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Massimo Milella

Intorno a un fatto di cronaca


La notizia è di parecchi giorni fa. Ci è voluto un po’ di tempo perché ne cogliessi il valore.

A quanto si apprende, a Bari, un uomo di 70 anni senza fissa dimora è stato trovato morto nello spazio occupato dove viveva.

Il pm di turno ha dichiarato, con solerte senso del dovere, che le autorità si sono accertate che l’uomo non sia morto di Coronavirus. La buona notizia è che è morto di morte semplice.

Non mi sono sfuggite le informazioni postume frammentarie che gravavano intorno a quest’uomo, naturalmente. Brevemente, co-fondatore del Teatro Kismet di Bari e di altre formazioni universitarie e sperimentali, artista di strada, amato, odiato, ignorato.

Un uomo amato, odiato, ignorato. Morto di morte semplice.

I termini che ruotano intorno a questa notizia di cronaca sono “artista”, collegato all’espressione “che rifiutava ogni forma di guadagno”, un senzatetto per scelta, un “irregolare” in grado di difendere con orgoglio le proprie scelte senza doversi vincolare a compromessi sociali.

Un puro: Un uomo libero. Amato, odiato, ignorato, morto di morte semplice.

Allora ho letto altre cose. Un articolo in cui si tratteggiava con molta sensibilità una bozza di descrizione di quanto questo artista abbia fatto, inclusi certi aspetti del suo carattere che, in qualche modo, potrebbero farci immaginare che, uno più uno uguale due, se uno finisce per litigare con tutti, poi rimane da solo, quindi ogni numero moltiplicato per zero fa, sempre, irrimediabilmente zero.

Da qualche altra parte, si estendeva il discorso da questo cadavere (non) illustre a quanto la città - il Paese, il mondo globalizzato, il libero mercato - tratti male gli artisti e tagli fuori in modo drammatico chiunque da questo mestiere non ricavi quattrini (meglio, calvinisticamente, chiunque non sia in grado di guadagnarci).

Uno sconfitto. Eccetera, morto di morte semplice.

E ogni volta che guardavo i cerchi concentrici di quest’uomo, mi trovavo a seguire traiettorie sempre più lontane. Lontane nello spazio (fuori Bari, fuori dall’Italia), nel tempo: un ricordo personale.

Per motivi per nulla interessanti nel 2003 vivevo a Lisbona, i miei genitori mi pagavano la retta universitaria e io cercavo di non essere mai a casa: mangiavo alla mensa dell’università, 2 euro al giorno, un’imperial costava 50 centesimi, il cinema 2.80.

Il grosso della spesa era il trasporto (mi pare di ricordare 20 euro circa di abbonamento studentesco alla metro) e l’affitto - prezzi bassi ma sempre alti. Per risparmiare sulla casa, subaffittai la mia stanza a un’altra persona per un periodo, facendomi ospitare la notte da amici. Se proprio non riuscivo a trovare ospitalità, tornavo tardissimo a casa e mi buttavo sul divano, per poi uscire presto di casa e non dare fastidio ai coinquilini già con una persona in più.

In quel periodo, mi sentivo molto vicino ai senzatetto che in Portogallo si chiamano “senza cappotto”, sem abrigo, almeno così mi dissero.

Mi unii a una famosa associazione internazionale di volontariato cattolica che distribuiva cibo e coperte ai senzatetto del quartiere in cui vivevo. Le prime due volte andai con loro per scoprire dove vivessero esattamente queste persone e in quali orari avrei potuto trovarle. Dopodiché, decisi di fare da solo. Compravo le cose che avevo capito andassero bene per chi non aveva denti o ne aveva pochi e non avrebbe potuto trovare un dentista a buon mercato e, in generale, senza fare lo spiritoso, tutto quel cibo che poteva essere accettabile per il mio portafoglio. Poi facevo il giro, in orari diversi da quelli dell’associazione. E restavo con loro. Mi accorgevo che, senza il “cappotto” dell’associazione, questi uomini - e pochissime donne - erano più liberi di esprimersi e mostravano senza problemi il vino in cartone - che invece di fronte alle buone signore del vicinato nascondevano ringraziando per i cartoni di latte. Per quanto io fossi con loro e loro non fossero mai aggressivi con me, nulla della mia condizione poteva davvero interessare a queste persone, non il mio accento straniero, non il fatto che fossi uno studente, non la mia idea di andarli a conoscere.

Una sera, ero seduto con dei russi che tra loro parlavano portoghese e bevevano, nonostante le mie offerte di latte e formaggio a fette e cose così, vino da discount. Uno di loro parlava forte, era il capo, rispettato da tutti. C’era anche una donna, irreparabilmente anziana a prescindere dalla sua età, con pochi denti e molte bestemmie tenute in serbo per il dio che la abitava consumandola dall’interno.

A un certo punto arrivò un uomo completamente ubriaco, probabilmente portoghese, che sbraitò con il gruppo con cui ero, agitò le dita come coltelli, poi si abbassò i pantaloni e disse qualcosa a proposito del fatto che avrebbe voluto fare pipì, non ricordo se su di loro o in generale. Allora il russo più carismatico “dovette” alzarsi - non ne aveva voglia, non aveva voglia di niente - e lo prese, pesantemente, buttandolo per terra, abbracciandolo in una morsa annoiata e mortale. Nessun movimento era consentito con una presa così. Nessuno si fece male. Non successe niente, a parte le urla. Mi agitai molto e rimasi seduto e sapevo, perché avevo studiato, che era un ossimoro. Quella sensazione la riconobbi molte altre volte nella mia vita, quell’ostentazione, quella paura.

La signora bestemmiava ancora, solo un po’ più forte, non lo faceva più per sé, aveva un raggio più largo, la sua bestemmia diventava un cerchio in cui rientravano tutti, rientravamo tutti. Davanti a noi, una strada per niente trafficata, defilata vicino Cais do Sodrè, sotto di noi, gli scalini di un grande edificio pubblico abbandonato.

L’ubriaco fu aiutato a rimettersi i pantaloni dalle altre ombre di cui non ho alcun ricordo.

Io non mi mossi. Il russo carismatico si tirò su come un uomo sportivo ormai troppo fuori allenamento, scaricando male il peso sulle ginocchia, sulle braccia. Si era fatto male alle mani, sfregandole con l’asfalto.

Arrivò il tempo di ritornare tutti alla normalità, ubriaco compreso che si sedette un po’ lontano da loro, ma con loro, con noi insomma.

Allora il russo carismatico prese dei bicchieri di carta e lentamente versò il vino per quasi tutti, qualcuno non volle, qualcuno era troppo stanco per seguire la situazione, l’anziana signora era come invisibile, nessuno la coinvolgeva, né lei si mostrava interattiva rispetto a ciò che stavamo facendo.

Diede un bicchiere anche a me. Pensai: “Che senso ha se bevo il vino con loro e poi porto il latte?”. Ossimoro etico.

Naturalmente accettai, perché era bello che mi includessero, presi il bicchiere. L'uomo aveva una luce gialla in faccia che era quella della sera, perché nel frattempo il tramonto era caduto nel Tejo e mi resi conto che era da molto tempo che mi trovavo lì.

Volle fare un rapido discorso, guardandomi negli occhi: “Oggi a me, domani a te”.

Gli altri risero, alcuni, non tutti, l’ubriaco ricevette il suo bicchiere posato delicatamente di fianco a lui, ma non troppo vicino, in modo che non lo facesse cadere con un movimento sbagliato.

Io bevvi, ovvero posai le mie labbra su quel bicchiere, pensai che quello non era propriamente il massimo dell’igiene, ma ritenni che quel gesto era veramente il minimo che potessi fare e, temo di ricordare, il massimo che ero disposto a fare.

Era il mio limite.

Ed era finita la serata, piena di avvenimenti. Tornai a casa mia, loro erano già a casa loro.

Continuai a portare il cibo ai senzatetto, da solo, ma non andai più da loro.

Perché pensavo che mi avrebbero offerto ancora da bere e non volevo più. E forse pensavo che lì mi ci sarei fermato anche la notte e il giorno dopo, e quello dopo ancora, sugli scalini di questo fantasma di ferro e cemento. E invece io nel cuore, oltre che la strada, avevo il teatro e con il teatro avrei voluto pagarmi il mondo.

Facevo le prove di uno spettacolo di Von Mayerburg con un gruppo della facoltà di lettere di Lisbona, tutte le sere, dal lunedì al venerdì, dopo la mensa universitaria, dalle 9 alle 11. Prendevo l’ultima metro e raggiungevo chi volevo o dovevo raggiungere.

I viaggi in metro erano la misura del mio amore per la vita che facevo, i sogni che coltivava, gli equilibri che cercavo.

E la metro di Lisbona ripercorreva i suoi cerchi concentrici e mi riportava alla mia notizia di cronaca.

Al cadavere di un uomo sul quale il pm d’ufficio ha fatto verificare l’esistenza di un virus che i militari, i social network, il consumismo dilagante, alimentare o meno, e il personale sanitario stanno combattendo al posto nostro.

Noi in cambio non dobbiamo fare niente, solo comprare e tenerci informati per non incappare in multe e processi. E lavorare.

E guardo meglio, non ci sono più cerchi concentrici.

L’acqua è immobile, il cadavere del teatrante è sul pelo, a galla, senza vita, e sarebbe bello, per un’inquadratura da serie di Netflix con un bel drone, se fosse con gli occhi spalancati verso l’alto, verso il cielo, dove noi stiamo cercando da secoli di arrivare, invece il suo corpo enorme di senzatetto, sformato come si vede in certe fotografie impietose che vogliono a tutti i costi farci immaginare tutto quello che le parole suggeriscono, didascalicamente, è tutto rivolto verso il fondo del mare. Con le braccia larghe e lo sguardo negato a chi vive sulla superficie illuminata del mondo.

Immagino come quest’uomo di 70 anni che viveva nell’ex Caserma Rossani, fortunatamente non più una caserma ma uno spazio occupato, avrebbe affrontato la chiusura dei teatri e il fervore - la febbre - dell’attesa, il dibattito sulla necessità di una comunicazione tra il teatro e il suo pubblico, il dinamismo mediatico, l’oblio, il terrore, i progetti di “espatrio”, gli inviti a unirsi, a ragionare, i distinguo, Gabriele Lavia che vuole i suoi soldi, il pubblico invitato dagli stabili a rinunciare ai propri biglietti perduti per dare una mano, anzi, in termini più moderni, per “contribuire”, infine i drammi di qualcuno che, in silenzio, senza dirlo ai social, sta anche meditando alla fine dei propri giorni, non solo artistici. Perché ci sono anche questi e, si sa, in emergenza non ci si può occupare di nessuno in particolare.

In emergenza sanitaria, se siamo malati, diventiamo tutti numeri; se risultiamo sani (o asintomatici) costituiamo una massa da tenere a bada con la polizia - o da ricattare sui posti di lavoro.

Io non lo conoscevo quest’uomo di 70 anni che ha fondato il Kismet e avrebbe rinunciato al guadagno per vivere come viveva.

Ma credo che la distribuzione dei fondi ai teatri debba essere rivista profondamente, che il decreto di finanziamento basato sullo sbigliettamento sia sbagliato, che gli stabili devono tornare a cercare davvero il loro pubblico PRIMA di chiedere i fondi allo stato e devono farlo realizzando dei progetti artistici veri, innovativi anche nel cosiddetto solco della tradizione, investendo su tecnici, organizzatori, drammaturghi, coreografi, registi, eserciti di attori e danzatori, intervenendo attivamente sull'occupazione di chi lavora nel teatro, senza delegare alla opportunistica "formazione", sposando direzioni artistiche pluralistiche e collaborative, aperte a progetti diversi che non siano “la propria idea di teatro” e basta. Credo che il concetto di “abbonamento” sia una furbizia preventiva priva di amore, credo che gli scambi di spettacoli tra i teatri siano una procedura ormai strumentalizzata e indirizzino le strategie produttive verso un imbottigliamento che costringe i giovani artisti ad essere ricchi di famiglia oppure emarginati, in entrambi i casi troppo, troppo ricattabili.

Mi viene in mente che il grande Tonino Conte sia morto nelle stesse ore, più o meno, di quest'uomo di Bari. Nei giorni successivi, Conte è stato, giustamente, celebrato come un grande Signore del Teatro.

Credo che Tonino Conte, che non aveva ancora 85 anni ed è morto amato e rispettato da tutti, e quel signore morto a Bari a 70 che invece qualche sensazionale media ha voluto infilare subito nel cassettino dei santi poveri dell’arte, abbiano molte, moltissime cose in comune, a prescindere dalle fiabe che vogliano o vogliamo raccontarci sull’uno o sull’altro.

Per esempio che, così com’è, il sistema produttivo del teatro, qualsiasi bellissima iniziativa sia inventata sui social network per intercettare la realtà del pubblico e recepita da artisti di ogni genere impegnati in vario e creativo modo, vada cambiato dalle sue fondamenta, sradicato, ripensato, perché è finito. Finito, portandosi dietro tutta la purezza, l’opportunismo, l’avventurismo, la fantasia pratica di chi, come questi splendidi personaggi - ma potremmo citare anche il Collettivo di Parma e tantissimi altri - letteralmente “si prese” degli spazi per fare teatro e, attraverso l'arte, il coraggio e i compromessi con la società del suo tempo, si costruì un pubblico.

E solo dopo, com’è nella natura dell’essere umano, non solo in epoca di libero mercato, questo costituì un sistema e il sistema,che per definizione tira su dei muri, negli anni è diventato semplice difesa di privilegi e di potere.

Ora, bisogna proprio letteralmente “assaltarlo” quel potere, prendendosi tutti gli spazi pubblici possibili, rinunciando a ogni forma di potere e di finanziamento pubblico in una forma di sciopero collettivo a oltranza, ma collettivo davvero, e riscrivendo le regole del gioco, da capo, abbattendo quei muri invecchiati. E il primo che difenderà un privilegio avrà fatto perdere tutti gli altri.

Quell’uomo di 70 anni trovato morto nell’ex Caserma Rossani si chiamava Vittorio Cosentino e io non lo conoscevo ma lo rispetto profondamente, avrei voluto vederlo recitare e non credo minimamente ad alcuna delle cose che hanno scritto di lui, nel bene e nel male, così come non credo che la foto in cui è immortalato ne dia un’idea autentica: quella con un maglione rosso con un vistosissimo buco, proprio come ci immaginiamo gli artisti poveri da centinaia d’anni, che fungano come monito ai giovani che, invece, artisti lo vorrebbero diventare.

Se non accetti compromessi, diventerai come lui, caro il mio attore, cara la mia attrice, ventenni. Ma questo maglione col buco è un costume di scena, evidentemente.

Perché per me gli artisti sono nudi, sono amati, odiati e ignorati e muoiono di una morte semplice.

Senza nulla da aggiungere.

P. S. : Sapete cosa (non) ha detto Vittorio Cosentino al solerte pm d’ufficio che disponeva gli accertamenti per il Coronavirus nel suo corpo?

Ha detto “Oggi a me, domani a te”.

E non si riferiva certo al coronavirus, né al malcapitato pm.

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