Mi fanno male le mani. È così che mi accorgo di essere di nuovo al Teatro della Tosse, precisamente nel piccolo covo della Sala Campana. Mi fanno male le mani perché le sto battendo forte da qualche minuto, un palmo contro l’altro, con quel lieve pizzicore che si dirama lungo, fin sulle dita, e che mi mancava. Mi mancava questo gesto pubblico, questo gesto collettivo: confondere il mio schiocco di nacchera in mezzo a quello di tanti altri. Ed è stato un suono gioioso, e vivamente partecipato, quello dell’applauso dedicato alla replica del 7 maggio di Art, opera della mattatrice Yasmina Reza, celebre drammaturga francese de Il dio del massacro.
La trama è a dir poco semplice, l’ambientazione lineare, il cast ridottissimo: tre amici, Marc, Serge e Yvan, e un quadro interamente bianco. I tre uomini sono colti in quella fase della vita in cui è difficile sbarazzarsi delle memorie condivise e sanguinosi tributi vanno offerti alle voraci divinità dell’amicizia. Il vulnerabile, accomodante e “vigliacco” Yvan sta metabolizzando la conferma di una vita destinata al fallimento, dove la madre assillante verrà sostituita a breve da una moglie tirannica e dove le sue ultime prospettive lavorative vengono condannate in via definitiva; Marc invece è l’amico al vetriolo, quello il cui immancabile giudizio è pronto a calare come una scure sulla testa di tutti, amici e nemici; distinzione che sembra diventargli estranea nel momento stesso in cui scopre che Serge – il suo protetto, l’ammiccante, devoto Serge – ha speso un patrimonio per comprare un quadro totalmente bianco.
Questo è l’evento-oggetto scatenante dell’intera vicenda, che vede i tre amici catapultati in un’arena dove le vere protagoniste sono le molteplici rifrazioni delle loro personalità in conflitto. Assistiamo a uno scontro tra gladiatori e leoni da salotto: un trio all’apparenza bidimensionale, che ci immagineremmo inoffensivo come un triangolo equilatero, si trasforma così in un prisma delirante e mutaforma, come ben riescono a sottolineare le sapienti luci di Matteo Selis, in grado di far deflagrare i recinti scenici iniziali in un congegno elegantemente stroboscopico e ambivalente. Nella non accettazione dell’acquisto del quadro bianco da parte di Marc in realtà si cela il rifiuto dell’inedito, del non programmato, dello scarto tra l’aspettativa riposta negli amici e la realtà delle loro azioni. Serge, il più benestante e snob dei tre, sembra deliberatamente ignorare l’assurdità del proprio gesto, tra l’ira sempre meno controllabile di Marc e l'accondiscendenza confusa e bullizzata dell’arlecchinesco Yvan, in un climax di accuse ed equivoci che trascina il pubblico a un’ilarità irrefrenabile. Merito sicuramente di una regia asciutta, che ha permesso di evidenziare le brillanti capacità attoriali dei tre interpreti: impossibile anche solo pensare di invertirne le parti, tale è stata l’abilità sartoriale con cui si sono cuciti addosso i propri personaggi.
Il testo rimane comunque il grande protagonista di questa messa in scena dal ritmo intelligente, dove ci ritroviamo a empatizzare – talvolta contemporaneamente - con i tre personaggi. Sulla scena il quadro bianco assume un ruolo espiatorio, divenendo lo specchio deformante dei desideri e timori di chi lo guarda, e delle proprie proiezioni sugli altri, tanto da far apparire Dorian Gray un dilettante. Ma alla fine della piéce ci aspetta un epilogo conciliante, o meglio, astuto: una sorta di compromesso ontologico, dove il quadro si trova infine a rappresentare simbolicamente il momento appena successivo a una scena avvenuta idealmente poco prima e densa di significato (spoiler alert: in questo caso, secondo la visione del caparbio Marc, uno sciatore che scende su una pista durante una nevicata): in breve, il fatto che gli venga attribuito un significato condiviso, rende ciò che (non) si vede più accettabile. E non è forse proprio questo il fine ultimo della cultura, dell’arte e, perché no, dell’amicizia stessa?
Il mio amico Serge, che è mio amico da molto tempo, ha comprato un quadro.
È una tela di circa un metro e sessanta per uno e venti.
Raffigura un uomo che attraversa lo spazio e poi scompare.
Eccola, la versione di Marc, e – forse – il testamento precoce della stessa Reza: una delle metafore più belle che siano mai state usate per raccontare quello che accade su un palco.
Punti di forza: Attori brillanti, in grado di sostenere il ritmo incalzante e ipnotico di un testo poliedrico.
Limiti: L’arco narrativo è forzato in una direzione abbastanza monodimensionale, il che a lungo andare rischia di rendere i personaggi molto caricaturali. Ma questo rischio è gestibile, vista la natura da commedia della piéce, e può essere calibrato a livello di regia e di recitazione (come è avvenuto in questo caso). La posizione laterale del quadro/schermo bianco non mi ha convinto del tutto.
Visto al Teatro della Tosse, il 7 maggio 2021
di Yasmina Reza
Traduzione Federica Di Lella Lorenza Di Lella – Adelphi
Produzione Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse
Regia e scene Emanuele Conte Costumi Daniela De Blasio Luci Matteo Selis Assistente alla regia Alessio Aronne Con Luca Mammoli, Enrico Pittaluga, Graziano Sirressi di Generazione Disagio
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