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Marta Cristofanini

Mamy Blues | Exuvia


Ph. Vittorio Santi


La prima volta che ho visto un esoscheletro, l’ho scambiato per un insetto addormentato.


In realtà ne vidi ben più di uno: una fila di gusci perlacei riposava lungo il tronco d’albero, e alla persona che era lì con me dissi di trovare strana quell’immobilità assoluta rispetto alla nostra vicinanza. Mi fu risposto che l’immobilità era dovuta al fatto che, lì dentro, non c’era nessun insetto e che stavamo guardando quello che, semmai, era stato l’insetto, nella fattispecie una cicala. Stavamo guardando l’exuvia, i resti della sua muta, la cristallizzazione di un passato fisicamente abitato e la cui nuova vita ora friniva sopra le nostre teste.


L’immagine di quei fantasmi fragili aggrappati alla corteccia mi è riaffiorata nella Sala Diana del Teatro Garage, dopo aver assistito a Mamy Blues, lo spettacolo in chiusura della rassegna G.E.T Giovani Eccellenze Italiane, giunto alla sua seconda edizione. Luna Romani lo ha scritto e interpretato, vincendo il premio Fringe Off nel 2021.


Mamy Blues muove il proprio racconto dall’esperienza di maternità vissuta dalla drammaturga e attrice, dando spazio a quelle emozioni ambivalenti che si alternano nei mesi precedenti e successivi al parto. Un percorso di cui si parla troppo poco, dove gli aspetti meno idilliaci dell’esperienza faticano a emergere, riuscendoci spesso con parole circostanziate e intimidite dal giudizio. La gioia, la naturalezza che spesso le donne appena diventate madri sentono di dover esibire possono diventare un pericoloso boomerang emotivo, dove l’ammissione di sentimenti considerati più “oscuri” (il rifiuto, l’angoscia, l’apatia, il senso d’inadeguatezza solo per citarne alcuni) sono marchiati come inaccettabili.


A inizio spettacolo, sulla tripolina (il telo proiettore frangiato che costituisce la principale scenografia) vengono proiettate alcune parole che ben ne inquadrano l’anima: “Nel momento in cui un bambino nasce anche una madre sta nascendo. Lei non è mai esistita prima. La donna esisteva ma la madre, mai. Una madre è qualcosa di assolutamente nuovo.” Ed è così che tra confidenze raccontate al microfono fronteggiando il pubblico, intervalli musicali danzati e liberatori, e le video-interviste in cui due donne si raccontano con coraggiosa autenticità, scendiamo anche noi tra le ombre di questo territorio ancestrale e inesplorato, quello di un’esperienza di maternità dalle mille sfaccettature, e dove troppo spesso è la voce delle protagoniste (le madri) a venire in qualche modo censurata.


Ph. Vittorio Santi


Ogni maternità è unica e diversa, naturalmente; ma proprio per questo ho trovato emozionante e necessaria questa testimonianza, che si propone di mostrarci quel lato nascosto, scomodo, fatto di insonnia, cattivi odori, malesseri, ripensamenti. Fatto di fatica, inesperienza; fatto anche di paura, del peso di doversi confrontare con una società performativa e con una cultura radicata, che ci vede come madri nate solo perché donna è femmina, imprigionate come siamo in un rigido dualismo di specie dove è proprio lei, la femmina, a sapere, dovere fare la madre: in fondo, non è quello a cui siamo biologicamente destinate da sempre? Così, quello che è anche un ruolo manipolato e forgiato dalla cultura, diventa ostaggio delle inflessibili leggi di natura, quelle che t’imbavagliano strettamente, rendendoti impossibile gridare il tuo dolore, la tua confusione. Il tabù troppo spesso prevale sul benessere della persona, l’esperienza “altra” viene disconfermata e, quindi, resa invisibile. Anche durante il momento di confronto post-spettacolo in sala è emerso questo elemento di trovarsi spesso impreparate, fondamentalmente sole davanti a un cambiamento che sdoppia, e che può far perdere (anche se solo magari temporaneamente) le tracce di sé.


Sì, perché quel sé continua ad esistere, nonostante tutto: con un corpo e una faccia diverse, gli ormoni e i pensieri stravolti, ma è lì. È l’exuvia, polverizzabile con una minima pressione delle dita, e al tempo stesso massiccio monumento a ciò che si è state, e che si è.


Mamy Blues ha il pregio di fotografare proprio gli istanti di questo delicato passaggio, dove la donna sta lasciando dietro di sé la forma di ciò che è stata, non conoscendosi ancora nella nuova pelle che l’avvolge; e lo fa in un modo chirurgico e, sì, anche passionale, senza che la narrazione risulti fredda né esposta al rischio di autocommiserazione.


Mi viene in mente Walt Whitman e il suo Canto il corpo elettrico: “Canto il corpo elettrico, le schiere di quelli che amo mi abbracciano e io li abbraccio, non mi lasceranno sinché non andrò con loro, non risponderò loro, e li purificherò, li caricherò in pieno con il carico dell’anima.”


Il corpo elettrico, e generoso, delle donne è in grado di fare anche questo, di curare curandosi. Il monologo di Luna Romani è un vibrante canto d’amore, un canto di sé, del proprio divenire, la cui costruzione drammaturgica è ritmicamente ben bilanciata, e la sobrietà della messinscena (con l’ausilio di musiche e luci ben azzeccate) rafforza la potenza del messaggio di cui si fa tramite: basta il progressivo spogliarsi dalla deformante silhouette della tuta che l’attrice indossa a inizio spettacolo, per finire ad abbracciare insieme a lei, in un roteare da derviscio, tutta la complessità di questo rivelarsi, crepando i bordi e spaccando le proprie superfici, abbagliate da questa nudità nuova e ritrovata insieme, muovendo i primi, incerti passi per riconquistarsi la luce.


In una parola: nascere.



Elementi di pregio: la scrittura e composizione drammaturgica; l’espressività attoriale intensa; l’aver proposto una tematica di vitale importanza per la salute delle donne e delle loro famiglie, e di cui si parla ancora troppo poco.

Limiti: Nella scena iniziale, le parole sul nascere madri sono proiettate sullo schermo frangiato, il che forse dà un effetto un po’ di staticità e di “distacco” rispetto al ritmo narrativo dell’intero spettacolo, che è più emotivo e travolgente.




Visto il 18 marzo 2023, presso il Teatro Garage.


Scritto, diretto e interpretato da Luna Romani.


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