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Appartenersi | Cuginanza. Primo dialogo tra luoghi indipendenti. 

  • Immagine del redattore: Matteo Valentini
    Matteo Valentini
  • 26 mag
  • Tempo di lettura: 3 min

T’appartengo ed io ci tengo e, se prometto, poi mantengo

(T’appartengo, Ambra Angiolini) 


In un’indecisa domenica di inizio maggio ci troviamo da Z.I.A. (Zona Indipendente Artistica), realtà teatrale sorta a Milano sud da un paio di anni, a dialogare su cosa significhi essere uno spazio indipendente e sulla radice del concetto di indipendenza. Francesca Rigato e Alice Strazzi di Stratagemmi curano l’incontro, insieme ad alcune componenti di Z.I.A (Andrea Centonza, Virginia Landi, Eleonora Paris, Irene Serini), mentre a intervenire sono invitate realtà “cugine” che costellano il panorama teatrale off italiano: il Kaliscopio Theatre Off di Treviso, il Laboratorio Malaerba di Torino, InForme Festival, disseminato nella regione Toscana, e il centro culturale Lottounico di Roma.

 


Grafica di Andrea Centonza
Grafica di Andrea Centonza

Le presentazioni iniziali vedono emergere alcune consonanze tra gli spazi, una su tutte la centralità del Covid-19, sia per il suo impatto psicologico, sia per le opportunità che, malgrado tutto, ha aperto: Giulia Pogliani di Malaerba lega alle indennità ministeriali per le compagnie teatrali l’inizio della trasformazione di un’ex officina meccanica in uno spazio culturale aperto alle necessità di un quartiere difficile come Barriera di Milano; Gaia Insenga e Valentina Morini ammettono che, senza la diminuzione dei prezzi dovuta alla pandemia, non avrebbero potuto acquistare quel magazzino di tappezzerie tra San Giovanni e Pigneto che ora è Lottounico; Irene Curto, invece, deve alla pandemia la convinzione di voler aprire, grazie all’eredità di sua nonna, una sala prove in cui continuare la propria ricerca e condividerne i frutti: dove prima si trovava una chiesa evangelica, ora sorge Kaliscopio Theatre Off.  

 

Con l’eccezione di IF Prana, fondatore di InForme Festival che dal principio si identifica come centro di produzione, tutti gli spazi partecipanti all’incontro nascono proprio con la necessità di disporre di una sala prove per poi, solo in un secondo momento, aprirsi al circostante, un quartiere periferico (Z.I.A. o Malerba) oppure centrale (Kaliscopio o Lottounico) in cui, lentamente, cominciano a reagire allo smarrimento post-pandemico, al bisogno di un “luogo di incontro”, “identitario”, “al servizio della comunità”, “dove sperimentare nuove forme di arte e socialità” “lontano da un’etica capitalista”, per riprendere alcune risposte alla domanda “Che cos’è uno spazio indipendente?” che campeggia su un foglio appeso al muro della sala. Da qui prende le mosse la seconda parte della discussione.      

 


Francesca Rigato e Virginia Landi
Francesca Rigato e Virginia Landi

Per Eleonora Paris “indipendenza” è una parola che si innesta su fondamenta contraddittorie, perché sottintende un’assenza di legami economici dal “sistema” e dalle sue imposizioni ma, contemporaneamente, una larga inclusione del pubblico, al di là della sua condizione sociale. Lei ne propone allora una sfumatura derivata dal teatro di ricerca, a cui fa eco Marco Gottardello di Malaerba: libertà di sperimentare qualcosa che sfugga alle logiche di profitto e di produzione tipiche, per esempio, dei Teatri Nazionali. Una libertà, dice Irene Curto, di scommettere su uno spettacolo non adatto, almeno pregiudizialmente, al grande pubblico (e fa l’esempio del suo Libellula, in cui lei stessa interpreta un libero montaggio dal poema omonimo di Amalia Rosselli), benché, soggiunge, questa libertà abbia delle condizioni precise da rispettare, quelle del sostentamento che, se non deriva da finanziamenti ministeriali o da banche che lucrano sul traffico di armi, da qualche parte dovrà pur derivare. Ma forse un’indipendenza condizionata non è più indipendenza.

 



«L’indipendenza è un mito da privilegiati», afferma Andrea Centonza rifacendoci agli studi sulle disabilità, secondo i quali (vengono citati Eddie Ndopu e Alison Kafer) un individuo “abile” si percepisce indipendente solo perché il mondo intorno a lui è disegnato conformemente al suo corpo (i gradini delle scale, i sedili della macchina, i banchi di scuola…). Caterina Simonelli di IF Prana è d’accordo e sostiene, molto onestamente, che dare forma e sostegno a una propria visione significa recuperare denaro e che, per farlo, non è possibile prescindere dal sistema politico ed economico in cui ci si trova, a meno di non occupare spazi e porsi automaticamente in una sfera, pure legittima, di illegalità. Su una linea simile si pongono le fondatrici di Lottounico, che vedono risiedere, nella partecipazione a bandi o nel finanziamento di enti pubblici e privati, il potere di dire di no alle collaborazioni sgradite.   

 

Ironico che in una Zona Indipendente Artistica proprio l’indipendenza diventi un concetto da reinquadrare. E se appunto ci si sforza di cambiare cornice, se si sposta l’attenzione dall’indipendenza alla libertà, se si considera che siamo tutti interdipendenti, che liberarsi dall’altro da sé non solo è impossibile, ma è disumano, allora possiamo dire che la libertà consiste innanzitutto nello scegliere da chi o da cosa dipendere, o meglio, a chi o a cosa appartenere. 


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oca, oche, critica teatrale
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