Jedwabne, Polonia, seconda metà degli anni Quaranta.
Joana non esce di casa da anni: fuori l’aria è marcia, dice. Non ha più alcun interesse per nulla, né per se stessa, né per i fiori, né per la carriera politica di suo marito Thomas, sindaco del paese, che la vorrebbe al suo fianco per la campagna elettorale. L’unica cosa di cui le importa sono le candele - che si fa portare dal marito con periodicità inflessibile – con cui rischiara l’unica stanza che abita, ed è proprio attraverso la lenta e metodica gestualità che dedica ad accenderle che gli spettatori de Il peso dell’aria percepiscono, già dalle prime scene, la forte tensione intrinseca del personaggio.
Le candele sono l’unico antidoto all’odore insopportabile dell’aria, un odore che apparentemente sente solo lei.
Ma oggi, il giorno dello spettacolo, Thomas ha deciso che l’apatia della moglie non è più sopportabile, soprattutto perché mette troppo a rischio la sua reputazione: per la prima volta in cinque anni perde la pazienza, la strattona, spegne una a una le sue candele intimandole di uscire di casa insieme a lui; e, a quel punto, il mutismo di Joana si spezza e la tensione esplode, il peso dell’aria si fa parola, accusa, monologo quasi ininterrotto.
Joana racconta di quel giorno di luglio del 1941, quando il marito le aveva detto di rimanere in casa e lei gli ha disubbidito, è scesa in piazza a sentire il suo discorso e ha trovato solo metà del paese ad ascoltare, una metà molto precisa: la metà pura, la metà a cui i tedeschi – ormai molto vicini – non avrebbero creato problemi, la metà giusta. E quel che Thomas sta dicendo è che bisogna «farla finita con i parassiti che infestano il nostro paese». Così il noi si distacca irrimediabilmente dal loro, la paura che i tedeschi massacrino anche la metà “innocente” diventa pazzia, meglio allora perderla del tutto questa innocenza, meglio essere i primi a massacrare, essere carnefici se questo può salvare dall’essere vittime. Impugnare bastoni, asce e forconi. Sono milleseicento persone contro altre milleseicento, ma loro sono folla e la folla si fa branco, in un istinto animale che non risparmia vicini di casa, insegnanti, donne o ragazzini.
Joana vede tutto e non sa cosa fare, vorrebbe avere il tempo di agire ma la guerra e l’odio non aspettano, la lasciano lì, sola, con la colpa di non aver capito in tempo.
Le immagini violente e belluine del massacro sfilano davanti agli occhi del pubblico senza essere rappresentate, ma solo raccontate - una dopo l’altra, senza sosta - nell’intenso monologo dell’attrice Viviana Savà, che riesce a rendere bene la fragilità impotente e la contemporanea forza esplosiva del suo personaggio, in una regia volutamente statica e muovendosi in uno spazio scenico appositamente ristretto, al limite della claustrofobia.
L’eccezionalità di questo testo – scritto dal drammaturgo contemporaneo Mirko di Martino – sta però, più che nei toni accusatori del personaggio femminile, nella difesa opposta dal marito, a cui l’interpretazione di Fabio Fiori conferisce una naturalezza spaventosa, rassegnata al limite della serenità. «Duemila persone che fanno lo stesso errore non sono criminali», spiega, solo brave persone che la storia ha travolto portandole a fare cose tanto orribili quanto necessarie. Chiunque, al loro posto, avrebbe fatto lo stesso. E mentre difende se stesso accusa la moglie, che come unica reazione si è rifugiata in casa senza più avere il coraggio di uscirne, di denunciare, di testimoniare la verità. La musica con cui Joana tenta di coprire il silenzio della sua colpa, riascoltando continuamente gli stessi brani, non è diversa dalla musica che il giorno del massacro veniva suonata per nascondere il rumore dell’orrore.
Qui la grandezza del testo: il bene e il male si mescolano irrimediabilmente in un vortice di ipocrisia in cui nessuno può considerarsi innocente, la stessa ipocrisia che vede incisa, sul monumento ai caduti, la dicitura «trucidati dai tedeschi», pronta a lavare le coscienze degli abitanti che si sono spartiti case, terre e ricchezze di chi non c’è più.
La Shoah, questa volta, non è nei lager, ma per le strade di un paese qualsiasi.
E nel condannare senza riserve queste «brave persone» impazzite dalla paura riesce in quella che è forse la cosa più pericolosa che uno spettacolo può fare: coinvolgere lo spettatore pur lasciando intatta la quarta parete, gettargli sulle spalle il peso dell’aria chiedendogli tacitamente se nella stessa circostanza sarebbe stato in grado di agire diversamente.
Lo fa senza retorica, con un testo asciutto e diretto, che la regia senza fronzoli di Fabio Fiori rende forse ancora più semplice ed essenziale. Limitandosi a ricordare che, appena lasciamo che ci si divida in noi e loro, siamo già complici.
Elementi di pregio: La scelta di raccontare un episodio poco conosciuto, provocando nello spettatore una forte immedesimazione nel ricordare che Shoah non è solo sinonimo di campi di concentramento; l'interpretazione degli attori.
Limiti: in alcuni momenti si ha la sensazione che il testo sia eccessivamente didascalico; d'altra parte la tematica si presta particolarmente a questo tipo di approccio, generando uno spettacolo che ha in qualche modo - inevitabilmente - anche una funzione educativa.
Visto il 28 febbraio 2018 durante una prova presso lo spazio "Spin Off", Genova
Con Viviana Savà e Fabio Fiori.
Regia di Fabio Fiori.
Testo di Mirko di Martino.
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