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Biennale di Venezia 2025 | L’ombra di Cartesio

  • Immagine del redattore: Matteo Valentini
    Matteo Valentini
  • 20 giu
  • Tempo di lettura: 5 min

Ancora tu Non mi sorprende, lo sai

 (Ancora tu, Lucio Battisti)

 

Non è sufficiente un fine settimana per cogliere lo spirito di un’intera edizione della Biennale Teatro. Specie se il direttore è al suo primo anno di incarico. Specie se chi scrive lo ha visto recitare soltanto nei panni di Norman Osborn (e quindi del Goblin) in Spiderman di Sam Raimi. Chi scrive, allora, si scusa con Willem Dafoe; con il Leone D’Oro da lui nominato, Elizabeth LeCompte; con Richard Schechner, dal cui Performance Group nacque il Wooster Group, co-fondato tra gli anni ’70 e ‘80 proprio da Dafoe e LeCompte.  

 

«40.000 anni di evoluzione e abbiamo appena intaccato l’enormità del potenziale umano», dice tra sé Norman Osborn nelle scene iniziali del film, prima di ingurgitare l’“incrementatore di prestazioni” che lui e il team della compagnia Oscorp stanno sperimentando per conto dell’esercito degli Stati Uniti. L’incrementatore di prestazioni, o Performance Enhancer, è un fluido concepito per centuplicare la forza e la resistenza dei soldati statunitensi (il film esce nel 2002, quasi un anno prima dello scoppio della Guerra in Iraq). Per sconfessare i dubbi dei committenti, legati alla sua instabilità, Osborn testa il composto su di sé, trasformandosi involontariamente nel Goblin

 

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Willem Defoe in una scena di Spiderman di Sam Raimi

La sua vicenda, così come quella di Peter Parker, intreccia il tema della corporeità a quello del progresso scientifico e rielabora in chiave pop le esaltazioni e le inquietudini che attraversavano l’atmosfera del cosiddetto Postumano, sviluppatasi a partire dai primi anni ‘90.  L’evoluzione della manipolazione del DNA, il dibattito intorno alla clonazione (la pecora Dolly era “nata” nel 1996), lo sdoganamento della chirurgia estetica, dell’uso di droghe e di antidepressivi, la diffusa attenzione per il fitness, le sperimentazioni artistiche di Orlan, Stelarc, Cindy Sherman, tutto portava a considerare il corpo come qualcosa da trasformare artificialmente, allontanandolo dalla schiavitù della decadenza, della malattia, della paura. Un corpo modificabile attraverso i nuovi ritrovati della scienza o, più in generale, della cultura. 

  

Willem Defoe in una scena di Spiderman di Sam Raimi
Willem Defoe in una scena di Spiderman di Sam Raimi

«In un momento storico in cui ci affidiamo sempre più all’intelligenza artificiale, voglio concentrarmi sull’elemento di resistenza umana: l’intelligenza del corpo. Il teatro è corpo. Vorrei creare la possibilità di conoscenza attraverso la presenza»: così scrive Dafoe nel catalogo di questa 53esima edizione della Biennale, idealmente rispondendo alla superbia scientista del suo villain di più di vent’anni fa. Dietro al basilare desiderio di aderenza a uno dei principi fondativi del teatro, ossia il corpo dell’attore, si intravede un’inversione di marcia concettuale rispetto al Dafoe postumano: pur non essendo messa in discussione sul piano valoriale, la conoscenza non investe il corpo umano, non lo informa, ma si sviluppa a partire da esso. Non è la cultura che modifica il corpo, ma è quest’ultimo a divenire cultura: Theatre is Body. Body is Poetry recita il titolo della presente edizione.

 

È per questo che uno dei suoi punti nodali sembra essere quello sulla possibilità del corpo di significare qualcosa, sulla sua opportunità di inviare messaggi, sul suo rapporto con il linguaggio. «Non ho un discorso da fare», scrive Romeo Castellucci nella nota che accompagna I mangiatori di patate. E in effetti la sua performance, in scena al Lazzaretto vecchio, mantiene una certa distanza dall’emissione di significati. Anzi, all’interno degli spazi deserti, oscuri, infernali del Lazzaretto, Castellucci affastella immagini simboliche di cui è perduto ogni riferimento: sta allo spettatore scegliere se cercare un filo tra il riferimento a Van Gogh, l’iconografia cristologica, le processioni di minatori, i momenti di glossolalia di Laura Pante, oppure se farsene semplice ricettore epidermico, privo di qualsiasi smania interpretativa.

 

I mangiatori di patate | Foto di Andrea Avezzù
I mangiatori di patate | Foto di Andrea Avezzù

È necessario affrontare una scelta simile di fronte a No Title (An Experiment), tributo di Willem Dafoe e Simonetta Solder a Richard Foreman, esponente del teatro sperimentale statunitense con cui Dafoe è stato in contatto artistico e umano fino al gennaio 2025, data della sua morte. La lettura forsennata e reiterata di brevi frasi apodittiche, tratte da cartoline di 7x12 centimetri, è la ripresa di un’idea che Foreman aveva avuto negli ultimi anni di vita, in cui espressioni come «Don’t wait: be a genius now», «The king is dead» o «Language is a bitch», a forza di essere ripetute, ogni volta in ordine diverso e casuale, mostrano la corda e smettono di recare con sé un qualche significato, divenendo suoni puri, inutili, inerti a qualsiasi ermeneutica, del tutto assimilabili alla massa di cocci di bottiglia assiepata intorno allo spazio scenico. Dafoe, nel catalogo, ricorda un’indicazione dello stesso Foreman che diceva di muoversi «come se il palco fosse coperto di vetri rotti», ossia senza abbandonarsi al personaggio che si sta impersonando.

 

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No Title (An Experiment)| Foto di Andrea Avezzù

Un rilievo che possiamo attribuire anche alla direzione di Thomas Ostermeier in Changes. I due interpreti del dramma, Jörg Hartmann e Anna Schudt, infatti, passano attraverso 21 ruoli senza soluzione di continuità, non solo interrompendo frasi a metà o cambiandone il contesto in corsa, ma anche rompendo continuamente la quarta parete – che nello storico Teatro Goldoni è piuttosto robusta – con sghignazzi, improvvisazioni (denunciate dall’assenza di sottotitoli dal tedesco) e interlocuzioni con il pubblico. «Lo scandalo oggi sta nel mettere davanti al pubblico la spietata verità di un corpo in scena», afferma il regista in un’intervista presente nel catalogo. In effetti, nell’intrico degli oggetti, delle giacche e delle parrucche i due interpreti spiccano nella loro umanità, estraniandosi dalla vicenda che stanno raccontando e mostrandola nella sua alterità, in un’esperienza di shock e consapevolezza spettatoriale, tipica del teatro brechtiano che Ostermeier ha sperimentato nei primi anni ’90 al Berliner Ensemble.

 

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Changes | Foto di Andrea Avezzù

Non è sufficiente un fine settimana per cogliere lo spirito di un’intera edizione della Biennale Teatro. In questo tempo, tuttavia, possono emergere alcune domande. Considerando i nuovi traguardi della civiltà dell’immagine e le questioni che aprono rispetto a cosa sia reale, cosa tangibile, cosa verosimile, si ha l’impressione che la rivendicazione di una verità insita nel corpo fisico dell’attore, per parafrasare il presidente della Biennale, Pietrangelo Buttafuoco, rischi di essere ideologica e di confortante retroguardia. Ci si chiede poi quale ruolo effettivamente rivesta questo corpo fisico nella preminenza che qui gli è concessa. L’esaltazione della carnalità non lo riporta alla “supermarionetta” del teatro sperimentale, da manovrare e riempire – o svuotare – di significati? L’insistenza sulla materialità del corpo, nella sua contrapposizione all’artificiale, alla finzione, al postumano, non rimarca, pur ribaltandola, la tradizionale divisione cartesiana tra mente e corpo, pensiero e azione, figlia di una visione, ancora e per sempre, centrata sull’occidente? Non possiamo andare più lontano?  


Spettacoli visti il 7 e 8 giugno 2025.

Per i crediti completi e maggiori informazioni consultare i link sotto riportati


I mangiatori di patate di Romeo Castellucci – Societas


No Title (An Experiment) di Willem Dafoe e Simonetta Solder


Changes di Thomas Ostermeier


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oca, oche, critica teatrale
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