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  • Marco Gandolfi

Das Kaffeehaus


Scena da Das Kaffeehaus

Das Kaffeehaus è la rilettura da parte del regista e drammaturgo Rainer Werner Fassbinder del testo originario di Carlo Goldoni La bottega del Caffè del 1750. A più di due secoli di distanza Fassbinder estrae dalla commedia carnevalesca una sua lugubre variante, che ne mantiene in gran parte il rocambolesco intreccio, ma ne rovescia il senso, esponendone gli snodi di potere che governano i rapporti tra i personaggi.

La vicenda, ambientata a Venezia, ruota attorno alla bottega del caffè del titolo, centro di socializzazione su cui convergono tutti i personaggi. La passione per il gioco, le grettezze, le generosità, gli intrighi di coppia, e i tradimenti; insomma tutto l'universo umano viene descritto attraverso il prisma del pettegolezzo nella bottega. La galleria di personaggi goldoniani perde ogni levità nella trasposizione di Fassbinder che produce una cerebrale e geometrica analisi delle passioni e dei rapporti di potere tra gli esseri umani; così emerge prepotente e centrale il vero protagonista dell'opera: il denaro. La lucidità disperata con cui Fassbinder fissa i personaggi alla loro parabola ricorda a tratti il senso di inevitabilità di una prova più tarda del regista, Martha: assenti invece sono i toni del melò, altro colore tipico della sua tavolozza. Non è d'altra parte sorprendente questo esito, frutto del suo incontro con lo spirito di osservazione penetrante di Goldoni.

La vicenda resta a grandi linee la stessa dell'originale: due coppie marito e moglie insidiate e rovinate dal vizio del gioco. Una intrattenitrice che sogna un insperato riscatto, e viene illusa. Un faccendiere che mette il naso ovunque. E padrone e servitore alla bottega del caffè, spettatori attivi di questo dramma, lieve e a lieto fine in Goldoni, cupo e irrisolto nella riscrittura.

L'ossessione quantitativa per il denaro è ben definita nella declamazione compulsiva delle cifre, convertite in valute diverse, ad ogni istante, per designare ogni cosa: il valore di un debito di gioco, di una prestazione sessuale, di una rendita, di una dote, e di un caffè. O di un gioiello dato in pegno: perché appunto è questa dinamica del dare/avere che sembra ossessionare - ancora è l'unico verbo da usare - Fassbinder. Se esisteva una levità distaccata in Goldoni, qui c'è solo una geometrica analisi dei rapporti di forza e di dipendenza. Il vizio del gioco che governa vincitori e vinti; matrimoni che si rompono; gelosie e bassezze. Nell'universo di Fassbinder non si salva (quasi) nessuno, anche la generosità disinteressata sembra poi solo una maschera per una passione.

La scelta registica e di adattamento di Veronica Cruciani è funzionale alla volgarizzazione operata dal testo: l'intento di Fassbinder è disumanizzare, mostrare senza pietà un meccanismo di forze; il taglio dato a questo adattamento va in questa direzione, supportato da una efficace gelida scenografia (Barbara Bessi), e da un supporto sonoro presente, protagonista ma non invadente (Riccardo Fazi). Particolarmente efficace la decisione di mostrare in scena come inquietanti manichini mascherati i personaggi fuori scena: le maschere sui volti e l'uso della luce creano un'atmosfera ansiogena.

La recitazione si uniforma a questa impostazione drammaturgica, con un buon livello di coesione di intenti. Particolarmente apprezzabili Ester Galazzi nel ruolo di Lisaura e, soprattutto, Francesco Migliaccio in quello di don Marzio.

La scelta di inserire nel cartellone del Teatro Stabile di Genova la rilettura/stravolgimento di Fassbinder del testo goldoniano è coraggiosa e apprezzabile: fa da controcanto alle popolari riproposizioni del Goldoni classico spesso in cartellone. Spiazza il pubblico, ma lo stimola nella riflessione. «Lo sfruttamento dei sentimenti all’interno del sistema in cui viviamo è perno intorno al quale ruota non solo questo testo ma tutto il lavoro di Fassbinder» commenta la regista. Più in particolare sulle scelte di regia continua: «Il lavoro della regia come per tutti gli altri elementi dello spettacolo, sottolinea l’andamento drammaturgico del testo di Fassbinder: un graduale, lento, inesorabile smascheramento di un’apparente situazione iniziale di festa e svago, che si rivela sempre di più per quello che è veramente, ovverosia l’immagine nuda e crudele dell’incontro/scontro di un gruppo di persone guidate dalla brama di denaro e potere».

Questa versione di Das Kaffeehaus è particolarmente riuscita per coerenza di visione e spregiudicata mancanza di compromessi: una impostazione molto cerebrale, fredda, quasi a programma nel senso musicale, ma che rispetta l'ideologia di Fassbinder. E' un teatro di testa più che di cuore, ma è di alta qualità. Questa intransigenza è anche il suo confine: chi cerca un coinvolgimento emotivo non lo troverà nelle pieghe di questo spartito.

Elementi di pregio: la coerenza della messa in scena nella fedeltà all'impostazione di Fassbinder.

Limiti: la fredda impostazione cerebrale può essere indigesta a chi cerca un coinvolgimento emotivo invece di una dimostrazione.

Visto il 16 dicembre 2017 al Teatro della Corte

Spettacolo prodotto dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia

con Filippo Borghi, Ester Galazzi, Andrea Germani, Lara Komar, Riccardo Maranzana, Francesco Migliaccio, Maria Grazia Plos, Ivan Zerbinati (attore ospite) e Mauro Malinverno

diretti da Veronica Cruciani.

Scena e costumi di Barbara Bessi

Drammaturgia sonora di Riccardo Fazi

Luci di Gianni Staropoli.

Versione italiana di Renato Giordano.

oca, oche, critica teatrale
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