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Claudia Burzoni

Festival di Teatro Antico di Veleia 2023

Edipo – da Sofocle | Marco Baliani e la «tragedia di un popolo»


Un uomo vittima di un destino avverso, ma colpevole di omicidio; un figlio voluto morto dalla madre alla quale, poi, si unirà carnalmente; un grande re, astuto e benevolo, costretto all’esilio. Edipo è questo, prima di diventare un’ombra senza meta dopo aver finalmente conosciuto se stesso - come gli intimava l’oracolo. Quella di Sofocle non è “soltanto” una tragedia dalla trama geniale e incalzante, ma è la tragedia, la sciagura del non ri-conoscersi, il dramma del “chi sono io?”, la vera pestilenza che colpisce l’uomo da più di duemila anni.


Sebbene Sofocle avesse assunto Edipo come protagonista del suo Edipo re, non bisogna dimenticare la dimensione collettiva che permea lo spettacolo tragico dell’Atene del V secolo a.C. e che si riflette in due fattori principali: il coro e il senso civico. Il coro dava forma a quella che noi, oggi, definiamo la “voce della coscienza”, con i suoi ammonimenti rivolti direttamente agli attori, i suoi consigli e i propri giudizi. Secondo l’editto di Pericle, per i cittadini ateniesi era obbligatorio assistere agli spettacoli tragici e, qui, veniamo al senso civico: la trama di ogni spettacolo era ben nota alla polis, dunque non ci si recava a teatro solo per gustarsi l’esibizione, bensì per trarne insegnamento. Il cittadino non doveva incorrere negli stessi errori di Edipo, pena: la rovina dell’intera città, esattamente come l’epidemia che sconvolse Tebe.


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Edipo - Da Sofocle (ph. Gianfranco Negri)

Questo appunto sull’importanza della collettività è fondamentale per comprendere il lavoro di un grande autore/attore della scena contemporanea, Marco Baliani che, con i giovanissimi interpreti del progetto Bottega XNL – Fare Teatro di Piacenza, presenta in prima nazionale l’Edipo, in apertura del Festival di Teatro Antico di Veleia.

(A questo LINK potete trovare la nostra intervista a Marco Baliani realizzata a XNL durante le prove dello spettacolo)


È lo stesso Baliani a definire la tragedia come una «tragedia di un popolo»; infatti, nel suo adattamento registico e drammaturgico del dramma sofocleo, «per aspettare Edipo, occorre prima sapere chi sono coloro che lo attendono alla prova». E il coro di Baliani è un coro rimodernato, composto da coloro che si interrogano più di chiunque altro: i giovani. Intorno a loro si snodano i punti focali del lavoro magistrale del regista: il primo, l’aver mantenuto l’originaria dimensione sociale del dramma, assegnando a ogni singolo corèuta lo stesso peso dei protagonisti; il secondo, l’aver confermato come un’opera di duemila e più anni possa essere ancora così spaventosamente attuale o - meglio - viva.


Aristotele definì l’Edipo re «la tragedia perfetta» perché in grado di suscitare il «sentimento del tragico», a sua volta provocato dalla paura e della pietà: il timore nasce dalla consapevolezza di essere tutti possibili vittime del fato, come il re di Tebe, mentre la pietà si accosta alla compassione verso un uomo, Edipo, che non ha commesso alcun male, se non quello di essere uno sventurato; per questo non si riesce a provare odio o disprezzo nei suoi confronti. Quando parlo di opera viva è esattamente questo che intendo: il caso di Edipo è portato sì all’estremo, ma quante volte, nel corso della nostra esistenza, ci siamo sentiti vittime di un destino avverso? E quante volte ci siamo sentiti persi, estranei a noi stessi? Questa è l’attualità: il porre continuamente in discussione il nostro io.


Collettività, attualità, paura, compassione, Baliani le ha tenute saldamente unite sotto lo scudo di una location d’eccellenza – il sito archeologico di Veleia - la cui potenza visiva è stata implementata dal taglio cinematografico, omaggio a un altro grande artista del Novecento: Pier Paolo Pasolini. È così semplice entrare nel clima tragico anche grazie alle musiche appositamente composte da Mirto Baliani, di cui si percepisce la forte spinta drammatica, la carica evocativa e la capacità immersiva e immaginifica, una musica che partecipa, racconta e sostiene.

I costumi di Emanuela Dall’Aglio (premio Ubu 2021) non vengono meno a questa resa filmica: calibrati, eleganti, tutti diversi ma, allo stesso tempo, tutti simili sempre per richiamare quell’idea primordiale di comunità (una menzione particolare merita l’abito dell’indovino Tiresia che è divenuto, a mio avviso, uno dei personaggi più visivamente impattanti).


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Edipo - Da Sofocle (ph. Gianfranco Negri)

Saranno state le musiche, la direzione corale del regista, il vedere insieme lucciole e stelle come parte integrante della scena, la “fame di teatro” - come ha detto lo stesso Baliani - di questi attori così giovani ed energici; sta di fatto che mi sono commossa: grazie al lavoro di mani esperte, dotate di dedizione e devozione, l’immenso patrimonio classico, che per lungo tempo è stato relegato a un pubblico di nicchia, può davvero tornare a parlare al cuore delle poleis e di coloro che le abitano. Questo è il teatro: donare e ri-donare vita.


Le nozze di Antigone | Ascanio Celestini e il coraggio delle donne


Roma, 23 marzo 1944: una bomba esplode in via Rasella e uccide 33 soldati tedeschi. Il giorno dopo, il 24 marzo, 335 uomini, divisi tra oppositori politici, prigionieri comuni ed ebrei, vengono rastrellati e fucilati. Era la “legge”: per ogni soldato tedesco ucciso, dieci prigionieri meritano la stessa fine. L’esecuzione durò 12 ore.

I corpi dei caduti vennero recuperati solo alla fine della guerra. Tebe, anno imprecisato dell’Avanti Cristo. Due fratelli, Eteocle e Polinice, si contendono il trono dello sventurato padre ormai esiliato, Edipo. Polinice, insieme a sei guerrieri di Argo, giunge alle porte della città, rivendicando ciò che, secondo un precedente patto, gli spetta. I due fratelli si scontrano in un corpo a corpo dove si danno vicendevolmente la morte. A battaglia terminata, Eteocle viene sepolto con i dovuti onori, Polinice invece, essendo stato un ribelle, per decreto di Creonte, il nuovo re di Tebe, deve essere lasciato «insepolto, divorato dai cani e dagli uccelli».

Due eventi cronologicamente distanti, uno orribilmente reale e l’altro mitico; due stragi di natura totalmente differente, ma che Ascanio Celestini unisce nel suo Le nozze di Antigone – primo testo di una possibile trilogia – portato in scena, come lettura, al Festival di Teatro Antico di Veleia. Le tematiche che questi due eventi, apparentemente inconciliabili, hanno in comune sono, in realtà, molteplici: in primis lo sfondo, cioè gli orrori di una guerra fratricida – l’occupazione tedesca di Roma, lo sbarco degli alleati in Sicilia e le varie organizzazioni partigiane avevano condotto l’Italia in una vera e propria guerra civile, «fratello contro fratello»; la memoria, l’atto laico del ricordo tradotto, nell’Antigone di Celestini, nello sforzo della figlia di riportare alla luce la vita del padre ormai anziano e prossimo alla morte; ma quello di Celestini è, prima di tutto, un omaggio, il punto di partenza di questo lavoro, nonché tema cardine e chiave di lettura dell’opera: un elogio al coraggio delle donne.


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Le nozze di Antigone (ph. Gianfranco Negri)

Così come Antigone andò a chiedere il corpo del fratello Polinice, sfidando Creonte in persona e mettendo a repentaglio la propria vita, lo stesso fecero le sorelle, le mogli, le madri e le figlie di coloro che non tornarono più da quella cava. «Bisogna ritirarli fuori, i morti, per poterli seppellire definitivamente, una volta per tutte» scrive Ascanio Celestini toccando con una sensibilità ossimoricamente brutale, la complessa e straziante questione dell’elaborazione del lutto: ne Le nozze di Antigone ci si rende conto solo in un secondo momento che Edipo è già morto mentre la figlia è al suo capezzale. Tutti quei «ti ricordi, pa’?» che gli dice servono a lei, lui non può più risponderle. È un dialogo-racconto con la persona cara scomparsa, un modo per tenerla con sé ancora qualche istante. Le donne di Roma non hanno avuto questa possibilità. Hanno atteso, e chissà in compagnia di quali pensieri. Poi, la decisione: andare a “tirare fuori” i morti, fratelli, mariti, padri, figli di chi li poteva solo piangere. L’eccidio delle Fosse Ardeatine, in questo caso, è solo un pretesto, un episodio fra le tante atrocità inspiegabili di quella guerra come di altre. Perché occorre concretezza per poter affrontare l’intangibile, la mancanza, il ricordo, il dubbio, la speranza. Serve andare a toccare con mano i cadaveri per farsene una ragione e non rischiare la pazzia, che, a volte, sopraggiunge comunque. Per riuscire ad andare avanti, occorre una lapide davanti a cui fermarsi.

La scelta drammaturgica di Celestini è di incatenare le vicende mitiche di Edipo a un plausibile scenario della Seconda Guerra Mondiale: Edipo diviene, quindi, un cittadino in fuga che, per difendersi, uccide due soldati fascisti e il loro generale; generale che – si scoprirà - fu marito della donna che Edipo ha poi sposato e padre dei quattro figli di lei, quattro orfani che, però, accettano la nuova figura paterna con affetto e devozione, almeno per quanto riguarda una delle figlie, Antigone appunto. Faccio questa precisazione perché, trattandosi di una trilogia in cui ogni testo assume il punto di vista di un figlio di Edipo (nonostante i figli fossero quattro, quindi è altamente probabile che uno di questi venga escluso dal lavoro), ancora non ci sono stati rivelati i sentimenti di Eteocle, Polinice e Ismene. Venne odiato o amato? Accolto o rifiutato? Stimato o disprezzato? Presto Sapremo.


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Le nozze di Antigone (ph. Gianfranco Negri)

Le nozze di Antigone, dunque, è un groviglio di trame, miti, leggende e Storia. Attraversa i Sette contro Tebe di Eschilo e giunge al conflitto più devastante del XX secolo; cuce strettamente gli avvenimenti sanguinosi dell’Edipo re e la quiete della vecchiaia dell’Edipo a Colono. L’ago e il filo sono tenuti in mano da Antigone, la figura femminile assunta come punto di partenza per una totale rivalutazione del ruolo della donna nella letteratura, di cui Sofocle è stato promotore, ma che troverà in Euripide la vera realizzazione, con il controverso capolavoro di Medea.

La lettura si conclude con un sogno: la figlia rivela al padre, ormai spirato, di aver sognato il giorno del proprio matrimonio. I fiori, le panche colme di gente, la navata percorsa e il padre che la accompagna all’altare, verso il futuro marito. Lo sposo è di spalle, ma quando si volta, Antigone lo riconosce: è il padre stesso, è Edipo. Ciò che fino a quel momento era stato volutamente celato, ovvero la questione incestuosa, materia prima della psicanalisi freudiana, ora viene letteralmente disvelata con un’immagine potentissima: «Pa’, nel giorno del mio matrimonio, io ti sposo».

ANTIGONE: Io non potevo, per paura di un uomo arrogante, attirarmi il castigo degli dèi. […] Ma se devo morire prima del tempo, io lo dichiaro un guadagno: chi, come me, viene immerso in tanti dolori, non ricava forse un guadagno a morire? Affrontare questa fine è quindi per me un dolore da nulla; dolore avrei sofferto invece, se avessi lasciato insepolto il corpo di un figlio di mia madre; ma di questa mia sorte dolore non ho. E se ti sembra che mi comporti come una pazza, forse è pazzo chi di pazzia mi accusa. […] Io sono fatta per condividere l’amore, non l’odio.

(Antigone, Sofocle, 442 a.C.)


Anchise | César Brie: il profugo, l’esule, il padre e il nonno


Il viaggio all’interno dell’affascinante sito di Veleia si conclude con un altro viaggio. È la fuga da Troia in fiamme, dopo che il grembo del cavallo ligneo è stato squarciato dal grido di battaglia degli achei. Un vecchio saggio aveva tentato di dissuadere i suoi concittadini dall’accettare il nefasto dono del nemico, ma nessuno gli aveva dato ascolto, forse a causa di quell’ubriachezza dei sensi che pervade i popoli al termine di un conflitto. La strage doveva ancora compiersi.

Quell’anziano avveduto ora guarda gli uomini che aveva conosciuto essere trafitti da spade, sente le grida delle donne stuprate, piange al pensiero dei figli. Ma ecco il suo, di figlio, che lo esorta a scappare. Il vecchio, però, vuole morire lì, nella sua casa e nella sua città, abbracciato alle ceneri dei suoi avi. Le disperate suppliche non servono a molto, così il figlio robusto carica lo stanco padre sulle proprie spalle e salpano, verso nuove e pacifiche terre. Anchise ed Enea, padre e figlio, esuli scampati alla guerra, divengono metafora del presente, anche se appartenenti a un passato immaginifico e lontano. Sono profughi, migranti, rifugiati che abbandonano la propria terra d’origine pur amandola fino alla morte. Hanno, negli occhi e sulla pelle, gli orrori della guerra, ma nel cuore è riposta la loro speranza.

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Anchise (ph. Gianfranco Negri)

In prima nazionale, César Brie presenta il suo studio sulla figura di Anchise, il mortale di cui la dea Afrodite si innamorò e dalla cui unione nacque Enea, fondatore (con le dovute cautele, perché il mito presenta molteplici variazioni) della città eterna.

César Brie porta gli spettatori all’interno dello stesso viaggio compiuto dagli esuli troiani, pensando a una performance itinerante: il pubblico, diviso in due gruppi, viene condotto da una cornamusa presso le possibili nicchie che racchiudono le prime parti dello spettacolo; nella seconda e ultima parte, invece, proprio come Anchise, l’esule platea è invitata a sedersi e, finalmente, a riposarsi. Brie è accerchiato da giovanissimi attori e attrici e questa scelta accentua ancora di più la forza comunicativa e simbolica di Anchise, interpretato dallo stesso Brie. I capelli lunghi e bianchi, il volto del regista, che porta su di sé tutti i segni di una vita pienamente vissuta, in contrasto con il candore giovanile suggeriscono quasi un “passaggio di testimone” o, meglio, un augurio: io vi ho condotti fin qui, ma ora sono serenamente stanco, perciò tocca a voi. Il lavoro di Brie con questi ragazzi e queste ragazze mi è parso quasi una “seconda” bottega qui, a Veleia.

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Anchise (ph. Gianfranco Negri)

L’ultimo viaggio di Anchise, che chiede al figlio di lasciarlo riposare sulla spiaggia e di tornare l’indomani per non dover assistere ai suoi spasmi, è il quadro più toccante. Nell’Eneide virgiliana non esiste questo passo, poiché viene narrato indirettamente da Enea. Il lavoro drammaturgico di César Brie si concentra, quindi, sul non detto e sul non narrato, mescolando, come in un calderone magico, tutte le possibili suggestioni che la figura di Anchise può incarnare: «Anchise è un padre e un nonno. Un pastore e un saggio. Conosce la sconfitta, l’esilio, l’amore, la perdita». In questo modo, Brie fa vibrare delle corde, dentro ognuno, quelle che abbiamo accettato di non far più risuonare: l’arrivo imprecisato, atteso o inaspettato, della morte di una persona cara. Un papà o un nonno, appunto.


Per fare questo tipo di operazione occorrono sensibilità e delicatezza. Ma soprattutto, è necessario aver vissuto una forma simile di quel dolore e di quella rassegnazione.

È necessario fare in modo che questo dolore venga percepito da chi ascolta.

E abbiamo pianto in tanti, pensando al nostro Anchise.




Edipo – da Sofocle

Regia e adattamento drammaturgico di Marco Baliani

Con P. Aprile, M. Berretta, S. Bonventre, A. Bonvini, M. Bonvini, R. Bursi, F. Carra, T. Ferrandina, L. Fracchia, A. Gamba, G. Graham Gasco, M. Ippolito, C. Violetta Latte, E. Lausdei, S. Mancino, L. Morciano, M. Zighi Orbi, S. Pappalardo, L. Prevosti, L. Sgrò

Costumi e oggetti di scena di Emanuela Dall’Aglio Musiche di Mirto Baliani

Produzione Bottega XNL – Fare Teatro e Festival di Teatro Antico di Veleia


Le nozze di Antigone

Di e con Ascanio Celestini Musica dal vivo di Gianluca Casadei


Anchise

Testo e regia César Brie Assistente alla regia Vera Dalla Pasqua Con César Brie, Vera Dalla Pasqua, Davide De Togni, Tommaso Pioli, Annalesi Secco, Alessandro Treccani Musiche eseguite dal vivo Costumi e oggetti di scena Isola del teatro Produzione Smart in collaborazione con Festival di Teatro Antico di Veleia


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oca, oche, critica teatrale
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