che eccedeva le capacità dell’autoconsumo, corrispondeva una festa in cui il surplus veniva redistribuito. Accade, allora, che gli artisti (e i critici) venuti a lavorare alla Luna nel pozzo non restino, come succede nei festival canonici, ai margini dei meccanismi organizzativi e produttivi, ma vi siano accolti e invitati a restare più giorni rispetto alla data della loro performance per partecipare ai pasti comuni e alle riunioni quotidiane, aiutare il personale e i volontari in cucina, presentare al pubblico serale spettacoli ancora in lavorazione – e accogliere alle prove il resto della comunità durante il giorno. Per donare, ricevere e assumersi un compito.
La via di mezzo tra professionismo e amatorialità non riguarda, qui, gli artisti che partecipano al festival, quanto il festival stesso, in particolare durante la sera del 2 agosto in cui la sagra prende forma a tutti gli effetti. Il pubblico può passeggiare all’interno della sterminata masseria e assistere alle manovre dei burattini in miniatura di Lisa Bencivenni e Adriana Hiertz; seguire la lenta evoluzione dell’essere umano secondo il gruppo Permakulture; ascoltare un radiodramma sulla storia di Helen Keller, attivista e intellettuale statunitense, curato da Robert McNeer – fondatore della manifestazione, assieme a Pia Wachter;. In questo ecosistema, un episodio in particolare mi colpisce. Mentre Hui Tsyr, assieme a Simon Samuelsson, sta eseguendo una misteriosa e delicatissima performance, intitolata In the great wave of change, in uno degli spazi più reconditi della tenuta, con noi immersi nel buio della sera a osservare il rapporto tra lei, sorta di demone boschivo, e Samuelsson, un borghese in redingote, un suono squarcia l’aria. I sussurri di Hui Tsyr vengono investiti dalle parole de Il mio canto libero, eseguito dal coro dell’APS "I Portatori di Gioia" che si sta esibendo nello spazio principale. L’artista taiwanese continua a modulare la sua voce con calma, mentre io non riesco a non perdere la concentrazione, per poi riacquistarla e di nuovo smarrirla. Questo, penso, è un errore macroscopico, inaccettabile per un festival. Soltanto il giorno dopo, ripensando alla calma di Hui Tsyr, capisco che un festival e una sagra richiedono due differenti responsabilità spettatoriali. Essere in un festival è come osservare il mare da un promontorio, godere del suo movimento regolare, olimpico, oppure del suo strazio angoscioso, con l’ingenua sensazione di dominarlo. Essere in una sagra, invece, è guardarlo da sotto il pelo dell’acqua: si smarrisce la sensazione di controllo per fluire in un movimento più ampio, senza più alcuna nostalgia segreta verso la lontana indeterminatezza delle acque.
In un festival lo sguardo può pretendere di essere distante, cartesiano, in una sagra deve irrimediabilmente compromettersi. Questo perché il primo mira al perfetto, la seconda all’armonico.
Se a Gombola la fuoriuscita dal canone ha evidenziato l’uomo accanto all’attore e a Monticchiello la storia degli antenati alla base degli abitanti del paese, qui a Ostuni essa ha sprigionato la festa che la sagra porta con sé. Questo ha generato bellezza.
Un uomo, una storia, una festa: immagino che qui sia il teatro.
Trasparenze Festival (dal 25 al 28 luglio 2024)
La Luna nel Pozzo (dal 29 luglio al 4 agosto 2024)
Teatro Povero di Monticchiello (11 agosto 2024)
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