Mi trovavo ad Aarhus, in Danimarca, per conto dell’Università di Lisbona, presso la quale porto avanti il mio percorso di dottorato, per seguire una tre giorni di conferenze a cura di EASTAP (European Association for the Study of Theatre and Performance). In contemporanea, i principali spazi teatrali dell’elegante e vivace cittadina danese ospitavano anche l’International Living Theater Festival, giunto alla sua ottava edizione, una rassegna di performance, danza, musica, arti circensi e teatro di figura, curato da Aarhus Teater, Teatret Svalegangen e Teatret Gruppe 38. L’ottima organizzazione del Festival mi ha gentilmente accordato i necessari accrediti per alcuni spettacoli e ho deciso di concentrare le mie riflessioni su due spettacoli (Fuck me di Marina Otero e 03:08:38 States of Emergency di Tore Vagn Lid) e due installazioni performative (I am from Reykjavik di Sonia Hughes e Happiness di Dries Verhoeven). Si tratta di quattro proposte artistiche totalmente diverse, che hanno avuto come elemento comune la solidità dell’idea di partenza, la cura del suo farsi e il coraggio di andare fino in fondo, elementi che, per quella che è la mia personale esperienza di spettatore e critico, rendono emozionante un accadimento teatrale.
Fuck me - Marina Otero
Un improvviso stato di eccitazione, accompagnato da gridolini di sorpresa, accompagna l’inizio di Fuck me: cinque ballerini nudi si riversano dalla platea alla scena del bellissimo Aarhus Theater, sormontati da una colonna sonora incalzante, nell’entusiasmo generale. Quali sono le ragioni di quest’accoglienza particolarmente generosa? Il teatro è pieno, l’atmosfera di questa piccola ma elegantissima città danese è stupenda, il sole è un regalo, c’è anche chi si è portato in sala un bicchiere di vino bianco e sorseggia con grazia e discrezione, sorridendo con curiosità e fiducia alla danza dei cinque corpi nudi. Quella di Marina Otero è forse una delle performance più attese dell’International Living Theatre Festival - pur in un programma ricco di pregio: prendere parte a questo evento è forse già di per sé un motivo di elettricità. E il pubblico, ecosistema eterogeneo, discontinuo, per certi versi inaffidabile, diventa il primo elemento irrinunciabile della performance, impegnato com'è in un adrenalinico gioco di sguardi con i corpi danzanti, sin dalla loro comparsa, in platea. Fuck me, titolo che oscilla tra la letterale richiesta sessuale e l'esortazione metaforica, rinforza l'idea di non voler affatto risolvere l'ambiguità dell'espressione, mantenendo intatta l'immagine di una rovina nel piacere e viceversa: una vocazione all'autolesionismo. L’unico elemento davvero rivelatore, dunque, dato che il senso del “fuck” va ancora chiarito - così come oscuro è il soggetto invitato a quest’azione - sta in quel “me”, un riferimento esplicito al sé, declinato significativamente al complemento oggetto. E ben presto, a fare da contrappeso alla possente libertà dei cinque uomini danzanti, ecco che sembra farsi strada chi riveste il ruolo di “me”: la stessa Marina Otero, costretta a una parziale immobilità da un infortunio alla colonna vertebrale. La coreografa e performer argentina, chiude, con Fuck me, la trilogia Recordar para vivir - i primi due spettacoli erano Andrea (2012) e Recordar 30 años para vivir 65 minutos (2015-2020) - e, per rafforzare il legame con l’elemento spiccatamente autobiografico della propria ispirazione, fa proiettare sul fondo della scena filmati di sé bambina, alle prese con le stereotipate coreografie dei saggi di danza, poi adolescente, fino a inserire estratti degli altri due spettacoli della trilogia, uno dei quali, particolarmente decisivo, relativo alla natura stessa del suo infortunio. Vediamo, nella bidimensionalità del video-ricordo, il corpo nudo della performer che si lascia cadere ripetutamente e violentemente sul proprio fianco. Il commento dal vivo della Otero, con microfono e sediolina al margine del proscenio e frontale rispetto al pubblico, conferma che proprio quell’estenuante atterraggio senza cura, senza protezione, le aveva causato il danno vertebrale.
In questo senso, lei stessa si dichiara, senza alcuna esitazione, soggetto del suo stesso danno: la richiesta Fuck me diventa quindi una constatazione di autolesionismo e, allo stesso tempo, di radicalità performativa. All’origine del suo progetto intero, la sua “causa narcisista” - come spiega lei stessa - il suo piacere espresso attraverso la centralità spettacolare del proprio corpo: dice al pubblico, in una delle prime scene, “me gusta qui se hablen de mi”.
Il disegno coreografico è chiarissimo, i cinque corpi, ognuno secondo la propria plasticità e poetica, hanno il compito di produrre in scena un’antologia ragionata di tutte le sue posture, i gesti, le fantasie, la sensualità che il suo corpo, infortunato e dolente, non può più attivare. I corpi reinterpretano la Otero bambina, adolescente, adulta, eseguono le sue indicazioni, srotolano il filo della sua coreografia, dichiarando, con effetti comici e in coro, il proprio asservimento al progetto tirannico della loro autrice. Eppure questa visione si rivela ben presto superficiale. Per due motivi fondamentali: il primo è che ognuno dei ballerini trova il momento e lo spazio per prendere la parola, se non per manifestare un “io”-soggetto, quantomeno per sostituirsi, anche solo per un attimo, al “me” del titolo, spostando l’attenzione dal corpo vulnerabile di Otero al proprio, solo apparentemente potente, sensuale, in realtà attraversato da crisi, dubbi, paure, crolli.
E per confermare l’impressione di corpi altri, in fondo slegati dalla loro missione coreografica, veniamo a sapere che hanno un nome, tutti lo stesso, Pablo, ma con delle relazioni innescate con il pubblico estremamente diverse l’una dall’altra. Sono solo accenni di possibilità, perché Otero riprende sempre il centro dell’attenzione o, meglio, del controllo della sua opera, ma sono significativi, perché amplificano il valore del “me”, lo moltiplicano al di là di ogni gesto, di ogni estetica, lo proiettano in un piano meta-danzato in cui il danzatore riflette sul pubblico il proprio specifico modo di essere Pablo, al di là di ciò che si vede.
Di fatto, la verità di Fuck me - o una delle verità - si fa strada lateralmente: narcisismo e autoreferenzialità sono materiale poetico, drammaturgico, contribuiscono a problematizzare l’idea generale, a nutrire la perplessità del pubblico, a isolare sempre di più la figura di Marina Otero, a trasfigurarla attraverso la postura sofferente del suo movimento bloccato, in totale contrapposizione con la flessibilità dei suoi ballerini. E il punto è proprio nel meccanismo formale, giunzione di drammaturgia e coreografia: tutto è finzione. Innanzitutto, Otero sta benissimo - o almeno l’infortunio non la debilita più di certo. Poi, i ballerini non sono affatto suoi schiavi, lei non ne è domatrice, il meccanismo slave-mistress è solo denunciato: al contrario, essi diventano complici creativi della sua poetica fino al punto di assumersi, con cura, con amore, la responsabilità della sua biografia, attraverso l’incorporazione del suo archivio gestuale.
Insomma, Otero costruisce un gioco nel gioco: inserisce il pubblico, lo invita a penetrare lo spettacolo, a condividerne l’aspetto ludico, in nome delle uniche due cose “vere” che dialogano in scena: il dolore fisico, che è territorio comune a tutti, con maggiore o minore intensità e il teatro che diventa il luogo della rievocazione di questo dolore, dove la finzione assume un tratto di necessità - attraverso la controscena di corpi, al contrario, sanissimi, che fingono l’infortunio, la disabilità. E il gioco nel gioco si fa sinistro, la parodia si distorce nello specchio e la stessa autobiografia, presunta, perde ogni sacralità.
Vorrei chiudere con la descrizione di due scene, che si muovono su immaginari molto diversi, ma che raccontano bene, entrambe, l’universo di Marina Otero. La prima è un dialogo a distanza tra un video proiettato, in cui la Otero si filma nuda, nello spazio protetto del suo studio, mentre si fa manipolare, baciare, toccare, ruotare, abusare dai suoi ballerini, nudi anch’essi, in un’orgia danzata in cui lei, sorridente, felice, consapevole non smette mai di fissare l’obiettivo del telefono. In parallelo, i cinque ballerini riproducono in tempo reale lo stesso video, con uno di loro che sostituisce la Otero, che osserva da fuori, al pari del pubblico, l’esecuzione di questa lunga e complessa danza che nel copiare la sua fonte, però, la altera, la trasfigura, la sposta in un altro mondo, dove il vero e il finto, l’artificiale e il naturale coesistono nello stesso corpo, ovvero nella stessa sensazione. Infine, a conclusione dello spettacolo, Otero corre in cerchio, nuda, nella scena semibuia, avvisando gli spettatori, con leggerezza, che continuerà a farlo finché non usciranno tutti dalla sala. La platea è illuminata, l’animale eterogeneo del pubblico, travolto, indecifrabile, ancora elettrizzato, ma in forma diversa, guadagna l’uscita non senza lanciare sguardi furtivi alla performer che porta a compimento il suo proposito radicale. Mi rendo conto solo così che la dimensione preponderante di Marina Otero, per lo meno in Fuck me, l’unico suo spettacolo che io abbia mai visto, è quella della letteralità. Fuori da ogni metafora, lontana da ogni intellettualismo, persino recalcitrante rispetto a una lettura socio-politica complessa che la contestualizzi nelle sue origini argentine contemporanee - con tutto ciò che la cronaca post-dittatura può raccontare - Marina Otero cerca la liberazione, non la libertà. E il suo Fuck me, come pure ammette durante lo spettacolo, fornendo una chiave di lettura forse per tutto il suo progetto poetico, è l’esplicitazione di un desiderio impossibile: fare sesso nel momento di massimo impedimento fisico.
Fuck me è uno spettacolo teatrale che somiglia moltissimo al concetto fondamentale del dolore di cui parla. Lo si può vedere da fuori e la sua messa in scena può dare vita a una straordinaria finzione, a un vitale paradosso. Ma per quanto all’esterno si cerchi di restare, questo dolore - questo spettacolo - non smette di evocare la sua natura feroce, che è quella di divorare tutto ciò che incontra sulla sua strada, trasformandolo in inferno. La creatura di Otero è straordinaria perché conserva entrambe le possibilità, ci dà la libertà della distanza e quella dell’empatia. A ognuno la sua scelta.
I am from Reykjavik - Sonia Hughes
È una performance? È un’installazione? Non succede niente? A prescindere da ciò che è, si deve iniziare con ciò che in I am from Reykjavik si vede: una performer al centro di una piazza che costruisce qualcosa.
Il lavoro di Sonia Hughes può essere considerato più o meno interessante, più o meno superfluo. La sua fruizione dipende, forse, non tanto dal gusto, ma dal posizionamento sociale, etico, economico; anche dal momento, dall’umore, dalla voglia di mettersi a disposizione di ciò che potrebbe succedere. Per me è stata un’esperienza preziosa, importante. Io ho visto una donna costruire una casa, o meglio un’ossatura di assi di legno che definiscono un perimetro, con una verticalità che suggerisce la presenza di una facciata. Sembra una cattedrale.
Sonia è lì che costruisce, il che include anche prendersi le sue pause, sedersi, chiacchierare con chi si avvicina a lei. Fin qui, si potrebbe dire che non ci sia nulla di anomalo rispetto ad altre performance urbane, più o meno itineranti. Ci sono un obiettivo primario (l’azione specifica di costruire) e uno secondario (l’interazione con chi si avvicina per curiosare); ma c’è il fattore tempo-spazio (l’imprevisto di ciò che accade in un luogo pubblico, in una lunga durata). I am from Reykjavik, però, ha qualcosa di unico eho davvero il piacere di sbilanciarmi- irraggiungibile: l’empatia della performer. Al di là di ogni fraintendimento, comunque il suo modo di interagire con chi si avvicina non si può definire empatico in assoluto, come se fosse una macchina erogatrice di servizi, a seconda della sollecitazione. Sonia accetta la solitudine del suo gesto, ma al contempo accoglie attivamente, fa domande, si chiede cosa spinga qualcuno a staccarsi dalla pur interessante contemplazione dell’azione e ad avvicinarsi al cuore della questione. E questo cuore è lei. Lei e chi si avvicina a lei. Le domande, che sembrano generiche, seguono invece il disegno di una drammaturgia spinta da una semplice e ben precisa urgenza: quella di sapere se chi è lì ha trovato da qualche parte la sua casa.
E il trio di sconosciuti che si è intrecciato alla sua performance, durante la mia presenza nelle tre ore di partecipazione a I am from Reykjavik, rispondeva precisamente, chissà come e chissà perché, alle tensioni che questa domanda sollevava. Io, una signora che è nata e vive ad Aarhus da sempre e un’altra signora che abita ad Aarhus da 35 anni ma che è nata altrove. Io stesso sono nato in una città del sud Italia, ho viaggiato a lungo e ora vivo in un altro paese, che non ha niente a che fare con la Danimarca.
E tu stai bene dove stai? Mi chiede Sonia Hughes. E la risposta è meno importante della sua domanda, quando vedo la sua cattedrale in miniatura, i suoi occhi sinceri e stanchi per l’attività, il suo corpo a riposo, un riposo temporaneo e pieno di calma.
Piuttosto, la mia risposta è stata aiutarla a costruire quello che stava tirando su, sapendo benissimo che se il mio aiuto andava verso l’attività manuale, anche il dialogo, in danese, tra le due donne, era denso di costruzione, di ricerca, di fiducia. Di calma. Viene fuori che i nipoti sono la casa, che il posto in cui si sta, sia pure temporaneamente, è la casa, che la lingua stessa, in fondo, è la casa. Mi rendo conto che, almeno per la durata della performance, qualunque casa ognuno di noi quattro abiti nella propria vita (e aggiungo ai quattro il potenziale infinito di passanti che potrebbero aver dedicato almeno uno sguardo all’azione), niente era più casa di quella che Sonia stava proponendo. Abbiamo seguito lo schema dell’architetto che ha disegnato il progetto, fino ai pannelli per il tetto. Ed è proprio il tetto, anche con una casa ancora vuota, che dà l’idea perfetta di un lavoro finito, essenziale, che non ha bisogno di altro.
Sonia allora mette un po’ di musica dalla sua piccola cassa bluetooth, ci invita a entrare, a stare con lei, ci offre il tè, restiamo in casa, insieme, ognuno con la sua casa lasciata fuori per qualche momento. Fuori c’è anche il resto del mondo, in realtà, che è un posto grande con milioni, miliardi di case reali e immaginarie, anche solo desiderate. Ma noi abbiamo la nostra, ora.
Sonia chiude gli occhi e accompagna la musica, godendosi il riposo del lavoro concluso, la compagnia.
La casa sarà smontata e rimontata in un altro posto. Abbraccio Sonia Hughes in uno scambio di empatia, riconoscenza e amore non per me, ma per quello che fa, dentro cui, per qualche minuto - per me bellissimo - ci sono stato anche io. Abbiamo costruito, abbiamo convissuto. Forse però era solo una performance, forse era solo una installazione (a tal proposito, chi volesse sapere di più su questo percorso artistico troverà materiale davvero pregevole sul sito https://www.iamfromreykjavik.com). Per quel che mi riguarda, Sonia è al centro della sua casa e della sua ricerca destinata a intercettare i diversi gradi di smarrimento all’interno delle comunità in cui questo lavoro viene messo in scena, ormai da molti anni, e ancora lo sarà a lungo. E anche solo per questo magnetismo sociale, val la pena di seguire l’esperimento di Sonia Hughes, e di augurarle sempre un buon viaggio, con la sua cattedrale, il suo tè e la sua splendida luce.
03:08:38 States of Emergency - Tore Vagn Lid
Le premesse non erano incoraggianti. “Non succederà niente”, “Tre ore possono essere interminabili”, “Io mi sono addormentata”, “Io sono uscito per prendermi un caffè e sono rientrato per il finale”. I frammenti di resoconti accennati nei coffee breaks della terza giornata di conferenze EASTAP mi avevano preparato al peggio, relativamente all’esperienza di 03:38:38 States of Emergency di Tore Vagn Lid e della sua compagnia Transiteatret, da Bergen, Norvegia.
Per me non è andata così. Durante le tre ore, otto minuti e trentotto secondi che scandivano la durata della performance, non ho mai sentito la necessità di uscire per un caffè, né tantomeno di addormentarmi.
Al contrario, vorrei cominciare proprio dalla sensazione fisica che ho provato, piuttosto rara: quella di un corpo alterato da una sorta di eccitazione lenta, profonda, costante e da un esaltante senso di attesa nonostante questo spettacolo avesse un finale già conosciuto.
L’episodio al centro di questo lavoro racconta le ore in cui il militante di estrema destra Anders B. Breivik semina il panico a Oslo, facendo saltare ordigni esplosivi presso sedi governative, poi, armato fino ai denti, massacra più di settanta persone nell’isoletta di Utoya, durante il raduno giovanile del partito laburista norvegese, prima dell’arresto.
I pilastri su cui Tore Vagn Lid e il suo straordinario collettivo costruiscono questo progetto sono essenzialmente due: la struttura drammaturgica e la vocazione operistica.
Per quel che riguarda la prima questione, si legge già sul sito della compagnia, che l’origine dell’ispirazione di questo complesso e ambiziosissimo progetto, presentato a Aarhus per la prima volta fuori dal territorio norvegese, nasce nell’estate del 2018, sulla spinta di un laboratorio di drammaturgia, sviluppato dall’artista norvegese in collaborazione con gli studenti del Goethe University di Francoforte, incentrato su un principio di drammaturgia politica, “in stato di emergenza”. La proposta seminale si articola poi su più fasi di ricerca e di lavorazione che condurranno alla prima dello spettacolo vero e proprio nel 2020. Tore Vagn Lid non si concentra in particolare sul massacro o sulla psicologia dell’attentatore, né sulle testimonianze successive di chi ha vissuto quei momenti, bensì su una accurata, quasi ossessiva, scansione temporale, secondo dopo secondo, minuto dopo minuto, a partire dalla prima esplosione nel centro politico di Oslo, fino al momento in cui Breivik viene catturato.
Un modellino ricostruito al centro della scena, intorno alla quale il pubblico siede e osserva, con libertà di alzarsi ed esplorare meglio e da vicino ogni singolo dettaglio dell’azione, restituisce i palazzi del centro città, il furgone di Breivik, la strada, persino il tratto di mare che separa Oslo dall’isola di Utoya. Infine, il luogo del massacro: un ampio tavolo è circondato da un gruppo di performer impegnato a strappare fogli, bagnarli e attaccarli tra loro, creando una composizione che richiama gli alberi di Utoya, la sua scenografia ideale. Una telecamera e un telefono riprendono live ciò che accade su questa città in miniatura, proiettandone la visione su grandi schermi, posti in alto sui versanti opposti della sala. La miniatura diventa gigantografia. Il singolo diventa mostro. Il piccolo nazista Breivik diventa l’enorme pericolo pubblico.
La drammaturgia dell’emergenza di Tore Vagn Lid costruisce una composizione di lunghi frammenti audio della radio nazionale, tratti dalla realtà di quel giorno, in cui gli aggiornamenti confusi e concitati su ciò che stava accadendo in tempo reale erano inevitabilmente alternati ai brani di musica pop già programmati, come Earth song di Michael Jackson, o Your Song di Elton John. Finché, con lo scorrere delle ore, ai comunicati scarni dei cronisti sul campo, iniziavano ad aggiungersi interventi di analisti politici ed esperti di terrorismo che, man mano che gli effetti degli ordigni nel centro di Oslo cominciavano a scatenare panico e psicosi, esternavano sospetti sul mondo jihadista. E quando non era la radio a scandire la drammaturgia, con la sua drammatica ambiguità tra l’invito alla calma e alla prudenza e la restituzione di una tragedia ancora a tratti incomprensibile, lo spazio acustico era abitato da effetti sonori, composizioni per chitarra e ukulele (suonati dallo stesso Vagn Lid), basso, percussioni, tromba, oltre che magnifici cori; il tutto eseguito dal vivo dai magnifici interpreti di quest’opera collettiva, coordinati dal responsabile tecnico, dal responsabile dei cambi di luce e della regia audio.
Ed è qui che si impone il secondo elemento fondamentale di questa drammaturgia dell’emergenza: la vocazione operistica. Siamo senza dubbio di fronte a una raffinatissima composizione musicale, eterogenea e discontinua, in grado di restituire il pieno dell’eco di avvenimenti sinistri e mostruosi (per esempio attraverso l’eco che distorce la chitarra e, soprattutto, l’ukulele nei frammenti suonati da Vagn Lid, così come il vuoto del lungo e drammatico momento centrale dell’opera, in cui, in una semioscurità che rifletteva il caos informativo e il black out dell’intero sistema sociale e politico, ascoltiamo oggetti emettere vibrazioni struggenti, suoni sordi e reiterati: sassi, acqua, corde, il coro della natura inanimata).
E la complessa, sofferta, elegantissima partitura musicale della squadra di Vagn Lid costituisce il nucleo estetico, anzi sinestetico, che regge l’equilibrio delicato di ciò che accade in scena.
Ognuno dei musicisti, dei coristi, degli operatori di ripresa, si muove con identico ritmo - una cadenza lenta, misurata, accurata, senza strappi: è una coreografia, che è anche resistenza corale. Ed è l’anima dello spettacolo, l’espressione più acuta e convincente della cosiddetta drammaturgia dell’emergenza ricercata da Tore Vagn Lid.
E in questa orchestra, trova perfettamente il suo posto, oscura e nascosta, la cellula assassina, quel Breivik che è parte integrante, per nulla eccezionale, di un agire collettivo.
Un pensiero finale va proprio verso questi due termini: agire e collettivo. Mi rendo conto, infatti, solo dopo che 03:38:08 State of Emergency è finito, di aver sempre visto - sia alzandomi in piedi e vagando per lo spazio, che restando seduto - la fonte di ogni suono, di ogni rumore, di ogni azione dell’esperienza performativa di questo spettacolo.
Non ho visto Breivik, non ho visto i cadaveri delle oltre settanta vittime, non ho ascoltato le urla, né i pianti. Non ho visto la cosiddetta verità storica, in stato di emergenza, la storia non si vede.
Si vedono uomini e donne che agiscono, che suonano, che cantano, che disegnano. Si vede il tempo e il tempo è uno spazio che si costruisce artigianalmente. Il tempo è, soprattutto, un suono costante, dal rumore alla musica, al limite del silenzio.
Happiness - Dries Verhoeven
«I have told my self that, when I see a guy lose consciousness I will not think about his ‘problem’, I don’t want to reduce him to a victim. As he lies there, his legs spasming a little, I try to imagine what is going on behind his eyelids, and the images he sees at that very moment.», così l’artista Dries Verhoeven chiude il testo con cui accompagna una delle sue creazioni più recenti, intitolata The NarcoSexuals (2022), una performance che esplora il mondo del chemsex, risultato di quattordici interviste a consumatori di droghe legate all’attività sessuale e, in generale, di una articolata riflessione sulla liberazione omosessuale dagli anni Sessanta ai giorni nostri.
Verhoeven è lo stesso artista che, in Homo Desperatus (2014), aveva realizzato 44 modellini di luoghi legati a catastrofi causate dall’uomo improvvisamente abitati da colonie di formiche, ripresi e proiettati su schermi per il pubblico; e che, in The Silent Body (2019), teneva a freno le fantasie sessuali di un o una performer proiettandole su una parete di uno spazio asettico, separato attraverso una lastra di vetro dall’oggetto stesso delle fantasie: gli spettatori.
Sono solo pochi esempi disseminati in una carriera di artista visuale che sembra incarnazione di quanto Terenzio nel secondo secolo a.C. fa dire al suo personaggio Creméte in Heautontimoroumenos: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”. E penso che Verhoeven non si ponga confini geografici o storici, non sia interessato a questo o a quell’episodio nello specifico, piuttosto assuma la responsabilità estetica di un problema che mi pare centrale lungo il suo percorso: la separazione dei corpi, fisica e mentale e la minaccia dell’assenza di un contatto, ossia la scomparsa dell’empatia.
Il suo è un umanesimo vitale, che si sposta dal principio alla pratica, dall’ideale al reale e, così facendo, abbandona la dimensione del particolare per dedicarsi all’universale. Nel suo complesso attraversamento filosofico porta con sé, in quanto elemento fondamentale, il pubblico. Non se ne dimentica mai, al contrario, ne ha bisogno. Il pubblico è per Verhoeven il terreno fertile in cui prolifera il suo senso del presente.
È così anche in Happiness, installazione impiantata nella piazza Klostertorvet - curiosamente a pochi passi dalla costruzione di relazioni che mette in scena Sonia Hughes in I am from Reykjavyk - si percepisce ancora una volta il tema della separazione e della distanza.
Stavolta, la trasparenza del vetro separa il pubblico da una performer antropomorfa, costituita da cavi e circuiti. Il suo viso, di materiale plastico, raffigurante una giovane donna dai tratti orientali, ha occhi dotati di sensori in grado di seguire i movimenti del pubblico, dando l’impressione di una relazione visiva.
L’incontro con questa figura avviene in un angusto gabbiotto in muratura, un piccolo container, un rifugio oscuro, totalmente disconnesso dall’ambiente esterno, in cui ci si può entrare in non più di quattro per volta, meglio se massimo in tre. La donna sintetica dietro il vetro ha, alle sue spalle, una fornitura completa di psicofarmaci, funghi, droghe di ogni genere, come in una farmacia “di fiducia”.
La sua performance ruota intorno a una drammaturgia che presenta al suo pubblico tutto ciò che il consumo di queste sostanze produce se usate nel quotidiano -gli effetti fisici, mentali, il tipo di dipendenza, il metodo di somministrazione. Benché l’apporto informativo della performance sia indubbiamente importante, il centro dell’azione pare decisamente un altro: la costituzione di un inconcepibile spazio di relazione. Più che chiedersi che tipo di relazione sia, è importante porsi la domanda di dove sia situata e quale sia il suo ambito. La risposta ci porta fuori dal dualismo naturale/artificiale, ben oltre ogni assunto moralistico legato alla supremazia della carne umana rispetto alla generica categoria della macchina. La felicità sta nell’assunzione di una condizione di realtà nella quale si configurano diversi stati dell’essere, tutti accettabili sullo stesso piano. Happiness di Verhoeven sta nella scelta atea e appassionata di una relazione con il sintetico e con il chimico, in quanto produttore di un effetto psico-fisico che, al di là della linea di confine tra normatività e alterazione, si incastra alla perfezione nella cultura occidentale contemporanea, in un’ottica di adattamento consapevole alle richieste. E di fatto sono due gli elementi significativi della proposta performativa di Verhoeven: il processo seduttivo, espresso coreograficamente attraverso gesti meccanici (dal più piccolo movimento di dita al più ampio, la mimesi di uno stato di alterazione, con gli occhi semi-chiusi, il corpo inclinato all’indietro, le braccia larghe quasi in un orgasmo estatico); e il processo poetico, che attraverso brevi composizioni canore scandite con voce acuta e un po’ strozzata e che abitano i momenti drammaturgici di confine tra la dimensione letterale della droga e la sua ambivalenza metaforica: ascoltare il suo canto è immergersi in un enigma, avere la sensazione vibrante che stia succedendo qualcosa non solo e non tanto nella performance in sé, ma nella percezione stessa di ciò che è umano.
La voce è di un’attrice, il testo di un drammaturgo, la progettazione del robot di un gruppo di lavoro ma, contemporaneamente, io sono davanti all’orgasmo e all’estasi di Santa Teresa, accetto il meccanismo di seduzione e lo sperimento sul mio corpo, in compagnia di due o tre sconosciuti complici silenziosi, rinchiuso nello stato di eccezione di un microcosmo, l’ebbrezza irresistibile della promessa di una vera felicità. Vera perché sperimentabile, ripetibile, studiata in laboratorio, prodotta e impacchettata. Vera perché è nel corpo che si manifesta. Vera perché potenzialmente mortale.
Comments