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  • Marta Cristofanini

Cenerentola | La rivincita della Fiaba


È sabato sera, e il Teatro Modena pullula di bambine e bambini: ci sono genitori, nonne, nonni, fratelli, sorelle, la platea è immersa in un vociare allegro, disordinato, e mentre mi siedo penso che sì, era proprio questo quello di cui avevo bisogno. Ed è forse questo il motivo per cui mi sono lasciata prendere per mano da questa Cenerentola, quando ha fatto capolino dalla stagione ragazzi del Teatro Nazionale: per conoscere finalmente Zaches Teatro, e per confondermi in questa boscaglia di occhi nuovi e luminosi. Quando andare a teatro era un po’ come andare a una festa, era un po’ come una magia. E di magia, in questa Cenerentola, ce n’è stata molta.


Cenerentola_Foto di Guido Mencari
Foto di Guido Mencari

Comincio subito con il dire che in questa messa in scena della fiaba – una delle più antiche al mondo, se ne contano almeno trecento versioni diverse – non ci sono topini che cantano e non ci sono Fate Madrine; la scelta registica è quella di escludere dalla presenza in scena anche le sorellastre e la matrigna, nonostante siano personaggi presenti (vocalmente, e in dialetto napoletano) nella prospettiva narrativa adottata dalla regista e drammaturga della compagnia, Luana Gramegna.


In scena abbiamo due danzattrici e un danzattore, rigorosamente vestiti di nero – un classico del teatro di figura – e quattro personaggi, interpretati alternativamente da pupazzi e dalle attrici stesse: tre corvi/streghe che fungono sia da Coro sia da cornice e commento narrativo del racconto, e naturalmente Cenerentola.

L’atmosfera è notturna, evocativa: coltri di fumo esondano costanti dal centro della scena, un fumo che è sia quello del caminetto interno tenuto sempre acceso da Cenerentola, sia quello della nebbia esterna, una nebbia vagabonda, minacciosa e salvifica allo stesso tempo. L’ambivalenza degli oggetti di scena ha un intento drammaturgico preciso, fedele al messaggio intrinseco presente in ogni fiaba: nel bene c’è un po’ di male e in ogni male c’è un po’ di bene. Questo è lo starter pack di ogni aspirante narratore di fiabe (il regista giapponese Hayao Miyazaki lo sa bene), o sicuramente lo è stato per i fratelli Grimm.


Il substrato profondo della fiaba antica si contraddistingue per una vibrante inquietudine, che pervade ogni aspetto della narrazione, anche a livello inconscio: in questa produzione di Zaches Teatro, e credo in generale nella loro recente ricerca sulla fiaba a cui si riconducono anche i due precedenti lavori, Pinocchio e Cappuccetto Rosso, abbiamo la resa scenica di questi stati ipnotici del racconto orale, a cui le tecniche evocative del teatro di figura e la poesia di quello d’ombra si prestano particolarmente, mescolandosi in una partitura misurata grazie alla bravura fisica e vocale degli interpreti. Oltre a muovere e a dare voce ai pupazzi che rappresentanto Cenerentola e i corvi narratori, c’è spazio anche per delle vere e proprie partiture fisiche danzate che richiamano il linguaggio del teatrodanza.


La storia qui raccontata attinge la propria origine da un’altra mescolanza: quella tra la versione dei fratelli Grimm e della Gatta Cenerentola di Basile. La protagonista è un’orfana di madre che viene segregata nella cucina dalla nuova sposa del padre e dalle sorellastre; Cenerentola (che prende il nome dalla crasi tra le parole cenere e pentola) passa la propria vita a cucinare, ravvivare il fuoco, fare il bucato e spazzare via la cenere del caminetto, tenuta ostaggio dalla famiglia acquisita, dimenticata dal padre. Riguardo la misteriosa figura paterna, ho trovato interessante un inserto narrativo inusuale, in cui – attraverso un immaginifico flashback – si fa profeticamente riferimento a una sorta di maledizione che Cenerentola avrebbe involontariamente scagliato contro il proprio padre, impedendogli di fare ritorno a casa e forse procurandogli la morte in un naufragio.


Questo, oltre a essere un elemento drammaturgico che ispessisce la figura spesso vittimizzata e passiva di Cenerentola, dandole una colorazione ambigua, stregata, si ricollega anche al finale dello spettacolo: Cenerentola, che nel subire i maltrattamenti si rifugia costantemente in sogni ad occhi aperti, concretizzati delicatamente anche davanti ai nostri, a un certo punto sembra perdersi nella rabbia e in un sentimento d’ingiustizia incontenibile e, nel farlo, si trasforma.


Cenerentola_Foto di Massimiliano Mascagni
Foto di Massimiliano Mascagni

Scenicamente potremmo dire che diventa una bambina vera, nel senso letterale del termine: è infatti una delle attrici che ne assume infine le sembianze in carne e ossa (fino ad ora era stata una sorta di marionetta-burattino ispirata alla tradizionale forma d’arte giapponese, il bunraku) per recarsi al ballo del principe, prendersi ciò che le spetta – i propri sogni – e andarsene via sbeffeggiando il “e vissero felici e contenti” che noi tutti conosciamo. Consapevole di sé e della propria storia, Cenerentola si slaccia le scarpe, lasciandone una davanti al palazzo, e lanciando via l’altra nel folto del bosco: a chi importa essere trovata, una volta che si è conquistata finalmente la libertà?


È insomma l’apice di un sentimento di rivalsa, di rinascita: un finale rivoluzionario che decreta la rivincita di Cenerentola, e della fiaba in generale.

Il pregio di questo lavoro sta infatti non solo nella sua messa in scena accuratissima e dal sublime talento artigianale (come non sottolineare la maestria di Francesco Givone in questo?), ma anche nel suo essere una sintesi ideale di quello che è il percorso non solo di Cenerentola, ma della Fiaba stessa. Significato e significante combaciano nel modo più puro, facendo emergere quello che è uno degli obbiettivi della narrazione fiabesca secondo lo psicoanalista Bruno Bettelheim, e che qui condivido:

“(...) la forma e la struttura delle fiabe suggeriscono al bambino immagini per mezzo delle quali egli può strutturare i propri sogni ad occhi aperti e con essi dare una migliore direzione alla propria vita.”

...

“Tutte le storie finora prese in considerazione indicano che se si vuole acquisire una propria personalità, raggiungere l’integrità e assicurarsi la propria identità, è necessario attraversare difficili sviluppi: sopportare privazioni, affrontare pericoli, conseguire vittorie. Solo in questo modo è possibile diventare padrone del proprio destino e conquistarsi il proprio regno.”

[Bruno Bettelheim, Il mondo incantato: uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (1977)]

Dare una migliore direzione alla propria vita attraverso il sogno, diventare padrona del proprio destino: è quello che fa Cenerentola, scappando via dal palco, in mezzo alla platea, seguita dallo sguardo sorpreso, ammirato, di tutti noi.

Visto il 22 gennaio al Teatro Modena.

Pregi: la rivisitazione drammaturgica che coglie l’opportunità di riapprofondire il tema della fiaba in un senso più ampio e fedele alle origini; l’eccezionalità dei costumi, delle luci, della scenografia; la bravura e instancabilità degli interpreti.

Limiti: Soprattutto all’inizio dello spettacolo, il tappeto sonoro costituito da rumori ambientali ha un po’ intralciato le voce degli attori, soprattutto quella più flebile di Cenerentola. Il finale, a livello di inserimento ritmico nello spettacolo, scivola via forse un po’ troppo velocemente rispetto a tutto il resto.

Regia, drammaturgia, coreografia Luana Gramegna

Scene, luci, costumi, maschere e pupazzi Francesco Givone

Progetto sonoro e musiche originali Stefano Ciardi

Con Gianluca Gabriele, Amalia Ruocco, Enrica Zampetti

Collaborazione per scene, maschere e pupazzi Alessia Castellano

Collaborazione alla drammaturgia Daria Menichetti

Realizzazione costumi Rachele Ceccotti

Project manager Enrica Zampetti



oca, oche, critica teatrale
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