Calderón de la Barca per Declan Donnellan, i brindisi di Raoul Collectif e la mia ultima recensione portoghese.
Nell’avvicinarsi della fine della mia permanenza a Lisbona, durata quasi due anni - bellissimi - mi sembrava doveroso contribuire ai festeggiamenti per i 40 anni di uno dei festival teatrali più importanti del Portogallo intero, il Festival de Almada, fondato da quel Joaquim Benite al quale è intestato il teatro di questo vitale comune affacciato sul Tejo e oggi diretto da Rodrigo Francisco.
Perso per un soffio Everywoman di Milo Rau al Centro Cultural de Belém, sono riuscito almeno a candidarmi per seguire l’ultimo appassionante giorno di programmazione ad Almada. Ero preparato all’idea di vedere due spettacoli completamente differenti: prima, la pomeridiana di La vida es sueño del genio seicentesco di Calderón de la Barca messo in scena dalla Campania Nacional de Teatro Clásico e affidato a due nomi di grande richiamo della messinscena teatrale e cinematografica, i britannici - e premiatissimi - Declan Donnellan e Nick Ormerod; il secondo, Une Cérémonie, è la terza creazione di un talentuoso gruppo belga, Raoul Collectif, emergente ma nemmeno tanto, anzi già affermato, visto che questa loro creatura a cui ho assistito era già stata selezionata per il Festival di Avignone del 2020, ancora diretto da Olivier Py - edizione poi cancellata per via della pandemia e parzialmente compensata da una Semaine d’art nell’ottobre dello stesso anno.
Sulla carta, insomma, un progetto “classico” e uno “sperimentale”.
L’allestimento di Donnellan del capolavoro del barocco spagnolo La vida es sueño ha avuto un grande pregio, quello di credere nel testo. Il garbuglio della trama è labirintico, ci si perde, ci si chiede spesso in che modo un drammaturgo potrebbe saltare fuori da quello che, di volta in volta, sembra un vicolo cieco di retorica, una zona grigia di scarso interesse, un momento di apparente incoerenza, finché non ci si ritrova a metà strada, storditi ma affascinati, in un punto della vicenda del tutto imprevisto e il meccanismo del labirinto ricuce le sue trame predisponendoci al finale. Certo, quando si parla di “finale” in opere di questo periodo, ci si trova sempre a fare i conti con le attese agnizioni, i riconoscimenti di legami parentali che assicurano onorabilità alla storia - un nobile non può sposare una popolana e viceversa - ma in questo testo Calderón pare più orientato a risolvere le aspettative sociali della platea piuttosto che a dare vera luce a un autentico “lieto fine”. La vicenda, dunque, non si “risolve”. Al contrario, i personaggi restano incartati in una realtà insoddisfacente di rabbia repressa, nella quale i matrimoni, i perdoni, le riparazioni non prospettano nemmeno una possibilità di felicità. Un esempio su Sigismondo, condannato a eterna incertezza sull’effettiva realtà di quello che sta vivendo, nel timore di risvegliarsi nella cella in cui ha trascorso tutta la sua infanzia e giovinezza.
Dicevamo, quello di Donnellan è un pregevole atto di fiducia nei confronti di Calderón, supportato da almeno tre elementi di indubbio valore: un’idea visiva semplice ed efficace - una parete a metà della scena, frontale rispetto al pubblico e costituita da porte chiuse, attraverso le quali i personaggi entrano ed escono; un cast di attori e attrici con esperienza, tecnica, presenza scenica, amore e cura per il proprio stare in scena; l’occhio e l’orecchio di un regista a cui non manca il coraggio di comprendere come i capolavori, di fatto, siano oggetti fragili, sfuggenti e per questo davvero vivi.
Ma questo spettacolo ha anche un enorme difetto, certamente meno visibile: usa il teatro come alibi.
Identificare il rapporto vita-sogno con lo spazio effimero della rappresentazione teatrale - i ruoli, il trucco, la complicità con il pubblico, ecc. - è pericoloso, perché si rischia che il sogno misuri esattamente il perimetro del teatro, attori e pubblico inclusi e, soprattutto, che termini al di qua del confine sacro dell’arte.
Conseguenza di questo processo è il fatto che la vita sia sogno, sì, ma solo per gioco, o meglio nel gioco del teatro. Ecco l’alibi: stiamo tutti sognando, finché siamo qui. L’opera di Donnellan-Ormerod, bellissima per il suo tratto visivo, instancabile per la messa in moto di azioni credibili e intense, divertente nel suo modo di interpretare la retorica di cui il testo è carico, però cade inesorabilmente in questa che io considero una limitatezza di visione, rispetto allo sguardo universale, debordante, dell’estetica barocca in generale, che in alcuni casi arrivò a trasformare l’intero spazio pubblico in un interminabile luogo di rappresentazione a cielo aperto.
C’è, in La vida es sueño, un accadimento in particolare che, rispetto all’umorale caleidoscopio degli eventi, vorrei provare a evidenziare - un fiore nel labirinto di specchi. Si tratta di un contatto improvviso tra l’entusiasta e buffonesco attore che interpreta Sigismondo e uno spettatore in prima fila. Il momento, per me, è straordinario, perché è proprio in quel contatto, che avviene per la prima volta, che vedo comparire un terzo fantasma in mezzo a quei due corpi vivi della scena teatrale che si stavano prendendo la mano: in quel momento, Sigismondo “accade” e trasmette a tutto il pubblico, contemporaneamente, il suo tragico dubbio, la sua inesauribile speranza di verità. Non c’è altro modo per comporre il paradosso di un sogno se non attraverso il tocco, l’epidermide, il superamento di un limite e di una distanza. Noi sentiamo quel contatto. «Siamo della stessa natura dei sogni».
Tanto labirintico Calderón, come desertico risulta Une Cérémonie di Raoul Collectif. Se il labirinto ostruisce lo spazio alla visione e a qualsiasi strategia percettiva basata sugli occhi, il deserto impone la sua annichilente legge della visione totale: nulla si può nascondere e nulla di fatto nasconde questo meraviglioso gruppo belga. Tutto è a vista, in scena: lo spazio è disseminato di strumenti musicali, sedie vuote, un tavolo da bar con bottiglie e bicchieri, tutto disposto secondo un ordine appena intuibile, al limite del casuale. Gli artisti sono quasi sempre tutti in scena, per oltre due ore. Sopra le loro teste, incombe un enorme uccellaccio preistorico, stilizzato, di legno, che aziona le sue ipnotiche ali quando uno del collettivo tira una corda ad esso legata, che penzola giù. Lo pterodattilo vola, da fermo, in molti momenti dell’azione e ogni volta che lo vediamo agitarsi silenziosamente sul nostro teatro, ci pare dica qualcosa di più, di nuovo, di diverso, sullo stesso tema, che attraversa esplicitamente e implicitamente Une Cérémonie: la morte.
Anche in un deserto, come in un labirinto, sia pure per motivi opposti, la vista non può essere considerata particolarmente affidabile. E non è questione di ciò che si crede di vedere - la famosa oasi nell’uno, l’uscita nell’altro - ma di ciò che non si lascia vedere, per ragioni di sopravvivenza stessa dell’ecosistema in atto - animali e insetti che strisciano e si nascondono, punti di riferimento segreti che farebbero intuire il senso profondo del labirinto. Raoul Collectif lancia apertamente questa sfida al pubblico: non c’è niente da vedere. Questa è una messinscena che produce e riproduce il processo creativo del gruppo, durante una sorta di serata-tipo in cui si mettono insieme le proposte relative allo spettacolo che si intende fare. Non c’è un brainstorming, non c’è una tavola rotonda, non si discute. Si beve, piuttosto, forte e frequentemente e, soprattutto, si brinda. Il brindisi è il motore drammaturgico, attraverso il quale l’uno o l’altro Raoul si erge in piedi con fiero cipiglio su una modesta sedia di plastica e, improvvisamente, dedica il suo momento a una parola. Ed è una parola magica perché immediatamente ammanta l’azione tutta della sua atmosfera. Un brindisi all’abisso, al dubbio, all’imprevedibile, all’ingovernabile. Sono parole che si gonfiano al vento e modellano il deserto, non ci dicono dove ci troviamo esattamente, ma ci confermano senza ombra di dubbio che ci troviamo qui, che siamo vivi.
La cerimonia di Raoul Collectif compie esattamente quest’azione: sposta tutto nel momento esatto in cui la performance accade, a volte avvisando il pubblico che nessuno dei presenti in quel momento abbia la certezza di ciò che stia per accadere. Prendono vita improvvisamente molte canzoni, inclusa una straordinaria esibizione jazzistica collettiva, estratti di poesie, brandelli di letteratura che riemergono senza alcun collegamento evidente con ciò che lo precede, un aneddoto sui dubbi relativi al pacifismo, una surreale e sinistra danza di uno del gruppo travestito da enorme civetta, una rivisitazione vibrante dell’Antigone sofoclea, una lunga scena di ubriachezza, acrobatica, farneticante, futurista, un interminabile silenzio. Tutto ciò che accade in quest’opera rivendica orgogliosamente il proprio progetto di volontà di squilibrio, di disponibilità al fallimento, di apertura alle atmosfere, più che ai temi.
E il bello è che non si percepisce il processo creativo come un bozzolo dal quale far nascere le farfalle che saranno capolavori, ma come una semplice bozza punk e grezza, per sua natura eterna e immutabile, nella quale coesistono voci, assenze, pesi. Si cerca e si cerca fino in fondo, nei posti in cui fa più male. Il pubblico intuisce il dolore, accetta il gioco della complessità dell’indefinitezza e ringrazia per l’andamento ludico, perdonando l’assenza di ritmo, a volte il delirio dell’uno o dell’altro, in cambio di esibizioni individuali che, talora, si affermano sul carattere collettivo della drammaturgia, autentico punto di forza e aspetto peculiarissimo di quest’opera.
A volte, forse per vocazione narcisistica, forse per esigenza ludica insopprimibile, emerge il virtuosismo, il potere extra-ordinario di questi corpi educati all’acrobazia, alla musica, all’affabulazione - e ai brindisi, bien sûr. Ed è probabile che in questi momenti, la tenuta del “non c’è niente da vedere” si assottigli pericolosamente, concedendosi alla vista, e lasciandosi andare alla sensazione rassicurante del gradimento del pubblico - la consuetudine dello stupore che si prova negli spettacoli di circo, vecchio e nuovo. Ma è un compromesso necessario, per non correre il rischio di sfidare il pubblico al punto di allontanarlo. Quando invece è proprio lì che Raoul Collectif ci vuole, a teatro, in uno spazio tradizionale, classico, frontale, sia pure nel varietà decentrato e omogeneo della proposta drammaturgica, sia pure nel caos rutilante di brindisi, ubriachezza, sedie che volano, copricapi fatti di rami, musica, pterodattili, civette giganti che danzano. Il nostro posto è lì, nel deserto, senza cercare alcuna oasi, senza voler più uscire da nessun labirinto per tornare nella realtà.
E in questo, Une Cérémonie compie ciò che la versione di Donnellan-Ormerod di La vida es sueño non ha avuto il coraggio di fare: il loro teatro non è un alibi.
Se la definizione più grossolana che possiamo dare della parola “alibi” è quella di un evento dimostrabile in cui eravamo presenti, mentre, altrove, si consumava un crimine, ecco, lo spettacolo di questo eccezionale gruppo belga toglie al teatro ogni caratteristica di alibi, di distrazione, di tempo rubato alla realtà. La vita è a metà strada tra un sogno e un incubo, essendo a metà strada tra la nascita e la morte. Il teatro accade lungo la strada, in un presente in cui coesiste tutto.
Si può brindare a una parte o a un’altra di questo tutto e per un istante si costruisce un mondo che si sgretolerà al brindisi successivo. L’applauso finale non ci riporta a nessuna realtà, è solo un’altra scena del nostro deserto, del nostro labirinto, così come prendere - di corsa - l’ultimo traghetto per tornare a Lisbona, rientrare a casa nel cuore della notte, addormentarsi e svegliarsi e continuare a pensare all’uno e all’altro spettacolo, al teatro e agli altri alibi che ognuno si trova, per provare la propria presunta innocenza.
A volte, per me, come per il Sigismondo calderoniano, come per gli artisti di Raoul Collectif, è semplicemente quella questione un po’ meschina e un po’ assurda di volersi, in qualche modo, salvare. Brindando di tanto in tanto.
La vida es sueño
di Calderón de la Barca
adattamento: Declan Donnellan, Nick Ormerod
regia: Declan Donnellan
scene e costumi: Nick Ormerod
con Alfredo Noval, Antonio Prieto, David Luque, Ernesto Arias, Goizalde Núñez, Irene Serrano, Manuel Moya, Prince Ezeanyim, Rebeca Matellán
movimenti: Amaya Galeote
suono: Fernando Epelde
luci: Ganecha Gil
assistente alla regia: Josete Corral
drammaturgia: Pedro Villora
traduzione in portoghese: Manuel Gusmão
Une cérémonie
di Raoul Collectif
con Romain David, Jérôme de Falloise, David Murgia, Benoît Piret, Jean-Baptiste Szézot, Philippe Orivel, Julien Courroye, Clément Demaria, Anne-Marie Loop
scenografia: Juul Dekker
costumi: Natacha Belova, Camille Burckel
sound design: Julien Courroye
luci: Nicolas Marty
direzione tecnica e arrangiamento musicale: Philippe Orivel
consigli musicali: Laurent Blondiau
Comments