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Redazione

Enrico Pittaluga per Generazione Disagio | Risposte dalla quarantena

Abbiamo intervistato l'attore e autore genovese Enrico Pittaluga, tra i fondatori del collettivo "Generazione Disagio".

Ha risposto alle nostre domande tra l'8 e il 15 maggio.



1) Da un punto di vista umano, cosa ha significato per te la chiusura dei teatri? Come stai vivendo questo periodo di serrata a livello personale?

Domanda difficile, e bella.

Innanzitutto ha significato la fine del lavoro. Io mi trovavo al Teatro della Tosse insieme a Graziano Sirressi e Luca Mammoli, in prova per Art di Yasmina Reza, che avrebbe dovuto debuttare a fine Marzo; ero anche in giro con Assocerò sempre la tua faccia alle cose che esplodono di Emanuele Aldrovandi, anche quello finito. La fine del lavoro, quindi, e anche il “non inizio” di altri lavori, ad esempio un corso di insegnamento di scrittura e narrazione presso il Politecnico di Milano, che avrei dovuto tenere in questo periodo.

Questa chiusura ha determinato lo scompigliamento di tutti i programmi, l’arrivo dell’inaspettato, la perdita di una “famiglia teatrale” di riferimento; oltretutto all’inizio non si capiva bene quanto seria fosse la situazione, quindi non era facile nemmeno capire cosa fare: restare a Genova, tornare a Milano (dove convivo)?

Alla fine sono tornato a casa, quindi ho passato la “quarantena” a Milano. A livello personale, ho vissuto questa serrata con oscillazione: momenti di terrore alternati invece a momenti di pienezza. Sbalzi d’umore, improvvise tristezze ed euforie dettate dal niente… però con un po’ di ironia devo dire che forse noi attori eravamo quasi più preparati di altri, perché i momenti di vuoto ci sono sempre stati nel nostro lavoro: almeno, per una volta, potevamo non sentirci in colpa per non essere produttivi. Questo senso di leggero sollievo, è chiaro, si può vivere solo se si è abbastanza fortunati da non avere problemi economici pressanti, vivere in una casa abbastanza confortevole, o anche avere una connessione internet, non doversi occupare di parenti in grave difficoltà… sono tutti privilegi, di cui questo periodo mi ha reso ancora più consapevole.

È innegabile però che per chi vive di socialità è stato un momento terribile, in cui ci si è trovati a fare cose totalmente impreviste (brindare dai balconi con i vicini, organizzare cineforum in video-call, ricercare nuovi tipi di convivialità per sopperire alla sofferenza di non poter vedere amici, non potersi muovere, non poter bere un caffè fatto da un altro), e personalmente darmi l’obiettivo di non farmi attraversare indenne da questo momento mi ha aiutato molto.

E poi la tentazione di fare qualche collaborazione in video, qualche diretta, spenta poi dalla consapevolezza che il teatro così non si può fare. È stato strano, anche perché è difficile essere creativi senza una scadenza, malgrado tutto il tempo in più per scrivere; però, alla fine, qualcosa si è mosso, qualche piccola proposta lavorativa per il futuro è arrivata, e ho potuto dedicarmi a idee per progetti che non avrei forse mai avuto il tempo di approfondire, ad esempio quello di preparare spettacoli di stand-up comedy insieme a un mio amico/collega molto bravo.

E adesso, ancora oscillazione: dopo aver ricostruito una nuova routine, la fase due porta entusiasmo, ma anche terrore, interrogativi, ansia di non aver approfittato abbastanza di questo periodo di pausa forzata.

2) Sapresti quantificare - in termini economici o con altri parametri oggettivi - la perdita subita (da te personalmente e/o dal gruppo in cui lavori) da quando è iniziata questa chiusura?

La perdita è stata piuttosto ingente: la cancellazione di Art e di molte repliche dello spettacolo che stavamo già portando in giro, la sospensione di un progetto video in collaborazione con l’Università di Genova e del modulo di insegnamento presso il Politecnico di Milano, l’annullamento di diverse serate di Poetry Slam che conducevo a cadenza regolare in alcuni locali. Al momento potrei stimare la perdita economica intorno ai €5000. Soprattutto, però, è mancata la possibilità di partecipare a casting, cercare lavori futuri e così via, quindi la perdita non sarà limitata al periodo appena passato ma necessariamente si prolungherà anche nei mesi futuri, anche nel caso (auspicabile!) in cui si possa ricominciare presto a fare spettacoli.

Inoltre, spesso questo è il periodo in cui si riesce a lavorare di più e si mette “fieno in cascina” per poter poi fare fronte ai momenti di vuoto che per gli attori ci sono quasi sempre durante il resto dell’anno.



3) Qual è concretamente la situazione attuale? Cosa si sta muovendo, quali sono le prospettive?

In questo momento fisicamente è tutto fermo: i lavoratori dello spettacolo non possono lavorare, fare prove, i teatri non possono aprire. Ci sono i famosi bonus che alcuni sono riusciti a ottenere, ma dipende molto da come si è lavorato: contributi, partite Iva, ritenute d’acconto… molti colleghi si sono resi conto con sconcerto di non poter accedere agli ammortizzatori sociali perché non avevano abbastanza contributi. Questa è una cosa tremenda del nostro settore: uno può lavorare tutto l’anno tra insegnamento, presentazioni, prove, e i contributi non vengono versati per moltissimi di questi lavori; praticamente vengono versati solo in caso di recite su palco - in teatro - o su set cinematografici. Negli altri casi, spesso non si viene “collocati”, si viene pagati come se fosse una prestazione occasionale ad esempio come “collaboratori esterni” e quello dell’attore - o danzatore, artista, ecc. - non fosse il nostro lavoro.

Le prospettive quali sono? Quelle di inventarsi un nuovo modo, un nuovo linguaggio per fare teatro, abituarsi a un nuovo mondo. Per diverso tempo penso potremo stare certi che gli spettacoli al chiuso saranno pochissimi (per mantenere le distanze tra spettatori in modo che lo spettacolo resti economicamente sostenibile c’è bisogno di situazioni particolari, teatri con sovvenzioni particolari, sale molto grandi eccetera). Le prospettive più immediate sono quelle di lavoro audio-video, il che temo porti a una scrematura estremamente classista: chi riesce a continuare a lavorare - e farsi pagare - è necessariamente chi ha le possibilità di eseguire riprese di buona qualità (e quindi può permettersi di avere degli strumenti professionali o comunque un telefono di ultima generazione) e in alcuni casi è anche necessario avere una casa adatta ad essere trasformata in un set. Questo ovviamente contiene anche delle possibilità, per chi si sa inventare un nuovo linguaggio, adatto magari al mondo del video e dell’audio, e dall’altra parte impone di porsi domande importanti: in un mondo in cui ci sono moltissime possibilità di intrattenimento fruibili comodamente dal proprio divano, cosa possiamo proporre noi di nuovo, di meglio? Queste sono domande che secondo me anche i teatri dovrebbero porsi, magari approfittando della chiusura. La comunità di chi andava a teatro prima del lockdown era una comunità che “si vedeva per andare a teatro”, la ricerca nella produzione culturale era anche improntata a soddisfare quest’esigenza di intrattenimento da “happy hour”, e ora che non è più possibile bisogna ritrovare/riformare quella comunità. Ristabilire anche la necessità: perché si va a teatro? In cosa vorrei che mi interrogasse questo spettacolo, cosa vorrei che mi dicesse?

Personalmente, questo periodo è stato anche fertile a livello di scrittura e di programmazione futura di cose che non avevamo mai avuto il tempo di scrivere o di approfondire; quindi in questo senso alcune prospettive ci sono, abbiamo molte idee per spettacoli nuovi, magari all’aperto, nei cortili, insomma in modalità compatibili con il distanziamento. Si stanno proponendo molte istanze (da parte di grandi nomi del teatro ma anche di realtà più piccole come la nostra) per far sì che sia possibile ricominciare a fare teatro in queste modalità, cercare un modo di intercettare nuovamente e risvegliare una comunità che possa riconoscersi nel teatro e nelle domande comuni, nelle paure comuni, nelle voglie comuni che il teatro sa veicolare.

4) Come pensi che le istituzioni (Governo, Regione, Comune) dovrebbero agire in questa fase?


Cosa potrebbero fare le istituzioni, il Comune, lo Stato, i governi, gli assessorati…

In questo momento dovrebbero rendere possibile lo spettacolo in sicurezza, all’aperto, in nuovi spazi, in nuovi modi, rendere possibile l’assunzione di figure professionali come gli artisti, anzi, pretendere che vengano collocati. Non deve più accadere che una persona lavora tutto l’anno e si ritrova con sette giornate di contributi versati. E questo perché:


1. Deve fare attenzione, lei o lui, a farsi versare tutti i contributi e chiederli sempre. 2. Perché si deve iscrivere al sindacato e fare sì che i suoi diritti e il suo contratto nazionale, che esiste ma viene bypassato un sacco di volte, vengano rispettati. È necessario fare categoria su questa cosa. 3. Bisogna pretendere l’obbligatoria collocazione dei professionisti che lavorano a un prodotto creativo.

Non è possibile, per esempio, che esce uno spot di un grosso marchio e poi si viene a scoprire che le persone che ci hanno lavorato (attori, autori degli script, creativi) non hanno avuto i contributi, non sono state collocate come figure professionali quali sono. Questa cosa è impensabile. Stesso discorso, soprattutto, per gli enti finanziati dallo Stato, come le fondazioni lirico-sinfoniche e i grossi teatri: tutti devono versare sempre i contributi e devono assumere come dipendenti i loro lavoratori. Il nostro non è un lavoro saltuario: facciamo quello tutto l’anno. Sarebbe giusta una ritenuta d’acconto se mi chiamassero a lavorare come pasticciere per una settimana, perché non è il mio lavoro abituale; ma se io faccio un evento in pasticceria in cui leggo delle poesie sui dolci, quello è il mio lavoro da attore professionista e devo percepirvi i contributi. Il Governo dovrebbe permetterci, come sta permettendo a tante altre categorie lavorative, di andare a domicilio, nel rispetto delle distanze di sicurezza, di andare negli spazi aperti, nei luoghi comuni, cortili e piazze. Dovrebbe permettere una musica, un’arte, una letteratura, un teatro ovunque sia possibile, e anzi incentivare i teatri e tutte le strutture che sono già finanziate dallo Stato a costruire nuovi linguaggi, adatti a questa estate, questo autunno, questo inverno, per tornare a creare una comunità e a interrogarsi sul senso del teatro: il teatro non è per forza quello fatto al chiuso, con il pubblico seduto sulle poltrone e l’attore sul palco. Certo, c’è una tradizione enorme legata a quello, ma non è detto che sia solo quello. Un artista deve essere veloce a inventarsi un modo di esprimersi, se ne ha necessità, altrimenti, per un po’, sta zitto, non è necessario parlare sempre, soprattutto se non si ha nulla da dire. Stare zitti è ovviamente problematico, perché che c’è una componente lavorativa e reddituale da tenere in considerazione, e questo porta a interrogarsi anche sugli ammortizzatori sociali: una volta che un artista ha lavorato e ha le giornate - ma bisognerebbe saperle conteggiare davvero queste giornate -, che abbia gli ammortizzatori come qualsiasi altro lavoratore come è giusto che sia.

È necessario che vengano incentivati progetti di comunità, di socialità, di scambio, di interrogazione collettiva. Durante questa pandemia sono emersi temi latenti di un certo spessore, che in molti casi sono i temi dell’umanità. Non possiamo lasciarceli scappare per tornare subito alla normalità. Forse è il caso di interrogarsi su quello che ci è accaduto intorno, sulla solitudine, sulla voglia di stare insieme, sul contatto fisico, sulla morte, sulla paura, sulle differenze, sugli abbracci, sul contatto uomo-natura, sulla politica, sugli ammortizzatori sociali, sulla giustizia, sulla dignità, sull’inclusione. Ce ne sono moltissimi: il nemico, il vicino, il coinquilino, il convivente, l’amore… Semplicemente andrebbero esplorati, accolti e tutelati.

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oca, oche, critica teatrale
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