Al graduale accendersi delle luci sul palcoscenico di Sala Campana un letto matrimoniale in ferro battuto avanza dal fondo fin quasi alla ribalta, le sue lenzuola sono rancide, nessuno lo occupa né lo occuperà per il resto dello spettacolo.
Enrico Campanati compare poco dopo, seduto su una sedia con il letto alle spalle. Per una manciata di secondi fissa composto il pubblico per poi, lentamente, iniziare a scaldarsi la voce, ripetendo la sillaba “io” fino a svuotarla del suo significato.
L’identità dell’attore si frantuma in un esercizio di logopedia e fin dall’inizio risulta indistricabilmente impastata con la pratica del teatro, fumosa, imprendibile, dalla ricerca affannosa e vana.
La memoria si rivela un terreno duro in cui scavare, i ricordi di vita vengono confusi con quelli della scena: il padre è morto nel letto di un ospedale o stato assassinato da un usurpatore? I fiori certificati da uno scontrino sono quelli raccolti da Ofelia poco prima di annegare? Chi è l’attore sul palcoscenico e qual è il suo vero nome? Si trova nella propria stanza, in un camerino o davanti a una platea?
Campanati scava restando seduto, invade il meno possibile lo spazio intorno a sé, cerca un appiglio nelle parole shakespeariane che fissa su un registratore a musicassetta e poi riascolta, tentando di bloccare e dominare l’evento che attraversa lui e il suo pubblico: il processo non è nuovo, ma l’ascolto di questa riproduzione genera ugualmente una forte tensione all’interno della sala, come di fronte a qualcosa di innaturale, proibito, e allo stesso tempo quotidiano.
Se la regia di Emanuele Conte serve uno spettacolo puramente introspettivo con sobrietà non arida, materializzando in scena un solo oggetto, il letto abbandonato, correlativo oggettivo del vissuto dell’attore, il suo testo affronta tematiche oggi molto risonanti (la memoria e l’identità su tutte) spesso con ingenuità o noncuranza, lasciando gli spunti suggeriti quasi al livello basico di un appunto.
Ma più delle tematiche accennate, soprattutto per i riferimenti alla sua biografia, è la figura di Enrico Campanati a essere centrale in Amletto, uno spettacolo che per essere sentito nella sua natura scenica pretende di essere vissuto e compreso nella realtà di Genova e, in particolare, in quella del Teatro della Tosse, dove Enrico Campanati ha un’identità, un significato e un pubblico ben precisi. Amletto sembra essere uno spettacolo retto dall’ambiente che lo circonda e lo accoglie, correndo il rischio dell’autoreferenzialità.
Elementi di pregio: Enrico Campanati che tiene il pubblico da fermo; la scenografia pulita eppure carica di significato; il pubblico del Teatro della Tosse.
Limiti: il testo in più occasioni non all'altezza dei temi affrontati; il pubblico del Teatro della Tosse.
di Emanuele Conte
con Enrico Campanati
produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse
Durata 60'
Visto al Teatro della Tosse - Sala Campana il 16 novembre
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