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Claudia Burzoni

Impertinente - Festival di teatro di figura | Settima edizione

Impertinente – Festival di teatro di figura trova le sue origini nel Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti che, dal 2014, porta avanti un progetto di promozione del cosiddetto “teatro di figura”, ossia quell’arte teatrale composta da burattini, marionette, ombre e oggetti di vario genere, il cui scopo è proprio la creazione di un linguaggio fortemente visivo e sensoriale. Impertinente deriva dallo spirito irriverente e anticonformista che caratterizza le diverse performance, nate per “parlare” – benché la parola sia in netta minoranza rispetto alle immagini e ai suoni – ad ogni tipologia di pubblico, infantile o adulto, colto o impreparato, incline alla comicità o alla tragicità.

Tramite tecniche e linguaggi notevolmente diversi tra loro, il teatro di figura si promette di scandagliare qualsiasi aspetto della realtà materiale e di quella astratta, penetrando nell’animo umano con la potenza di cui solo le immagini, dall’alba del Mondo, sono posseditrici.


Il Festival, dunque, si manifesta come un insieme di rappresentazioni molto diverse tra loro, accomunate dalla speranza che, non solo quello di figura, ma il Teatro “al completo”, possa finalmente tornare a comunicare, a far sognare, a far commuovere o divertire, ad aprire le porte per non chiuderle mai più.



Dal momento che non è stato possibile assistere a tutti gli spettacoli proposti dalla rassegna, ci prepariamo a dare uno sguardo a quelli selezionati (per motivi di tempistiche, è bene precisarlo, non perché vi fosse una sorta di scala di valori).


La pancia del mondo di Manuela Capece e Davide Doro

(visto l’8 dicembre 2021)



Molti di noi avranno il ricordo di quelle lampade notturne che, nel buio delle nostre stanzette, proiettavano tutt’intorno immagini di nuvole sorridenti, astri giocosi e buffi animali: quelle figure, tanto rassicuranti quanto surreali, avevano il compito di prepararci al sogno con l’ausilio della fantasia, di tessere storie e situazioni che potessero accompagnarci nel cammino della notte.

Questa è l’immagine che La pancia del mondo mi ha suscitato, trasportandomi in quell’universo onirico che, da adulti, abbiamo messo da parte per lasciare spazio, prima di addormentarci, a tutte le ansie e le preoccupazioni che la vita ci riserva.

Gli autori Manuela Capece e Davide Doro, nel raccontare i vari miti e le molte leggende che riguardano l’origine del Mondo, non hanno voluto “imporre” un’interpretazione univoca del proprio messaggio, bensì invitare il pubblico - specialmente i bambini presenti - ad una libera e fantasiosa elaborazione: grazie alle immagini e ai suoni proposti, tutto era immerso in un armonico caos, sinonimo di uno smarrimento salvifico che non deve spaventare, ma che al contrario consente di intraprendere infinite strade per raggiungere ciò che più soddisfa e rassicura.

Davide Doro, unico attore in scena, sebbene trasmetta tranquillità e naturalezza per l’intera durata della performance, non lascia trasparire le difficoltà che uno spettacolo simile comporta: il non avere punti di riferimento precisi, il doversi affidare alla memorizzazione dei movimenti, dei suoni, degli oggetti da utilizzare al momento giusto in una situazione di totale oscurità, senza alcuna “spalla” e senza l’ausilio delle parole.

E proprio l’assenza della parola, la forza simbolica degli elementi materici e la dimensione atavica dei suoni fanno de La pancia del mondo un magnifico esempio di teatro di figura, con un evidente invito ad accettare la lentezza che la contemplazione necessita all’interno di un mondo - il nostro - che, ormai, ci spinge ad andare sempre più veloci, a dare a tutto una risposta e ad essere man mano più disincantati di fronte all’unico, vero spettacolo: quello della Natura.


Elementi di pregio: l’aver mantenuto costantemente alti i livelli di concentrazione ed entusiasmo nel pubblico, non cedendo il passo alla ripetizione e, di conseguenza, alla noia, mettendo in mostra, con tecniche diverse, molteplici scenari.

Limiti: la breve durata dello spettacolo e la maestria con cui è stato messo a punto non mi consentono di scovarne i difetti o gli errori. Fortunatamente, oserei dire.


Au-delà du mur di Nino D’Introna

(visto l’11 dicembre 2021)



Sta avendo luogo una celebrazione solenne per l’inaugurazione di un nuovo muro. Al termine del discorso dell’autorità, i due addetti alla sicurezza sollevano il velo e scoprono questo muro imponente, tra le ovazioni e gli applausi della folla. Segue un momento molto importante, ovvero la scelta del design che il Muro deve avere: sarà di mattoni o in pietra? Con il filo spinato o liscio come una tavola? Nessuna di queste proposte soddisfa i due personaggi, che optano per lasciarlo neutro, così com’è stato presentato dal principio.

Con una chiave volutamente ironica, almeno all’inizio, viene proposto un tema di estrema attualità, nonché di preoccupazione: la costruzione di muri, di barriere, di dogane che impattano un Mondo divenuto così aperto da dover essere contenuto. L’autore e regista, Nino D’Introna, infatti, a proposito del suo Au-delà du mur, scrive: «La mia generazione è cresciuta insieme a muri che crollavano, le nuove generazioni insieme a muri che ricrescono». Basti pensare alla controversa situazione americana, a cosa sia successo sull’isola di Lesbo l’estate passata, ai campi profughi in Turchia e alle meno palpabili “chiusure” mentali che trovano radici anche nel Bel Paese.

Lo spettacolo è condotto esclusivamente da due personaggi, interpretati da Angélique Heller e Hélène Pierre, dalla duplice natura: reale, in quanto i loro ruoli sono ben definiti, e astratta, a causa delle maschere che indossano; la maschera, infatti, annulla l’espressività, la nazionalità, la cultura d’appartenenza e persino il sesso, in modo tale da non creare pregiudizi o discriminazioni d’ogni sorta. Siamo portati a ritenere che, dietro a quei volti inquietanti, si possa celare chiunque, compreso lo spettatore stesso.

Oltre a rappresentare una vera e propria barriera, in alcuni momenti il Muro assume i connotati del cosiddetto “varco” montaliano, grazie ai video e all’universo sonoro che ne permettono una continua trasformazione: la parete della prigione si apre in uno scorcio sull’oceano, la gabbia dello zoo si spalanca sulla brulla savana, il muro di una strada inondata dalla pioggia proietta il fuoco di un camino, e così via. Secondo Montale, infatti, l’essere umano era chiamato, di fronte alle difficoltà della vita, a ricercare una via di fuga, un “miracolo” che potesse trascinarlo fuori dalla realtà opprimente per andare incontro alla libertà, la stessa che i muri, storicamente, hanno sempre cercato di soffocare e limitare.

La pièce si conclude con l’abbattimento del Muro e questo sarebbe un messaggio di speranza, se non fosse che le macerie vengono poi recuperate da due scimmie, interpretate sempre dalle stesse attrici, che hanno però abbandonato la maschera del genere umano per indossare quella del regno animale: i due primati si ritrovano a dover riutilizzare quei mattoni sparsi per erigere un nuovo muro, dalla cui sommità vedono sopraggiungere l’uomo, pronto a distruggere il loro habitat. Da qui, lo spaesamento: i muri, a volte, sono utili o necessari? Anche l’animale, ingenuo e istintuale, è “costretto” a costruire barriere? Oppure il concetto di “muro” si è così saldamente radicato nella natura umana da divenire, inevitabilmente, parte integrante dell’evoluzione, dal momento che l’uomo stesso deriva dalle scimmie? Il pubblico è obbligato a fare i conti con questi interrogativi, avendo appena assistito a uno spettacolo ambiguo, disturbante e provocatorio fin dall’inizio, assecondando, così, la volontà dell’autore.


Elementi di pregio: la capacità di veicolare un messaggio intenso, estremamente attuale e di forte dibattito senza l’ausilio della parola, bensì con immagini e scenari dal forte impatto emotivo.

Limiti: la difficoltà nella comprensione totale dei singoli racconti, a tratti poco chiari, specialmente per il pubblico infantile a cui lo spettacolo era destinato.



Sonia e Alfredo – Un posto dove stare di Enrica Carini e Fabrizio Montecchi

(visto il 12 dicembre 2021)



Lo spettacolo è tratto dai libri di Catherine Pineur, Va-t’en, Alfred! e T’es là, Alfred? (editi da Pastel/Ecoledeloisirs), ma il testo drammaturgico di Carini e Montecchi fonde e sviluppa le vicende dei due libri in un’unica storia.

Alfredo (Tiziano Ferrari), un buffo uccellino con un berretto rosso, decide di lasciare la propria casa e di andare alla ricerca di un altro posto dove stare, in compagnia soltanto della sua seggiola rossa sulle spalle. Incontra altri uccelli, diversi da lui ma nessuno sembra volergli offrire ospitalità. Finché non giunge in una radura in cui si trova la casa di Sonia (Deniz Azhar Azari), una sorta di cicogna che adora danzare, prendersi cura dei suoi fiori e preparare il caffè. Sarà proprio grazie a quel caffè, offerto da Sonia al girovago Alfredo, che tra i due nascerà un’amicizia speciale, fatta di passioni condivise, come l’amore per il colore rosso e i libri, e di complicità. Una mattina, però, Alfredo scompare e Sonia, fattasi coraggio, decide di partire per ritrovare il caro amico perduto. Anche lei incontra altri uccelli lungo il suo cammino, non molto inclini ad aiutarla nella sua ricerca, fino a quando non incappa in altri esserini buffi che indossano berretti e portano una sedia con sé, proprio come il suo Alfredo: loro lo conoscono e le dicono che, per trovarlo, deve proseguire “sempre dritto”, ma anche di fare molta attenzione, perché potrebbe essere pericoloso. Sonia non capisce, è spaventata da quest’ultimo avvertimento, ma non si scoraggia. Arriva davanti a un muro di cinta dove, da sotto, Alfredo aiuta i suoi simili a scappare e a raggiungere il sicuro bosco. Lo spettacolo si conclude con un festoso momento di convivialità tra Sonia, Alfredo e gli altri amici “fuggitivi” che, finalmente, hanno trovato un posto sicuro dove stare.

Con un meraviglioso gioco di ombre e semplici parole, ci viene raccontata un’incantevole storia di amicizia che, allo stesso tempo, cela un messaggio molto potente: Alfredo è partito con la promessa di fare ritorno, ma solo dopo aver trovato un posto sicuro in cui la sua famiglia e i suoi amici potessero essere accolti; questo posto esiste ed è la radura in cui vive Sonia, che si trova “al di là del muro” che Alfredo e i suoi compagni attraversano, richiamando l’attenzione, in maniera delicata, sulla tematica dei rifugiati. Questi scappano da un luogo che, per loro, non è più protetto, attraversano le frontiere con l’aiuto di una persona fidata, incontrano personaggi che incarnano il rifiuto, per giungere, infine, alla pace e alla tranquillità che solo l’accoglienza può garantire.

Per questi motivi, lo spettacolo, sposando l’idea di raccontare tramite il gioco e la spensieratezza, racconta tutto questo con poche ed essenziali parole e con figure dal tratto semplice ma evocativo, di cui il Teatro Gioco Vita è esperto.


Elementi di pregio: la capacità di rendersi interpreti, tramite un utilizzo delle ombre tra i più creativi della scena teatrale odierna, dei grandi temi della vita (la tecnica utilizzata consiste nell’animazione di sagome di metallo, arricchite di vetri colorati, animate dagli stessi attori sulla scena, rendendole incredibilmente vivide su uno schermo completamente bianco).

Limiti: avrei preferito non vedere gli attori animare le ombre, proprio per avere l’idea che queste possedessero vita propria, fatto che si nota dal momento che il telo sul quale esse sono proiettate non nasconde completamente gli artisti e ne lascia intravedere le gambe. Tuttavia, è una questione meramente estetica, che non inficia il messaggio o il risultato finale.


La fola de l’oca, favole parmigiane lette da Piergiorgio Gallicani

(visto il 12 dicembre 2021)



Con la lettura della favola La stria e ‘l per (La strega e il pero), Piergiorgio Gallicani – storico attore del Teatro delle Briciole – ci trasporta in un mondo lontano, ma allo stesso tempo vicino: è il mondo dei nostri nonni e bisnonni, i quali, precedendo radio, televisori, tablet e qualsiasi congegno tecnologico, erano sempre pronti dispensatori di favole e leggende locali. Nel corso degli anni Settanta due amici, entrambi maestri elementari, Ulisse Adorni (autore e regista dell’allora nascente Teatro delle Briciole) e Giorgio Michelotti, decisero di raccogliere e mettere per iscritto tutti i racconti che riuscivano a reperire battendo il territorio parmigiano, ascoltando proprio quei nonni e bisnonni la cui eredità favolistica sarebbe, pian piano, andata perduta. Due volumi, Asini, Diavoli, Figlie di Re e Giovanén dal bastonsén, editi all’inizio degli anni Ottanta a cura della Cassa di Risparmio, furono il risultato di questo lavoro intenso: «Anche le favole sono una ricchezza, una parte del nostro patrimonio da difendere», si legge nell’introduzione.

E come dargli torto? Le fiabe di quei tempi, che oggi ci sembrano lontane anni luce, avevano sempre qualcosa da insegnare e, fatto per nulla scontato, questi insegnamenti rimanevano impressi, senza alcuna data di scadenza, divenivano parte integrante del nostro essere, ma soprattutto del nostro cuore. Adorni e Michelotti hanno così sottratto il patrimonio della cultura orale all’estinzione.

Si può parlare in questi termini anche del dialetto parmigiano o dei dialetti in generale? Nei piccoli centri abitati del Nord Italia, ma soprattutto del Sud, dove il dialetto ha una tenacia invidiabile, è un elemento ancora molto presente, ma in lenta decrescita. Nelle grandi città invece il “problema” è ancor più evidente: la commistione di più individui provenienti da regioni differenti e la presenza di culture e idiomi da tutto il mondo hanno fatto in modo che i dialetti si facessero via via più radi, poiché avrebbero reso quasi impossibile la comunicazione fra persone così diverse. Tutto questo mi porta ad un’inevitabile riflessione: il dialetto, così come le favole, può e deve considerarsi una ricchezza da preservare o dobbiamo rassegnarci alla naturale (ed inclusiva) evoluzione linguistica che ne comporta la scomparsa?

Piergiorgio Gallicani ha deciso di portare testimonianza della parlata parmigiana, traducendola per i più piccoli e scatenando la risata, quasi malinconica, dei genitori e dei nonni presenti.


Elementi di pregio: l’aver saputo coinvolgere, con simpatia e semplicità, il pubblico dei piccoli, pur utilizzando una lingua a loro sconosciuta e leggendo solamente una fiaba.

Limiti: il clima di dispersione e di confusione che si è creato nei primi minuti, dal momento che il pubblico, dopo aver assistito allo spettacolo Sonia e Alfredo, è stato invitato a spostarsi in un’altra sala priva di posti a sedere fissi, il che ha comportato un andirivieni di sedie risolto comunque in tempi brevi.



Légati al branco. Il pesce - pesce grande mangia pesce piccolo, di Marina Allegri e Maurizio Bercini (visto il 12 dicembre)



Impertinente si conclude nel foyer del Teatro delle Briciole, dove un’imponente installazione in ferro, realizzata dallo stesso Maurizio Bercini, autore, attore e regista associato delle Briciole, è stata collocata per l’occasione. La sagoma è quella di un enorme pesce che incombe sugli spettatori, mentre Bercini assume le vesti di un cantastorie di strada, incantando le folle con il racconto della Figlia di Mangiafuoco, il cui ardente desiderio era «dirottare un pesce» per poter fuggire dalla ormai opprimente realtà. Un giorno, dopo tante ricerche, la Figlia di Mangiafuoco, dopo essersi fatta inghiottire, «scappa dentro al pesce… e beato chi ci crede».

Il progetto Légati al branco prevede, infatti, diverse installazioni di animali creati dal ferro – in questo caso, il pesce – per far riflettere sulla simbologia che questi hanno sempre avuto nella letteratura, nell’arte, nella storia e di conseguenza nel teatro (e nel più recente cinema), focalizzandosi, soprattutto, sul rapporto uomo-animale. Questo controverso rapporto è, forse, enunciato dal sottotitolo Pesce grande mangia pesce piccolo: sebbene la Figlia di Mangiafuoco venga divorata da un gigantesco pesce, è lei a controllarlo, a dirottarlo, appunto, raggiungendo il proprio scopo; in quest’ottica, e nonostante le apparenze, è l’uomo ad assumere le sembianze del “pesce grande”, di colui che, anche di fronte alle leggi di natura, ne è un sovvertitore.


Proponendo una bellissima immagine e una doverosa riflessione, si conclude così l’Impertinente – Festival di teatro di figura, dopo averci regalato performance di altissimo livello, coinvolgendo artisti di fama internazionale e donando esperienze visive difficilmente rintracciabili nel panorama teatrale contemporaneo.



Crediti


La pancia del mondo

di Manuela Capece e Davide Doro

con Davide Doro

drammaturgia musicale Dario Andreoli

un progetto Compagnia Rodisio

una produzione Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti

fotografie Stefano Vaja


Au-delà du mur

concezione e regia Nino D’Introna

con Angélique Heller e Hélène Pierre

universo sonoro e musicale Patrick Najean

direttore generale Michael Jayet

tecnico luci Antoine Thibaud

tecnico video Mickael Arnoux

collaboratore ai costumi Roberta Vacchetta

collaboratore realizzazione luci Agostino Nardella e Antoine Thibaud

produzione CIE Nino D’Introna

coproduzioni Ville de Clermont Ferrand/Graines des Spectacles, La maison des Arts du Léman (Thonon), La CCMHV (Modane)

collaborazioni: Théâtre Jean Marais de Saint Fons (Lyon), Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani (Torino), G.R.A.C di Modane

direzione artistica Nino D’Introna


Sonia e Alfredo – un posto dove stare

dall’opera di Catherine Pineur

adattamento teatrale Enrica Carini e Fabrizio Montecchi

con Deniz Azhar Azari e Tiziano Ferrari

regia e scene Fabrizio Montecchi

sagome Nicoletta Garioni e Federica Ferrari (tratte dai disegni di Catherine Pineur)

musiche Paolo Codognola

costumi Tania Fedeli

luci Anna Adorno


La fola de l’oca

lette da Piergiorgio Gallicani

produzione Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti


Légati al branco. Il pesce – pesce grande mangia pesce piccolo

di Marina Allegri e Maurizio Bercini

con Maurizio Bercini

produzione Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti



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